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Autore: Lodd Fantasy Factory    08/05/2021    1 recensioni
Non ho tempo per le introduzioni. Devo raccontare questa storia, e voglio farlo il prima possibile. Prima che qualcosa mi possa fermare... prima che loro... sono dietro ogni angolo. Sono nella mia casa... cancelleranno tutto. Persino me...
Genere: Dark, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Giù, nel profondo dell’incubo.

 

 

Enrico, noto online come Philipp Lloyd, abbandonò la casa che gli era da sempre appartenuta per recarsi direttamente nella tana del lupo. Lo vidi abbandonare lo scheletro della sua vecchia casa con una strana luce negli occhi; mi lasciò ringraziandomi, e dicendo una cosa che avrei portato con me per il resto della vita: “Scrivi ancora, amica mia. Il mondo deve conoscere la verità. A prescindere da come andrà.”

Se sono ancora qui è per portare avanti la memoria delle sue azioni. Certi uomini appartengono ai loro tempi, si dice, e trovo che sia ingiusto: certe azioni riecheggiano nella storia sino al crepuscolo della vita. Enrico, perlomeno per me, non tramonterà mai. Non il suo ricordo. *°

*°Quel che vi racconterò è l’idea di quanto è stato, con le sue imperfezioni e con le sue immagini idealizzate, simboliche. La storia ha bisogno di essere accompagnata verso la sua verità più pura, spesso non visibile dai soli gesti.

Philipp prese con se l’indispensabile, ovvero la pietra consegnatagli da Zhùt e il coraggio di non morire. Una cosa che avevo notato era senza dubbio l’assenza del suo caratteristico Diario. Non ne aveva fatto alcuna menzione quando ci eravamo trovati nudi all’interno di casa sua, e per tutto il tempo continuai a chiedermi cosa ne avesse fatto. Quando lo scoprii, rimasi senza parole.

Non tornò ai sotterranei, come avevo ipotizzato frattanto che, stretta ad una coperta, cercavo di riposarmi; avevo perso troppo sangue, ma era mia intenzione non prendere sonno sino alle prime luci dell’alba. Se non fossero tornati...

 

Enrico si diresse direttamente a quelle vecchie caverne sotto il Ponte dei Suicidi della città. Dall’esterno si poteva udire come una specie di rullo di tamburi; si fermò davanti all’ingresso, guardando un ultima volta le stelle: sarebbe potuta essere l’occasione per ammirarle. Sorrise alla Stella Polare prima di addentrarsi nell’oscurità.

I suoi occhi si abituarono presto ai colori verdognoli e violacei della grotta. Le vene pulsavano con prepotenza, ed Enrico ebbe l’impressione che fosse merito di un pasto recente: si chiese quale sorte fosse spettata ai compagni di Anduin; nella sua testa era ancora un’entità casta, divina, differente da Gabriela, la traditrice. Ripensò anche in che modo quei fanatici avessero rappresentato per lui sempre una fonte di agonia, di terrore, di dispiacere.

Lo accolse si da subito una presenza macabra, nient’altro che uno spettro dell’orrore che il vero Philipp Lloyd si era dimostrato di essere. Uno i quegli che avevano contribuito a dargli il tormento.

“Quale ardente coraggio!”, esclamò con voce roca, gutturale. “Quanta fiducia in un mondo destinato all’oblio. Màlk-ar-Sùm!”

“Portami dal tuo padrone, Essere.

Per Enrico non si trattava più di coraggio, ma semplice volontà di porre fine ad una piaga che aveva devastato la sua intera famiglia per quasi un secolo. Era deciso a porre la parola fine su tutta quella faccenda.

Gli occhi di Enrico si abituarono subito al cambio di tonalità, anche se chiunque avrebbe provato quella sensazione di oppressione camminando in quel luogo dimenticato dalla luce. Vide, così come era accaduto in un suo sogno, sagome d’ombra emergere dalla ruvida epidermide di quel cuore malvagio; lo seguirono, alla stregua di una processione, andando poi a sistemarsi sugli spalti. Tutti gli spettri avrebbero assistito al rituale come un popolo in attesa dell’incoronazione del proprio re.

Enrico scoprì suo malgrado che il suono che tutti avevano udito giungere dalle caverne fosse, nonostante la sua supposizione iniziale, invece dovuto ad un battito intenso delle stesse pareti: ebbe l’impressione che il salice stesse percependo la vicinanza di quella parte dell’anima contenuta in lui.

La bramava più di qualsiasi altra cosa!

 

“Come ci si sente ad essere diventato un mostro?” esordì con una certa spavalderia Enrico, quando l’ombra lo condusse al cospetto di Philipp Lloyd. Tutto era pronto per il rituale; dalla sua posizione gli riuscì di notare due ragazzi e una ragazza all’interno delle alcove di radici.

