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Autore: Saelde_und_Ehre    07/05/2021    6 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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Nuovo capitolo, nuovo salto nel passato.
Prima di proseguire coi patemi, si torna un attimo a tempi più tranquilli, dove la storia di Hans e Friedrich ebbe inizio (questa vicenda si ricollega direttamente alla fine del capitolo XIV). Perdonate il momento Werther (ma con meno dolori), se potete.



 

XXI.
Das Opfer, das die Liebe bringt, es is das teuerste von allen
(parte prima)

 
 

Potsdam, 1937.

Il sole invernale splendeva in un cielo privo di nuvole, spandendo i suoi tiepidi raggi sulla stradina pavimentata fuori dal poligono della caserma. Appena usciti dall’edificio, il tenente von Kleist e il capitano Bühler furono investiti da un’ondata d’aria fresca che li ritemprò.
“Stavolta mi ha dato del filo da torcere, tenente,” ammise Hans, in quel suo modo discreto che aveva di complimentarsi con qualcuno.
“È stata una bella sfida,” convenne Friedrich, per poi rinnovarla. “Mi concederà mai una rivincita, signore?”
“Certe cose vanno meritate.” Bühler lo precedette di qualche passo, con la solita andatura marziale e le spalle dritte, ma il sorriso non abbandonava le sue labbra. “Lei è perfettamente in grado di tenermi testa, ma ci vuole più precisione sulle lunghe distanze.”
Von Kleist sorrise beffardo. “Preferisco i bersagli mobili.”
Un giorno ti inviterò per una battuta di caccia alla mia tenuta, pensò, ma per qualche motivo si trattenne dal dirlo. Forse perché erano in caserma, e anche il minimo accenno di ambiguità avrebbe potuto mettere a repentaglio il loro scomodo segreto, o forse perché non osava immaginare come avrebbe reagito l’altro. Tuttavia, non poté impedire alla sua immaginazione di correre, e quella del capitano doveva aver fatto lo stesso, perché qualche istante dopo gli propose: “Potremmo andare a caccia insieme, un giorno.”
“È un’ottima idea, capitano.”
Nessuno dei due proseguì il discorso, che suonava a tutti gli effetti come una decisione già presa all’unanimità e che Friedrich nella sua mente continuava a rifinire. Salutarono di sfuggita i loro camerati riuniti davanti al circolo ufficiali e poi passarono oltre; entrambi erano conosciuti nel reggimento come persone riservate, che si circondavano di poche amicizie selezionate, e gli altri non si stupivano di vederli trascorrere il tempo libero insieme.
Hans camminò fino alla solita panchina all’ombra della quercia: l’imponente albero era vestito di brina, e il suo tronco nodoso, testimone di molte epoche, li osservava impassibile e complice al tempo stesso. Mentre si sedeva, Friedrich non poté fare a meno di chiedersi se nelle passate generazioni ci fossero stati altri soldati come loro a rendere l’albero custode dei propri segreti, o se fossero proprio loro due i primi.
In piedi di fronte a lui, il capitano manteneva il solito apparente distacco, ma la postura era rilassata e i suoi occhi seguivano il volo di un gruppetto d’uccelli che si posavano sui rami: i pochi che non avevano preso la via del meridione. “Tra qualche settimana saranno tre anni che mi trovo qui a Potsdam.”
Von Kleist si stupì di quell’inaspettata confidenza: Hans non parlava quasi mai del suo passato, e quella reticenza gli suggeriva che ci fosse qualcosa che lo turbava. Eppure, forse senza volerlo, l’altro gli aveva lasciato capire molte più cose di quanto fosse disposto ad ammettere. Esitò per qualche istante, poi chiese: “E quali furono le tue prime impressioni?”
Bühler aggrottò impercettibilmente le sopracciglia, senza smettere di guardare il cielo. “Non è stato semplice all’inizio, non avevo mai lasciato la mia regione prima di allora,” ammise con voce incolore, allacciando le braccia dietro la schiena. “Ma col senno di poi, direi che è stata la cosa migliore. Mi trovo bene qui, non tornerei indietro nel tempo.”
Friedrich annuì, e il capitano si sedette accanto a lui, accendendosi una sigaretta con un fiammifero. Il turbamento di poco prima sembrava essersi attenuato, e i capelli castani erano leggermente scompigliati dal berretto che si era tolto. C’erano molte altre cose che avrebbe voluto chiedergli, ma non poteva farlo sotto quella quercia: le caserme avevano occhi e orecchie ovunque. La sera prima, quando si erano attardati nel bosco di betulle, Hans lo aveva riaccompagnato a casa che era già buio pesto, ma le sensazioni di quell’ultimo bacio avevano continuato per tutta la notte a riaffiorargli alla mente, incalzando i battiti del suo cuore. Non aveva il coraggio di rievocare quell’episodio, neanche coi pensieri, ma intuiva dal contegno di Hans che qualcosa dovesse essersi smosso anche dentro di lui.
Voltò appena la testa per guardarlo, accorgendosi che l’altro stava facendo lo stesso con le sue iridi di bronzo fuso: le parole, in quel momento, erano superflue.
Ormai gli era chiaro: non voleva che quel rapporto, che si era cementato in silenzio mentre le parole e gli atti rimanevano ambigui, si esaurisse con qualche bacio rubato all’ombra degli alberi. Desiderava conoscerlo a fondo, recuperare tutto ciò che avevano lasciato in sospeso; e qualcosa gli suggerì che, forse, quel desiderio era condiviso.

