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Autore: Huffelglee2599    12/05/2021    0 recensioni
Buongiorno a tutti! Eccomi qui con una nuova e breve storiella targata Brittana. L'ispirazione è giunta durante la visione del film "The Impossible" che racconta la lotta per la sopravvivenza di questa famiglia la cui serenità è stata travolta dallo Tsunami del 2004 in Thailandia. Così ho deciso di prendere la famiglia costruita nella mia prima storia "A life together" e inserirla all'interno di questa vicenda. Il racconto si articola in soli tre capitoli che vengono narrati tramite il punto di vista di Santana e Brittany. Spero che vi piaccia e vi intrattenga..buona lettura!
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Brittany Pierce, Santana Lopez | Coppie: Brittany/Santana
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disperazione


Ricordavo di come trascinavo il mio corpo in avanti, di come Luna rimaneva aggrappata al mio collo e di come le lacrime iniziarono a scivolare lungo le mie guance quando il mio sguardo intravide un appezzamento di terra, emerso dopo che, in seguito alla seconda onda, l’acqua aveva iniziato a ritirarsi con la stessa rapidità con la quale era arrivata. Ricordavo di come avessi velocizzato il passo per riuscire a raggiungere quell’area in superfice e di come mi fossi accasciata al suolo, stringendo Luna al mio petto, ma poi il nulla, non mi ricordavo più niente. Percepì la mia mente abbandonare il mondo dei ricordi e tornare alla realtà: corrugai lievemente la fronte, sbattendo con fatica le palpebre, mentre il mio udito veniva risvegliato da una serie di strani rumori. Dischiusi la bocca, inumidendomi le labbra secche, prima di deglutire e mettere a fuoco il bianco di un soffitto: aggrottai le sopracciglia, cominciando a muovere leggermente il mio corpo per cercare di capire il luogo in cui mi trovassi. Ero sdraiata sopra a qualcosa di duro e freddo, forse un tavolo, mentre il mio capo trovava ristoro su una superfice più morbida e soffice: tentai di sollevarmi, stringendo con forza i bordi di quel piano, ma non appena i muscoli del mio addome si contrassero il mio fianco destro venne colpito da un dolore lancinante, così acuto e intenso da farmi spalancare la bocca e inumidire gli occhi, costringendomi a ritornare nella posizione iniziale. Appoggiai la mano destra sulla ferita, bloccandomi per un momento quando i miei polpastrelli sfiorarono la ruvida stoffa di una fasciatura: il mio respiro cominciò ad affannarsi mentre, voltando il capo a destra e a sinistra, prendevo sempre più coscienza di che cosa avesse lasciato quell’enorme onda e dei danni che aveva provocato alle persone e alle loro vite. Chiusi gli occhi, deglutendo e cercando di non lasciare che i miei pensieri e il mio cuore si soffermassero sul terreno della paura e dell’angoscia, ma di trattenerli in quella piccola porzione di speranza che tentava di rimanere aggrappata alla mia anima: rimasi con le palpebre abbassate per qualche minuto, lasciando che fosse il mio udito a contemplare la frenesia di quel corridoio, dove ciò che si riusciva a percepire erano i passi svelti e irrequieti degli infermieri, i lamenti di sofferenza e dolore delle persone accanto a me e le grida di disperazione di coloro che avevano perso i propri cari. Riaprì gli occhi di scatto, con l’affanno che scuoteva il mio corpo e una soffocante morsa che ghermiva il mio stomaco: mi girai sul fianco sinistro, aprendo la bocca per permettere a quella stretta di liberarsi sotto forma di acqua e saliva. Mi accasciai su quel lato, incrociando per qualche istante lo sguardo della donna accanto alla mia brandina: aveva abrasioni su tutto il corpo, in particolare sulle braccia, dove alcuni pezzi di pelle erano stati recisi così in profondità che sembravano sul punto di staccarsi. Deglutì, mandando giù un conato di vomito, prima di riposizionare la testa sul cuscino e passarmi il dorso della mano sinistra sulla fronte sudata: sentivo il corpo ribollire di calore, nonostante i miei vestiti e i miei capelli, ancora leggermente bagnati, creassero una sorta di patina umidiccia che però, invece di rinfrescarmi, non faceva altro che incrementare la sofferenza fisica che stavo provando. Mi mossi irrequieta sulla barella, cercando ossigeno per i miei polmoni e ristoro per il mio battito cardiaco che si era accentuato nell’istante in cui i miei occhi si erano resi conto che mancava qualcosa, o meglio, qualcuno -“Luna..”- sbiascicai, con la gola secca e l’affanno nella voce, mentre spostavo lo sguardo da una parte all’altra del corridoio, senza però riuscire effettivamente a vedere qualcosa visto che la ferita al fianco destro non mi permetteva di sollevarmi per più di qualche centimetro -“Luna..”- il ritmo delle mie pulsazioni si allineò con quello del mio irregolare e angosciante respiro, dando vita ad uno stato di inquietudine che racchiuse la mia anima nella sua soffocante spirale: una sensazione di vertigine si diffuse nel mio corpo, facendo rabbrividire la mia pelle e rendendo instabile la mia vista. Strinsi i bordi del lettino, contraendo i muscoli dell'addome per tentare di sollevarmi: digrignai i denti, mentre il dolore al fianco destro non accennava a porre un freno alla sua intensità e alcuni tremori iniziavano a prendere il controllo dei miei polsi, rendendo ancora più difficile la mia elevazione e instabile il mio già precario equilibrio -"Dov'è..dov'è mia figlia?”