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Autore: Frizzina    11/05/2021    2 recensioni
"...ed è per questo che dovrebbe lasciare la sua attività quanto prima" il medico richiuse il fascicolo contenente la cartella clinica. Viktor aveva udito le ultime frasi del dottore come in sordina, come da dentro una bolla. Aveva sentito la sua diagnosi, eppure sembrava non lo riguardasse, che fosse la sentenza fatale di qualcun altro.
"Ci vediamo presto per un controllo" disse il medico, porgendogli un biglietto. Recava scritto sul retro uno scarabocchio, il promemoria per il prossimo appuntamento.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Shonen-ai | Personaggi: Victor Nikiforov, Yakov Feltsman, Yuuri Katsuki
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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THROUGH THICK AND THIN
 
1. Know which way the wind is blowing



"...ed è per questo che dovrebbe lasciare la sua attività quanto prima" il medico richiuse il fascicolo contenente la cartella clinica. Viktor aveva udito le ultime frasi del dottore come in sordina, come da dentro una bolla. Aveva sentito la sua diagnosi, eppure sembrava non lo riguardasse, che fosse la sentenza fatale di qualcun altro.
"Ci vediamo presto per un controllo" disse il medico, porgendogli un biglietto. Recava scritto sul retro uno scarabocchio, il promemoria per il prossimo appuntamento.
Annuì. "Grazie" disse, atono. Alzandosi, strinse la mano al dottore. Indossò gli occhiali da sole e un cappello e, con un lieve cenno di saluto, uscì da quello studio che sapeva di disinfettante e di linoleum.

Inspirò a fondo l'aria fresca del primo mattino. Aveva scelto quell'orario per recarsi alla visita, in modo da incontrare quante meno persone possibile.
Con la cartelletta blu dei suoi referti stretta sotto al braccio, si avviò sulla Prospettiva Nevskij. Aveva preso il percorso più lungo per ritornare a casa un po'per ritardare il rientro e concedersi il tempo di pensare, un po'per abitudine, perché quello era il tratto di strada che percorreva di solito durante i suoi allenamenti. Un sorriso amaro gli attraversò il volto. Fino alla settimana precedente aveva passato ore ed ore a correre su e giù lungo il viale, conosceva ormai a memoria tutte le panchine, gli alberi, persino alcuni degli abitudinari passanti che incrociava lungo il cammino. Aveva sempre considerato la corsa come un dovere, una sorta di contrappasso per il successo. Talvolta, si dilettava a canzonarsi, sostenendo che la vittoria fosse una maratoneta, e che lui doveva correre per starle dietro. Ora, camminando lentamente sopra a quelle mattonelle così familiari, pensò che avrebbe davvero voluto mettersi a correre, correre più veloce che mai, lasciarsi tutto alle spalle e quando si fosse fermato, il mondo si sarebbe aggiustato. Tutto sarebbe tornato al proprio posto e lui non sarebbe stato altro che il Viktor Nikiforov di sempre, il solitario idolo sorridente sulla cima del podio, amato alla stregua di un semidio ma isolato dalla sua stessa vittoria che gli sembrava sempre più simile ad una torre d’avorio.
Sospirò, Viktor, riprendendo a camminare. Sarebbe stato un decorso lento, aveva detto il dottore. Lento, talvolta ad intervalli, ma costante. La sua era una condanna crudele, la consapevolezza di vedersi sottrarre il ghiaccio a poco a poco dal suo stesso corpo, lo strumento grazie al quale era diventato un campione.
Deglutì a vuoto. Cosa sono questi pensieri, così di punto in bianco, si chiese. Sembra che abbia già accettato il mio destino. 
Gli ritornò in mente la domanda di quell'intervistatore, alla conferenza stampa dopo il Grand Prix. 
'Che cosa ha in programma per la prossima stagione agonistica, signor Nikiforov?' Viktor sospirò, gli sembrava inutile pensarci ora.
'Farò qualcosa che vi stupirà' gli aveva risposto.
Qualcosa che vi stupirà, pensò. Strinse la presa sulla cartelletta blu. Non sarete mai più stupiti di me.