“Allora, Friedrich, come ti trovi col nuovo capitano?”
La voce di Konrad lo distolse dalla contemplazione del quadro ottocentesco di fronte alla sua poltrona. Nella sala scherma non aveva potuto raccontargli il colloquio avuto con Bühler, ma l’umiliazione che quelle parole gli avevano indirettamente inferto continuava a bruciargli – a tal punto che doveva aver impresso ancora più violenza nelle stoccate, quando quel pensiero tornava a fare capolino. “Abbiamo avuto una… discussione, poco prima che venissi a cercarti,” ammise a mezza bocca, omettendo tuttavia il contenuto del discorso.
“Io lo conosco di vista da quando è arrivato… sta sempre sulle sue, ma mi sembra un tipo in gamba. Che hai combinato stavolta?”
Friedrich si irrigidì, ma cercò di non scomporsi di fronte al sarcasmo dell’amico. Si versò da bere e accavallò le gambe, continuando a osservare la battaglia di Lipsia riprodotta nel quadro. “Ha fatto qualche allusione poco lusinghiera al mio rango dopo che ho protestato per essere stato spedito in magazzino, e mi ha trattato come una specie di ragazzino viziato.” Si rigirò il bicchiere tra le mani, già sapendo che anche il suo amico la pensava allo stesso modo del capitano sulle questioni militari. “Però, sai, non è quello a turbarmi.”
“Allora cosa?”
Egli esalò un sospiro, spostando lo sguardo sul fondo del bicchiere colmo di liquido ambrato. “Non lo so. Con qualcun altro forse non mi sarei neanche posto il problema, ma lui… vorrei che mi vedesse diversamente.”
“Non è che forse ti interessa anche in qualche altro senso?” domandò Konrad senza mezzi termini, inarcando un sopracciglio.
Come Friedrich aveva previsto, lo aveva capito subito. E sì, non poteva negarlo: Bühler gli piaceva perché era solido, affidabile, competente. Non cercava il contatto diretto coi subalterni, ma era sempre presente alle adunate e agli allenamenti, sempre tra i soldati. L’esatto contrario del suo predecessore…
Esitò brevemente prima di rispondere, con cautela: “Non proprio… mi piace come pensa, mi piace come si comporta. È quel tipo di comandante che seguirei senza indugio.”
E poi c’erano i suoi occhi profondi e seri, che celavano qualcosa oltre la facciata granitica…
“È praticamente il tuo opposto, dal punto di vista militare.” Quella battuta alleggerì l’atmosfera e lo riportò coi piedi per terra, strappandogli un sorriso.
“Io non credo che sia così diverso da me…” sentenziò Friedrich. “Lui crede di conoscermi, ma non mi conosce affatto.”
“E tu pensi di conoscerlo meglio?”
“Di sicuro non mi fermo alle apparenze, cerco di guardare oltre. Magari anche lui, domani all’esercitazione, se ne renderà conto.”
Konrad rimase per qualche secondo in silenzio, riflettendo sulle sue parole. “Ti consiglio di stare attento, visto che è il tuo comandante: è sempre bene evitare di mischiare le faccende militari a quelle personali.”
“Certo, non ho mica intenzione di provarci con lui! Tu per caso mi ci vedi, ad avere una relazione con un mio superiore?” L’unica relazione che avesse mai avuto in vita sua, se così si poteva definire, era stata con un suo compagno di corso ai tempi in cui era cadetto, e non era mai andata oltre qualche casto bacio rubato all’ombra degli alberi. Era durata pochi giorni, nel costante timore di essere scoperti, poi non si erano più rivolti la parola. Già era stato difficile all’epoca, anche se erano entrambi aristocratici… e poi chi gli diceva che Bühler avesse i suoi stessi gusti? Una parte di lui ci sperava, ma l’altra… “Non voglio attirare la sua attenzione, voglio soltanto dimostrargli che si sbaglia sul mio conto.”
Konrad piegò le labbra in un sorriso enigmatico, ma non disse niente, e il discorso cadde così com’era iniziato.

Hans richiuse il libro con un tonfo: per quanto cercasse di concentrarsi sulla lettura, alla luce calda della lampada, la sua mente continuava a deviare il corso dei pensieri. Sorbì un lungo sorso di tè e distese le gambe, sprofondando nella poltrona consunta del salotto.
Era passato qualche giorno da quando aveva baciato Friedrich nel bosco, e ogni notte, in sogno, continuava a rivivere quella scena arricchita da dettagli sempre nuovi: la bandiera, la passeggiata a cavallo, la vecchia quercia, la battuta di caccia…
Con un sospiro si passò una mano tra i capelli, posò la tazza fumante sul bracciolo e riaprì il libro. Quasi come a farlo apposta, il suo sguardo fu catturato da due strofe:

Das Opfer, das die Liebe bringt,
Es ist das teuerste von allen;
Doch wer sein Eigenstes bezwingt,
Dem ist das schönste Los gefallen.