Il Widjigò si presentò in tutto il suo orrore: aveva effettivamente delle zampe caprine che si concludevano con degli zoccoli, un busto massiccio e avvolto in quella lunga mantella scura; le mani, ora visibili grazie alla luce, erano dotate di lunghi e affilati artigli, sei per estremità. La spavalderia venne meno quando quel volto malefico abbandonò l’oscurità conferitagli dal cappuccio: gli occhi, di un fuoco glaciale e dalla pupilla di forma ellissoidale, lo indagarono sin dentro l’anima, rivelando il profondo terrore cui sono soggetti gli esseri umani, e la riconobbe: la parte di sé che aveva smarrito. La testa era oblunga, scarnificata e di aspetto taurino. Le corna gli si gli rigiravano attorno alle orecchie. Era orripilante: il Minotauro nel labirinto di Cnosso!

“L’immortalità ha un prezzo, figliolo” fu la sua risposta, straordinariamente pacata e per niente oscura. Enricò tornò indietro col tempo alle prime battute del suo Diario: chi mai avrebbe potuto credergli, raccontando qualcosa di simile? Ma la voce di Lloyd lo riportò alla realtà. “Non sempre mi è stato concesso scegliere… l’anima può albergare in molti corpi, quando l’involucro è stato distrutto. Nel tentativo di ritrovarti, mi sono dovuto adattare; colpa di quell’ossessionato Sciamano! Ma è una forma passeggera. Presto Màlk-ar-Sùm sarà di nuovo una cosa sola!”

Sollevò gli artigli ad indicare l’entità sigillata nell’ambra, ed Enrico non si accorse del sorriso che marcò le sue stesse labbra quando notò che era tornata all’incirca indietro allo stesso giorno in cui Philipp Lloyd aveva provato a sacrificarlo per la prima volta.

“Non chiamarmi figliolo: sei solo un’ombra del grande uomo che sei stato. Ora, non vedo differenza tra lo schifo che sei e quello che diverrai.”

“Quale coraggio, Enrico. Riconosco la volontà di tua madre”, disse Lloyd, tuttavia il ragazzo non si scompose. “Sei maturato. Ma non hai di certo deciso di venir qui senza un piano. Fa’ la tua mossa, dunque.”

“Sono venuto a consegnarmi di mia spontanea volontà. Sarebbe inutile resistervi. Scivolerei nell’agonia, nel tormento, senza alcuna possibilità di salvezza. Se si tratta di ritardare la fine di questa esistenza, perché mai dovrei prendermi la responsabilità di tale fardello? Per fare cosa, poi? Vivere come ha fatto Philipp Lloyd, come un fuggitivo, sino allo stremo delle forze? Sinché non sarò troppo vecchio per resisterti?”

Philipp Lloyd parve sorpreso.

“Perché hai accettato il patto con mia madre?”

“L’ordine è l’unica forma di civiltà possibile. Io non sono che un passaggio forzato nel corso della vostra storia, nonché il suo atto conclusivo. Lo sarò per molti altri mondi. È un processo più ampio, che ha origini primordiali.”

“Lo trovo insensato”, rispose secco Enrico. “Ma la tua prossima battuta è sicuramente: esseri primitivi come quelli della vostra stirpe non posso comprendere. Dunque andrò dritto al punto… voglio fare un patto. Mi consegno, ma per i prossimi cento anni non avrai da perseguitare Gabriela e i suoi seguaci, e discendenti. Attendere altri cento anni non dovrebbe essere un problema, perlomeno per un entità millenaria.”

Il Widjigò rise di gusto, e fu una cosa macabra. Quella risata riecheggiò per tutta la grotta.

“Chi è Gabriela?”

Enricò rimase perplesso. Comprese che l’entità stava prendendosi gioco di lui.

“Avresti dovuto costringermi a fare un patto prima di presentarti qui. Cosa mi impone di rispettarlo? Quale altro asso nella manica hai da giocare?”

“Lo Sciamano Zhùt... lui…”, ma non Enrico non ebbe occasione di terminare quel discorso.

Philipp si spostò di qualche passo, rivelando la quarta alcova, l’unica che non aveva potuto ancora scorgere.

“Lo stesso Zhùt che è caduto mio prigioniero?”, domandò Lloyd, e una di quelle raccapriccianti teste che Enrico aveva fronteggiato gli porse il vecchio Diario. Il tentacolo si ritrasse subito dopo.

Il vecchio era stata catturato, ed era già avvolto in quelle radici, pronto per il sacrificio.

Il Diario preso, anche se si presentava in modo differente dall’ultima volta che lo aveva avuto tra le mani: lo Sciamano lo aveva sigillato con grossi chiodi.

“Zhùt!” esclamò Enrico, ma l’indiano non rispose.

“Il piano era quasi riuscito, figliolo. Peccato”, lo canzonò, e liberò il suo corpo dalla mantella, rivelando quei tentacoli lingue, dodici in tutto, che in realtà componevano quella sorta di mantella. Lo avvolse senza dargli il tempo di ribellarsi.

“Merda…” fu l’unica parola che abbandonò le labbra di Enrico.

   
 
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