Le chiavi dell’appartamento tintinnarono a contatto con la ceramica dello svuota tasche posto sul mobile all’ingresso. Udendo quel suono, Makkachin si alzò dalla sua cuccia e, dopo un lungo sbadiglio, trotterellò scodinzolante incontro al suo padrone.
"Ehi, ciao" sorrise Viktor carezzandogli il muso. "Più tardi ti porterò a fare una passeggiata" posò con noncuranza la cartelletta sul tavolo, senza più rivolgerle alcuno sguardo, come se volesse nascondere la sua preoccupazione anche agli occhi del barboncino.
Andò in cucina per prepararsi un frullato di kiwi e banane. Aveva senso continuare a comportarsi come al solito? Come se nulla fosse? Continuare a percorrere le stesse strade, compiere gli stessi, automatici gesti, mangiare sempre lo stesso cibo? Questi pensieri gli ronzavano in testa, ma volutamente Viktor si sforzava di ignorarli.
Versò il liquido verdastro dentro ad un bicchiere e andò a sedersi sul divano sorseggiando distrattamente la sua colazione. Makkachin gli si era seduto accanto, fissandolo con aria preoccupata. Per quanto Viktor si sforzasse di comportarsi con noncuranza, non poteva ingannare il suo migliore amico. Sospirò, abbassando lo sguardo per incontrare quello del cane.
"A chi voglio darla a bere, mh? Sto soltanto cercando di ingannare me stesso" mormorò, carezzando le orecchie dell'animale.
Posò il bicchiere sul tavolino accanto al divano e prese in mano il telefono. Indugiò qualche secondo sullo schermo, aprì la galleria delle immagini e si mise a scorrere il rullino delle fotografie. Sorrise lievemente vedendo i volti dei suoi compagni, dei suoi avversari al Grand Prix. C'erano le foto con Chris, quelle con il taciturno Otabek. C'erano le foto della cena di gala, quelle del bar al quale lui e lo svizzero si erano recati dopo la gara.
E c'era una foto con Yakov. 
Sorridevano entrambi, Viktor con indosso i pattini e la giacca rosa, il suo allenatore con il cappello. Entrambi stringevano la medaglia d'oro, la tenevano alta sopra alla testa, simbolo d'una vittoria su loro stessi e sugli altri.
Fu soltanto pochi giorni dopo lo scatto di quelle fotografie che Viktor aveva iniziato a manifestare i primi sintomi. 
Lo schermo del telefono si spense. 
Il giovane avvertiva su di sé come una condanna, una spada pronta a trafiggerlo, ad affondare la sua lama quando fosse stato il momento.
Certo, come atleta, sapeva che prima o poi avrebbe dovuto lasciare le competizioni. Ci aveva già pensato, figurandosi un'ascesa aurea e ricoperta di allori nel mondo dell'allenamento. Si era immaginato di poter arrivare ad essere il coach di un futuro campione del pattinaggio russo. Ma ora queste fantasie gli apparivano soltanto come mere illusioni. Il suo sogno si era dissolto come neve al sole e la sua volontà gli era preclusa dal suo stesso corpo.
Yakov.
Yakov, burbero e cinico, esasperato dalle continue eccentricità del suo prediletto, eppure a lui così intimamente legato. Fin dall'infanzia di Viktor, aveva assunto per lui l'aria della figura paterna, un omaccione rustico ma buono, severo ma comprensivo. Yakov era l'unico che sapesse tutto di lui.
E, ovviamente, era a conoscenza della visita medica di quel giorno. 
Viktor lo sapeva: il suo allenatore aveva soltanto troppo tatto per telefonargli.
Premette qualche icona, la chiamata partì.
"Yakov, dormi ancora?" esordì gioviale Viktor,  non appena sentì la voce roca dell'uomo che subito aveva iniziato a redarguirlo dall'altra parte del telefono. “Idiota, lo sai che ore sono?".
Buffo, pensò Viktor. Sappiamo benissimo entrambi quale sia il motivo della telefonata. Eppure la conversazione è la stessa di tutti i giorni, così come facciamo ormai da tanti anni. Avvertì gli occhi velarsi di lacrime, ma nonostante questo, andò avanti a scherzare. 
D'un tratto, come per un tacito accordo, il tono allegro della conversazione si smorzò da entrambe le parti. Si schiarì la voce.
"Senti Yakov... vieni tu qui oggi, per favore. Non portare nulla, non abbiamo mai fatto questo genere di convenevoli, stavolta non sarà diverso" la sua voce suonò grave, metallica. Sapeva di aver spaventato il suo coach, ma del resto, non c'era nulla da nascondere.
"A più tardi" conclusero all'unisono, dopo qualche secondo di silenzio.
Viktor abbandonò il cellulare tra i cuscini. Riprese il suo frullato e andò avanti a bere.
Si sentiva come svuotato. Parlare con Yakov aveva sempre avuto questo effetto su di lui. Una doccia fredda che lo riportava alla realtà, fosse dopo una gara o in qualunque altra situazione. Yakov era la voce della razionalità, e Viktor aveva imparato a rivolgersi a lui ogni qual volta avesse bisogno di schiarirsi le idee, di un consiglio. 
Perdendo lo sguardo sul soffitto, fu pervaso da una sorta di torpore soffuso, caldo e senza sogni.
Il suono del campanello lo fece trasalire.