Nur wenn das Herz erschlossen,
Dann ist die Erde schön.
Du standest so verdrossen
Und wußtest nicht zu sehn.

Rimuginò a lungo su quelle parole, come se il loro autore stesse parlando direttamente a lui.
Il sacrificio richiesto dall’amore è tra tutti il più gravoso, ma la sorte premia chi riesce a conquistarlo. Quando il cuore accetta di accoglierlo, il mondo appare più bello; ma tu, così titubante, ti rifiutavi di vederlo.
Se quella poesia non fosse stata scritta un secolo e mezzo prima, se Hans avesse conosciuto Goethe di persona, dal modo in cui ogni singolo verso riusciva a colpirlo nel profondo sarebbe potuta sembrare una sorta di dialogo confidenziale tra lui e il poeta.
Aveva sempre considerato i sentimenti come una distrazione superflua, qualcosa che si poteva sopportare in silenzio se non c’erano possibilità di coltivarli. Lo aveva fatto per molto tempo, considerandoli un sacrificio molto meno oneroso di quello che avrebbero comportato: la segretezza, il timore di essere scoperti, il mostrarsi vulnerabile di fronte a un’altra persona. Il Paragrafo 175…
Una relazione tra due ufficiali della stessa compagnia, poi, sarebbe stata il più gravoso tra i sacrifici, perché avrebbe potuto compromettere anche la condotta militare.
Eppure… infilò il segnalibro a quella pagina e si alzò, andando a rovistare in uno dei suoi cassetti. Dal fondo ne trasse una cartella rossa dagli angoli consumati, vecchia di parecchi anni, e rimosse l’elastico di corda che la teneva chiusa: sul tavolino del salotto si sparpagliarono decine di disegni a matita che aveva fatto quando ancora si rifugiava nei boschi intorno al suo paese natio, per trascorrere qualche ora in solitudine. C’erano scorci di paesaggi, castelli, animali, scene di libri che aveva letto e luoghi immaginari; alcuni incompleti, che non aveva mai avuto il coraggio di far vedere a nessuno. Li scorse in fretta, senza neanche soffermarsi a riguardarli, fino ad arrivare all’ultimo disegno, il più recente e anche il più personale: la data scritta sul retro risaliva a poco prima di Natale.
All’ombra di una quercia secolare, un cavaliere montato su un morello reggeva uno stendardo bianco, con una croce patente e un’aquila nera. Una spada pendeva dal suo fianco, avvolta in un ricco fodero, e i capelli biondi erano scompigliati dal vento mentre guardava fisso di fronte a sé, negli occhi di chi lo aveva ritratto: lui.
Quello era il risultato delle sue conversazioni con Friedrich, in cui ogni dettaglio rimandava a qualcos’altro, di quello sguardo che era rimasto impresso nella sua memoria e che lui, per riversarlo da qualche parte, aveva voluto imprimere sulla carta.
Scrollò la testa, dandosi dell’ingenuo per aver creduto in quel modo di potersi liberare di quei pensieri. Non un destino imperscrutabile, ma il puro caso aveva posto Friedrich sulla sua strada, e lui si era ritrovato a fare scelte che non avrebbe reputato possibili.
Tre anni che mi trovo a Potsdam.
Ripensò alla conversazione sotto la quercia e alle cose che aveva taciuto sul suo trasferimento: non era stato facile lasciare Heidelberg ed essere abbandonato da una persona per la quale aveva creduto di contare qualcosa, per poi bruciare nel camino tutte le lettere che avrebbe voluto scrivergli. Col tempo i suoi sentimenti si erano affievoliti; perfino il ricordo di lui aveva perso rilevanza, fino a sbiadire come un quadro esposto alle intemperie. Da allora, era rimasto fedele alla sua ferrea decisione di rinunciare a qualsiasi legame, relegando il suo segreto in un luogo in cui non avrebbe potuto nuocere né a lui né ad altri… tranne con von Kleist, che aveva sempre trattenuto in bilico tra ambiguità e reticenza.
Era stato relativamente facile per il tenente abbattere tutti i pregiudizi che lui si era fatto sul suo conto, mostrandosi per quello che era e non per quello che appariva. Allo stesso modo, si sentiva come se solo con lui potesse mostrare il proprio vero essere, quello che esulava dalla ferrea disciplina militare e dalle stellette d’oro di capitano.
Lo sguardo che gli aveva rivolto porgendogli lo stendardo era stato l’inizio di tutto, il premio della vittoria che avevano ottenuto insieme.
Forse, pensò, ne valeva davvero la pena. Unirsi in quel sacrificio reciproco, fare fronte comune contro le insidie del mondo esterno. Non dovevano vivere come due sovversivi, ma essere l’eccezione all’interno della legge, che si integrava in essa e la valorizzava, pur mantenendo il suo carattere di autenticità.

La superficie del lago era una lastra di ghiaccio trasparente, su cui si riflettevano le sfumature serene del cielo e le cime degli abeti coperti di neve. Manfred von Kleist, la sciarpa di lana tirata su fino al mento, si strinse istintivamente nel cappotto: dopo i mesi trascorsi in Spagna, il rigore degli inverni prussiani gli appariva più severo. Tutto il contrario di quando era arrivato in Andalusia, a novembre, e si era meravigliato di trovare un clima così tiepido e le palme indolenti che si lasciavano accarezzare dal vento sul lungomare. Affondava gli stivali nello strato di neve, preceduto da Reinhardt e Konrad; Friedrich si era allontanato per inseguire il suo cucciolo dal pelo argentato, che scorrazzava qua e là incurante del freddo e abbaiava agli uccelli.
“Come vanno le cose in Spagna?” gli domandò il tenente della Leibstandarte, affiancandolo.
Manfred levò lo sguardo verso il cielo, attraversato da candide nuvole. “Non benissimo per le forze nazionaliste, infatti tra due giorni dovrò ripartire. A Madrid i comunisti resistono…”
Sul volto dell’altro passò un’ombra fugace. “In molti si sono legati alla nostra causa… ma là fuori continuano a guardarci con diffidenza.”
“Non è detta l’ultima parola. Almeno sul piano militare, le tattiche del Blitzkrieg stanno iniziando a dare i propri frutti. Anch’io ho avuto confermato il mio primo abbattimento: un Polikarpov I-15.” L’aviatore si rivide a volteggiare in battaglia sopra i cieli spagnoli, a bordo del suo biplano, mentre il vento gli sferzava il viso e la sciarpa gli ondeggiava intorno al collo. Affacciandosi dalla carlinga, riusciva a scorgere le colonne di fumo, le rovine, le file ordinate di carri armati, le ferrovie divelte dalle bombe. Nessuno osava indugiare troppo a lungo su quello scenario di distruzione, ma guardava avanti, a quando…
“Un giorno ne sarà valsa la pena,” disse Reinhardt. “Se dovesse vincere il marxismo, sarebbe la fine per l’Europa così come la conosciamo. Le generazioni future non meritano un mondo simile, non meritano di essere annientate da una politica così alienante.”
“Hanno bisogno di qualcosa in cui credere… qualcosa che dia loro speranza.” Manfred si accorse che erano rimasti da soli: Konrad aveva raggiunto Friedrich, e il piccolo Hubert gli si era aggrappato alle gambe scodinzolando festoso. Il principe raccolse un pezzo di legno e lo lanciò lontano, rimanendo poi a guardare il cane che scattava per recuperarlo.
“Certo che ne sono cambiate di cose, in poco tempo,” riprese l’altro, lo sguardo rivolto nella stessa direzione. “Mi ricordo ancora quella volta, mentre tornavo da scuola – avrò avuto quindici o sedici anni – in cui mi ritrovai ad assistere a una rissa tra rossi e camicie brune. Non me ne stupii per niente, ormai ci ero abituato: a quei tempi violenze del genere erano all’ordine del giorno. Ma poi li vidi tirar fuori le pistole…”
Manfred sgranò gli occhi. “E che facesti?”
“Tra le camicie brune riconobbi un mio amico, di qualche anno più grande di me, che veniva spinto contro il muro, e senza pensarci due volte intervenni per difenderlo…” Reinhardt si lasciò scappare una risata leggera, scuotendo la testa. “Quando la polizia giunse sul posto trattennero anche me e, una volta tornato a casa, mio padre mi fece una lavata di capo che non dimenticherò mai… ma fu proprio parlando con lui che decisi di arruolarmi come volontario.”
“Ci sono esperienze che ti cambiano nel profondo, anche senza che tu te ne accorga,” convenne l’aviatore. “Io non ho mai fatto a botte con nessuno, ma entrai nell’aeronautica quando era ancora un’unità clandestina.”
“Adesso quei tempi sono finiti, per fortuna. E sai, è bello pensare che almeno i nostri fratelli minori non vivranno quel clima di tensione e violenza che abbiamo vissuto noi, che la gioventù di oggi può sperare in qualcosa di migliore. Sono passati pochi anni, ma un giorno anche noi potremo dire di averne fatto parte… di aver contribuito a creare tutto questo.”
A Manfred venne da ripensare a suo fratello Siegfried, che con lui condivideva il sogno di volare. “Tu hai fratelli?”
“Sì, uno. Ha solo sedici anni, ma sa il fatto suo,” rispose Reinhardt con orgoglio.
“Muovetevi, che tra poco è buio!” li interruppe la voce di Konrad, mentre Friedrich li osservava da sotto la visiera del berretto. Hubert, saltellando e scodinzolando, li richiamò con un latrato: erano quasi arrivati alla casa di legno dove avrebbero trascorso la notte.