"CMT, patologia neurologica ereditaria..." Viktor fissava il volto di Yakov mentre questi, impallidendo, leggeva i referti.
"...possibilità di manifestazione in età adulta..."
Fino ad allora, quella piccola tragedia era stata soltanto sua. Mostrare quei fogli a Yakov era in qualche modo come apporre un sigillo ufficiale sulla sua condanna. Ora non poteva più negare, non poteva più mentire. Qualcun altro aveva visto, ed oramai non si poteva tornare indietro.
“…atrofizzazione dei muscoli, accorciamento dei tendini… può provocare deformità agli arti? Ma non scherziamo…”
Non aveva ancora metabolizzato la situazione. Ora stava bene, no?  La sua vita stava procedendo a gonfie vele, perché sarebbero dovute cambiare le cose?
Vedere Yakov posare i fogli con aria smarrita gli fece accapponare la pelle. Yakov, che sapeva sempre cosa fare, che aveva sempre saputo guidarlo tirandolo fuori dalle situazioni più difficili.
Era vero. Era tutto vero. Per uno strano scherzo del caso, aveva ereditato quel maledetto gene malato, gene del quale nessuno aveva mai sospettato l'esistenza in Viktor.
Il giovane era cresciuto forte e sano, non aveva mai avuto problemi. Aveva iniziato a pattinare all'età di sei anni, e da allora la sua carriera era stata in continua ascesa, una cometa che puntava dritta verso il cielo, in alto, sempre più in alto.
Ma anche la cometa è un astro, e come tale, destinata a spegnersi.
Pochi giorni dopo il Grand Prix, Viktor aveva iniziato a sentirsi stanco, ad avere frequenti perdite d’equilibrio. In principio, aveva imputato il tutto a stress, sovraccarico di lavoro dovuto all’allenamento intensivo in vista della gara. Aveva deciso di prendersi qualche giorno di pausa, sperando in tal modo di permettere al suo corpo di recuperare. Ma tornato in pista, constatò nuovamente di avere difficoltà nello svolgere perfettamente salti e trottole. Fu Yakov ad insistere perché andasse a fare un controllo. E dopo l’ennesimo salto sbagliato, Viktor si convinse a fissare un appuntamento.
Yakov si versò un bicchierino di vodka e lo tracannò d'un fiato. Viktor sorrise lievemente a quel gesto così banale,  ai suoi occhi così prezioso. Il suo allenatore si concesse qualche secondo ad occhi chiusi.
"Che farai?" chiese, con la gola che ancora bruciava. Il giovane alzò lo sguardo su di lui.
"Speravo potessi dirmelo tu" le parole gli vennero dal cuore, le disse con un tono candido, da bambino. Perché era esattamente così che si sentiva in quel momento. Un bambino perso, indifeso di fronte alla vita. Un bambino che, ingenuamente, credeva che il padre fosse l'infallibile risposta a tutto. Si ritrovò a stringere le mani del vecchio.
"Che cosa devo fare, Yakov?" incrociò il suo sguardo. Due calde lacrime rotolarono giù dai suoi occhi, nella terribile realizzazione che la sua malattia fosse reale.
Viktor aveva una data di scadenza, ed ora se ne era reso conto. Una fine che incombeva su di lui, avida, famelica belva che costantemente lo avrebbe seguito, fissandolo coi suoi occhi crudeli, nascondendosi, restando in agguato nel buio, pazientemente in attesa del momento in cui non sarebbe più stato in grado di indossare un paio di pattini. Allora lo avrebbe preso e avrebbe riso di lui, fine beffarda, scherzo del destino.
"Perché?" chiese tra le lacrime. " Perché, Yakov?" continuava a ripetere quella semplice, dolorosa domanda. Un cupo silenzio si prolungò per lunghi minuti.
"Sarebbe meglio morire" sussurrò, portandosi le mani al volto. Le sue spalle cominciarono a tremare, a sussultare in preda a singhiozzi sconnessi. 
Stringeva i denti, Viktor, e aveva paura. Paura dell'ignoto, dell'avvertire la malattia incombergli sulle spalle, senza sapere quando gli avrebbe inferto il colpo di grazia.
Yakov si alzò, si avvicinò al suo prediletto. Gli carezzò delicatamente i capelli. Lo strinse a sé cullandolo dolcemente, non sapendo, e non potendo fare altro che questo. Per la prima volta nella sua vita si sentì completamente impotente di fronte al fato crudele. Una condanna a vita, ma con una clessidra insensibile e inesorabile, che avrebbe lentamente privato Viktor del ghiaccio, del suo amato ghiaccio, per sempre.




Autrice all’angolo
Buonsalve a tutti, cari lettori! Vi ringrazio di essere arrivati fin qui!
Purtroppo, manco da EFP da un po’, complici lo studio e la totale mancanza  di idee. Qualche tempo fa ho riguardato Yuuri on ice! e mi sono detta, perchè non provare? Questa umile fanfiction è il primo tentativo di scrittura dopo più di un anno di pausa.
Mi rendo conto di essere più che arrugginita, ma spero che questo primo capitolo sia stato comunque di vostro gradimento!
Per ora è tutto, cari lettori, passo e chiudo!

F.
  
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