La dimora sul lago era completamente avvolta nel silenzio; Hubert dormiva sul tappeto ai piedi del letto a castello, le orecchie pendenti che gli ricadevano sul muso.
Manfred, che occupava la branda in alto, si mosse facendola scricchiolare e mise da parte il libro che stava leggendo alla luce di una candela. “Friedrich?” bisbigliò.
“Sono sveglio,” gli rispose il fratello, girandosi su un fianco.
Dopo una breve pausa, l’aviatore riprese: “Anche in Spagna dormiamo su delle brande così, solo che sono più scomode. Qui, invece, mi sento a casa… quante volte ci siamo rifugiati in questa capanna dopo le escursioni sul lago, per poi passare le nottate a parlare mentre gli altri dormivano?”
Friedrich non poteva vederlo in faccia, ma riusciva a immaginare i suoi occhi che brillavano. “Ti avrei proposto io di venirci, se tu non l’avessi fatto per primo.”
“Sì, mi ci voleva proprio una serata così, insieme a voi. Quando sei in guerra ti abitui in fretta, e ogni momento lontano dai campi di battaglia assume un significato diverso: impari a godertelo di più…” Altra pausa; Manfred si mise a sedere con la schiena contro la parete come faceva ogni volta. “Però non mi pento di essermi unito alla Legione. Ho conosciuto aviatori spagnoli e italiani, ho ascoltato le loro storie… e nonostante le lingue e le culture differenti, è stato bello scoprire che condividevamo le stesse idee, gli stessi sogni.”
“Abbiamo pur sempre radici comuni,” commentò Friedrich. “Fin dai tempi più remoti, sono state le divergenze e non l’odio reciproco a metterci l’uno contro l’altro.”
L’aviatore annuì nel buio. “Forse è ancora presto per dirlo… ma io spero davvero in una fratellanza europea, finalmente unita contro chi mira a spazzare via la nostra storia e la nostra identità.”
“Forse i tempi non saranno mai abbastanza maturi, e di sicuro non tutti saranno disposti ad accettarlo, ma è solo con determinazione e abnegazione che si può ambire a conquistare qualcosa di impossibile.” Friedrich esalò un sospiro, piegando un braccio sotto il cuscino. “Credo che una guerra su scala europea sia ormai inevitabile, tra qualche anno… ma non riesco proprio a immaginare quello che potrebbe succedere.”
Se c’era un pensiero che proprio non riusciva a togliersi dalla testa, era quello di Hans e delle parole che si era trattenuto dal rivolgergli nell’archivio, mesi prima: “Se dovessimo partire per una guerra, spero di trovarmi insieme a lei.”
Aveva capito istintivamente che era proprio lui il tipo di uomo che aveva sempre cercato, nei suoi sogni e nelle sue fantasie, e approfondire la sua conoscenza non aveva fatto che confermarglielo. Sia da un punto di vista militare che da un punto di vista umano.

Legarono i cavalli alla staccionata e si inoltrarono nel boschetto spruzzato di neve, mentre le ombre del pomeriggio si allungavano. Hans precedeva Friedrich, voltandosi di tanto in tanto al di sopra della spalla come per accertarsi che lo stesse seguendo. Nessun rumore, a parte quello degli stivali che calpestavano il suolo friabile, turbava quella quiete.
Giunse fino a una panchina all’ombra di un salice e si mise a sedere, aspettando che il tenente facesse lo stesso: sembrava aver capito che lo aveva condotto fin lì per parlargli, e lo fissava con uno sguardo carico di aspettativa.
Trascorse un lungo istante di silenzio, poi fu proprio Friedrich il primo a parlare. “Hans, anch’io vorrei dirti una cosa.”
Il capitano esitò, tamburellando le dita sulla pietra: la sua bocca stava per pronunciare parole che il suo cervello non pensava, una frase la cui risposta avrebbe sancito lo sviluppo degli avvenimenti futuri. La esalò tutta d’un fiato: “È inutile girarci intorno, Friedrich. Se non vuoi… sei ancora in tempo per tornare indietro.”
Le pupille dell’altro si dilatarono, quasi come se non riuscisse a credere a ciò che aveva udito. “No, non voglio tornare indietro… non possiamo. Non più.”
Hans si tese impercettibilmente verso il tenente, che allungò le mani verso di lui e le intrecciò tra le proprie. “Questa cosa dovrà restare tra noi, lo sai, vero?” lo ammonì, rinsaldando la presa su quelle dita fredde, che s’intiepidirono al contatto con le sue. “Nessuno dovrà permettersi di sospettare, per nessuna ragione. Né in caserma, né fuori…”
“Perché pensi che possa dirlo in giro?” domandò l’altro in un sussurro. “Fermo restando che sono del parere che la gente dovrebbe farsi gli affari propri, parimenti sono affari nostri se ci piace stare insieme, no? È una cosa che riguarda noi e tra noi resterà.”
“Non è solo quello,” proseguì il capitano. “Se quando siamo da soli decadono tutte le regole della gerarchia, in servizio non dovrà cambiare niente.”
Gli occhi fissi nei suoi, Friedrich annuì. “So anche quello, Hans. So già tutto.” Abbozzò un sorriso, che gli addolcì i lineamenti e illuminò le sue iridi chiare. “Come sul campo, ci copriremo le spalle a vicenda.”
“Ottimo.” Hans sorrise a sua volta, rinfrancato. “E poi un’ultima cosa, anche se lo sai già: non posso fare personalismi solo perché sei tu, e non accetterò lamentele in privato.”
A quelle parole, pronunciate con un ghigno ironico, il tenente ebbe il suo consueto guizzo di sfida. “Per chi mi hai preso, Schwabe, per la fidanzatina petulante?”
“È sempre meglio mettere le cose in chiaro, Preuße,” replicò lui, rispondendogli a tono. “E per tua informazione, io sono un Badener.”
“Che vuoi che sia? È la stessa cosa.”
“Non è assolutamente la stessa cosa. È come se io ti dessi del pomerano.”
L’altro alzò gli occhi al cielo. “Come sei pignolo.”
“Tu invece sei un impertinente, ma è proprio questo che mi piace di te.”
Friedrich gli si avvicinò, sfiorandogli la guancia con le punte delle dita. “E tu mi piaci anche se sei così.”
“Così come? Pignolo? Oppure era un complimento?”
“Tutte e due.”
Si guardarono e scoppiarono entrambi a ridere di una risata spontanea, che sembrò riscaldare l’atmosfera. Una leggera folata di vento scosse le fronde del salice, accarezzando i loro capelli, e le distanze tra loro scomparvero.
Si separarono con una certa riluttanza, le mani del tenente ancora aggrappate al bavero del suo cappotto, ma Hans fece un passo indietro e lo guardò dritto negli occhi. “Spero che sia chiaro quello che ho detto poco fa, von Kleist.”
L’altro ricambiò con altrettanta intensità. “Sì, signor capitano.”
Fu con un sorriso che constatò che le parole di Friedrich erano serie, gli avvolse un braccio intorno alle spalle e lo baciò sulla fronte. “Che ne dici di incontrarci una di queste sere, fuori dall’orario di servizio? Magari domani…”
Friedrich gli cinse la vita e appoggiò la testa sulla sua spalla. “Volentieri… conosco un bel posto dove potremmo andare a cena.”

Friedrich e Hans camminavano lungo le rive del fiume Havel, di ritorno dalla serata trascorsa insieme. Le stelle splendevano simili a tanti piccoli diamanti, e le nuvole aleggiavano sopra la città come strisce di polvere argentata. La cupola azzurra della chiesa di San Nicola riemergeva da dietro i tetti degli edifici, illuminata dalle luci dei locali notturni ancora aperti.
“Alla fine abbiamo fatto quasi le undici,” disse il tenente, guardando il grande orologio all’angolo della strada. Quando i primi fiocchi di neve iniziarono a scendere dal cielo, infilò le mani in tasca e continuò a camminare, in cerca di un posto riparato in cui fermarsi.
Hans, rimasto qualche passo indietro, si voltò a osservare le acque leggermente increspate: avevano cenato insieme e avevano percorso più di mezza città a piedi, parlando di tutto e di più, come due vecchi amici. Vestiti in borghese, mantenendo un basso profilo, per qualche ora avevano quasi dimenticato di essere un capitano di fanteria e un suo diretto subalterno.
Fuori dal locale più vicino proveniva una melodia di pianoforte, e una voce femminile intonava una nostalgica canzone d’amore. Hans si affacciò al suo interno: ai tavolini sedevano solo coppie attempate, con uomini in abiti eleganti e donne ingioiellate dai capelli vaporosi. “Non fa per noi,” sentenziò, con un sorriso sghembo. “A quest’ora i locali saranno tutti pieni… e se devo essere sincero, non mi va di stare ancora in mezzo alla gente.”
“Nemmeno a me,” convenne Friedrich. Gli si avvicinò e alzò lo sguardo su di lui. “Potresti fermarti a casa mia, almeno mentre aspettiamo che smetta di nevicare. Ti offro qualcosa e…”
Hans lo interruppe con un cenno che voleva essere al tempo stesso una conferma, e si lasciò guidare attraverso le vie del centro. Man mano che si allontanavano, il volume delle voci e della musica iniziava a scemare e le luci delle abitazioni si spegnevano una dopo l’altra.
Arrivarono in una stradina secondaria, dove un cancello in ferro battuto segnava l’ingresso di un cortile sovrastato dalla mole del palazzo settecentesco. L’usciere salutò il signor conte e il suo ospite con deferenza e li lasciò passare senza fare domande.
Meravigliato da quell’appellativo, Hans aggrottò appena le sopracciglia, ma si limitò a seguire Friedrich su per la scalinata in marmo chiaro, illuminata da preziosi lampadari e da un lucernario che lasciava filtrare all’interno la luce delle stelle.
Non si aspettava quel cambio di programma, ma ciò che lo stupì maggiormente fu rendersi conto che non si sentiva spaesato come aveva immaginato all’inizio: quello che era successo non era che la naturale conclusione di un processo sviluppatosi senza forzature. Sentiva quasi l’animo alleggerito al pensiero di essersi liberato da così tanti affanni in una sola sera.
Friedrich aprì la porta dell’appartamento all’ultimo piano e accese la luce all’ingresso, facendo entrare lui per primo. Il piccolo Hubert, ridestato dai rumori, corse a salutarli.
“Però, è cresciuto”, osservò il capitano. Quando si chinò verso la sua figura scodinzolante, il cucciolo gli saltò tra le braccia e gli leccò il naso.
“È anche molto affettuoso.” Friedrich sorrise. “L’avevo detto che gli piacevi.”
Perfettamente a suo agio in quell’anticamera arredata con colonne in marmo e quadri di pregio, il tenente lo precedette di qualche passo, accennando con un cenno del capo alla porta del salotto. Era un luogo raccolto, con un camino spento, tappeti persiani e un orologio a pendolo che riempiva il silenzio coi suoi ticchettii. Un’intera parete era occupata da una libreria colma di vecchi volumi, su cui si concesse di indugiare qualche secondo più del dovuto; nell’angolo vicino alla finestra vide un pianoforte con uno spartito aperto. Nessuna ostentazione di ricchezza, nonostante l’evidente eleganza dell’arredamento: sembrava rispecchiare l’anima del suo abitante.
“Puoi accomodarti.” La voce di Friedrich, che nel frattempo era andato ad accendere il fuoco, lo richiamò, indicando il divano rivestito di velluto. “Vado a prendere qualcosa da bere.”
Quando, un paio di minuti dopo, tornò con una bottiglia e due calici, lo ritrovò seduto sul divano a giocare col cane. “Riesling… è delle tue parti, no?” gli disse, mentre la stappava e mesceva il vino.
Hans annuì da sopra la spalla, immaginando che non fosse una scelta casuale. Dal bicchiere proveniva una fragranza fruttata, familiare, che lo riportò agli anni della sua infanzia. Lo sorbì lentamente e si ritrovò a parlare del paese in cui era cresciuto, diviso a metà dalla striscia argentata dell’omonimo fiume, che scorreva a pochi passi dalle case a graticcio, delle facciate dipinte di colori sgargianti e del vecchio mulino in cui si rintanavano i gatti. “Non avevo molti amici, e in genere preferivo stare da solo,” spiegò. “Tutt’intorno al mio paese – sembra uno di quei posti da cartolina – ci sono colline tappezzate d’alberi e una strada sterrata che porta alle rovine di un castello medievale. Allora, tornato da scuola, mi andavo a rifugiare lassù fino all’ora di cena… a volte mi portavo un libro, altre volte il blocco da disegno.”
“Ah, sì? E cosa disegnavi?”
“Quello che vedevo… con gli occhi o con la mente.”
“Un giorno mi piacerebbe vederli,” disse Friedrich con slancio; il suo completo blu scuro accentuava l’azzurro dei suoi occhi.
“Non te lo consiglio, sono orribili.” Hans rise lieve, ma si fece subito serio. “Mi diletto a imbrattare carte a tempo perso, non aspettarti chissà che.”
“Io invece non penso che siano così brutti,” insisté l’altro, fissandolo. “Io strimpello col piano, e qualche volta mi diverto a improvvisare dei pezzi di mia invenzione. Ti propongo un patto: io ti faccio sentire le mie composizioni e tu mi mostri i tuoi disegni.”
Il capitano rivolse uno sguardo al pianoforte, immaginando Friedrich seduto al panchetto che suonava, e ripensò al ritratto del cavaliere teutonico che reggeva lo stendardo. “Se la metti così, si può fare… però spetta a te l’onere e l’onore di iniziare.”
“Lo avrei fatto comunque,” ammise Friedrich, dopo una breve pausa.
“Magari la tua musica riuscirà a darmi qualche idea…” Sentivano le teste leggere; le loro mani erano ormai intrecciate e i loro volti a un palmo di distanza. Hans si bloccò a metà frase, perdendosi nei suoi brillanti occhi chiari, e il tenente lo ricambiò con uno sguardo ugualmente anelante. Qualunque fosse la cosa che voleva dire, se la dimenticò.
Un istante dopo, le loro labbra si unirono smaniose, quasi fondendosi le une con le altre. Friedrich affondò le dita tra i suoi capelli e Hans lo spinse giù, sentendo il corpo del giovane che si tendeva per ricercare il calore del suo.
Nessuno dei due volle più opporsi a quella tempesta, che non appariva più come una minaccia, ma si scatenava fuori dal loro rifugio sicuro, come per proteggerli.
Le mani, febbrili, iniziarono a slacciare i bottoni; il capitano si sollevò su un gomito e lo fissò: sprofondato tra i cuscini, i capelli scarmigliati dalla foga, Friedrich aveva le labbra leggermente dischiuse e il volto acceso. Un potente brivido di desiderio, simile a una scarica elettrica, gli attraversò le membra. “Questo divano è un po’ scomodo…” borbottò per stemperare la tensione, coi piedi fuori dal bracciolo.
Friedrich sorrise, indicando con la testa il corridoio buio. “Di là c’è un letto abbastanza grande per entrambi. Che ne dici?”
Come sospeso in un sogno, Hans annuì. “Andiamo?”
“Andiamo.”

Friedrich chiuse a chiave la porta della camera, che li accolse col rassicurante tepore delle coltri damascate. Si protese verso il capitano per baciarlo ancora una volta, gli avvolse le braccia intorno al collo e ricadde all’indietro sul letto, abbandonando i vestiti dietro di sé con noncuranza. Hans si lasciò scivolare la giacca giù dalle spalle, poi si rialzò strappandogli un mugolio di disappunto.
“Dove vai?”
L’altro non rispose: si stava togliendo i vestiti, per poi appoggiarli sulla poltrona vicino al letto. Si tirò la coperta fino al petto e lo osservò nella luce soffusa della lampada: non si era mai chiesto se Hans fosse bello, e forse non lo era in senso canonico, ma in quel momento gli apparve bellissimo. Anche i suoi lineamenti, incorniciati dai capelli arruffati, sembravano più dolci, ma forse era solo l’espressione. Tuttavia, tenne quei pensieri per sé e il cuore amplificò il ritmo dei suoi battiti. “Sei lento,” lo rimbeccò scherzosamente.
L’altro rise. “E tu sei un insolente, ma questo lo sai già.”
Friedrich si stiracchiò sotto le lenzuola, sorridendo sornione. “Ormai dovrebbe conoscermi, signor capitano.”
Coi pantaloni sbottonati ancora indosso, Hans gli afferrò i polsi in uno scatto repentino, si stese su di lui e gli posò un bacio delicato sulla bocca. I suoi occhi, solitamente seri, si accesero di un brillio divertito. “Forse devi ancora capire chi è che comanda.”
“Non attendo altro, Schwabe…” sussurrò beffardo, liberandosi dalla presa.
Udì un leggero fruscio di stoffa; le labbra del capitano si spostarono sul suo collo mentre scivolava sotto le lenzuola insieme a lui. “Adesso ci penso io a metterti in riga, Preuße.”
Friedrich sentì un potente brivido increspargli la pelle – non avrebbe saputo dire se per quelle parole o per il contatto dei loro corpi – il suo respiro si accorciò e farfugliò qualcosa con la bocca impastata, diviso tra desiderio, aspettativa e una certa curiosità.
Comprese che il momento stava arrivando, perché Hans ricercò il suo sguardo, e i suoi occhi ambrati erano di nuovo seri. Non avrebbe saputo dare un nome alle sensazioni che provava in quel momento, forse non sapeva neanche con esattezza cosa aspettarsi, ma si fidava di lui, e annuì con un cenno come per fargli capire che era pronto. Poi si unirono nel modo più profondo, come se divenissero una cosa sola, ed entrambi ebbero l’impressione di dimenticare tutto il resto.

Quando Hans si risvegliò, Friedrich era addormentato accanto a lui. Si mosse appena, attento a non disturbare il suo sonno, ma il tenente mugugnò qualcosa e si strinse contro il suo fianco, facendogli avvertire distintamente il calore del suo corpo.
Gli ci volle qualche secondo per realizzare che quella stanza calda e accogliente, così diversa dal suo squallido appartamento, era la camera di Friedrich. Controllò l’orologio, e quasi sussultò al pensiero di aver approfittato fin troppo della sua ospitalità, senza aver pianificato nulla. Gli posò un leggero bacio tra i capelli, poi si scostò a malincuore da lui.
“Hans… che fai?” gli chiese Friedrich, stropicciandosi gli occhi nel buio.
Colto da una strana urgenza, il capitano si sollevò a sedere e accese la lampada sul comodino. “Sono le due di notte, è meglio se torno a casa…”
“No.” La mano del tenente si strinse con forza intorno al suo avambraccio. “Sta nevicando… inoltre è tardi. Non vorrai farti mezza Potsdam a piedi da solo?”
“Sono un ufficiale di fanteria, sono abituato a fare chilometri e chilometri a piedi,” replicò Hans. “E poi… non vorrei essere di disturbo.”
Le braccia di Friedrich lo cinsero saldamente da dietro, le sue labbra gli sfiorarono la pelle della spalla e risalirono lungo il collo, solleticandogli l’orecchio col suo fiato caldo. “Nessun disturbo, Schwabe. Puoi rimanere qui con me stanotte, non mi dai fastidio.”
Con un sospiro, Hans si lasciò convincere: dopotutto, neanche lui aveva una gran voglia di abbandonare quel nido caldo per tornare nel suo appartamento vuoto. Spense la luce e scivolò di nuovo sotto le coperte, tra le braccia di colui che ormai non poteva più considerare alla stregua di un semplice compagno d’armi.

  
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