- avevo lo sguardo rivolto al corridoio d'innanzi a me, cercando di attirare l'attenzione delle persone che passavano da quel punto, ma nessuna di loro sembrava riuscire ad ascoltare la mia richiesta, troppo concentrate nelle loro faccende o racchiuse nella loro sofferenza. Con il corpo ancora scosso dai tremori e la pelle traboccante di sudore mi voltai verso destra, cercando un aiuto dall'uomo sdraiato di fianco alla mia brandina -“Hai..hai visto la mia bambina?”- un suono gutturale emerse dalla sua bocca, accompagnato da un breve movimento del capo che confermò la negatività della sua risposta. Deglutì, abbassando lo sguardo, mentre una fitta di paura pugnalava il mio cuore e una asfissiante morsa attanagliava il mio respiro, rendendo debole il mio corpo e fragile il mio spirito: percepì distintamente l'attimo in cui le mie iridi vennero avvolte dal calore di quelle lacrime che, pochi istanti dopo, si riversarono sulle mie guance. Che cosa era accaduto? Perché Luna non era con me? Dove l'avevano portata? Dovevo sapere come stava: appoggiai entrambi i palmi delle mani sul bordo destro della brandina, cercando di fare leva su quelle poche energie che mi erano rimaste per riuscire a spostare le gambe verso quel lato e tentare di alzarmi. Avevo appena mosso di qualche centimetro la mia gamba destra quando il suono di una voce mi fece bloccare e, per un secondo, perdere l'equilibrio, facendo sbilanciare pericolosamente il mio corpo in direzione del pavimento: sollevai la testa di scatto, rimanendo con il fiato incastrato in gola alla vista di lei che correva rapidamente verso la mia postazione -“Mamma!”- chiusi gli occhi, lasciando che le sue piccole braccia circondassero il mio collo e il suo odore invadesse le mie narici, regalandomi la sensazione di essere tornata a casa: sospirai tremante, ricambiando il suo abbraccio e liberando i miei occhi dalle ultime lacrime di disperazione -"Dov'eri andata?”- le domandai, mentre accarezzavo i suoi capelli e racchiudevo il suo viso tra i palmi delle mie mani, ancora incredula di avere la possibilità di immergermi nelle sue iridi -"Volevo vedere mami e Evolet..ma non sono riuscita a trovarle. Dove sono?”- Abbassai leggermente lo sguardo, sbattendo con decisione le palpebre per impedire il formarsi di quelle lacrime che sapevo non essere in grado di fermare, mentre intrecciavo le mie dita alle sue, cercando di nascondere l'instabilità della mia voce e l'incertezza delle mie parole: deglutì, prima di prendere un respiro profondo -"Loro..ehm..”- un nodo alla gola mi bloccò il fiato, costringendo il mio corpo a prendersi un momento per ripristinare il giusto apporto di ossigeno al mio cuore -"..loro..adesso sono da un'altra parte..”- le sopracciglia di Luna si corrugarono, evidenziando la confusione e lo stato di spaesamento che traspariva dai suoi occhi  -"Sono in un posto come questo?”- dischiusi leggermente la bocca,  prima di inumidirmi le labbra e distogliere lo sguardo dal suo per riporlo sull'unione delle nostre mani -"Ehm..si..”- sospirai infine, non riuscendo ad evitare che una piccola lacrima scivolasse lungo la mia guancia destra alla visione della sua bocca che si estendeva in un ampio sorriso: la spazzai via velocemente, ricambiando con insicurezza la sua espressione -"Perché..perché però adesso non ti sdrai qui con me..poi andiamo a cercarle..okay?”- il tono della mia voce era spezzato e portava con sé anche una certa nota di urgenza, dovuta alla paura che potesse chiedermi altro, qualcosa che avrebbe arrestato per sempre il mio respiro. Per fortuna Luna non si accorse della mia angoscia e, annuendo felice, si spostò sul mio lato sinistro: la aiutai ad evitare il mio vomito e ad arrampicarsi sulla brandina, fino ad avere il suo viso a pochi centimetri dal mio. I miei occhi si inumidirono, mentre le accarezzavo la guancia sinistra e le depositavo un dolce bacio sulla fronte -"Ti voglio tanto bene”- mi sorrise, avvicinandosi al mio petto e prendendo tra le sue mani una ciocca dei miei capelli -“Ti voglio bene anch’io”- mormorò, prima di chiudere gli occhi e lasciarsi cullare dal tocco leggero dei miei polpastrelli che vagavano tremanti e spaventati lungo la sua schiena.
 


Mi sembrava di poterla ancora sentire, mentre con la sua travolgente forza mi trascinava di nuovo nel buio, mentre con la sua crudele insistenza rendeva sempre più difficile riuscire a reggersi a quel tronco, fino a costringermi a mollare la presa: un intenso dolore si era impossessato della mia coscia sinistra, riducendo al limite le mie possibilità di restare ancorata a quella superfice galleggiante. Per l’ennesima volta il mio respiro era stato soffocato e la mia vista offuscata, per l’ennesima volta avevo avuto paura e avevo concentrato i miei pensieri sulla mia famiglia, in particolare su Evolet, ma a differenza di quello che era accaduto la prima volta non ero rimasta succube della mia angoscia, riuscendo così a riemergere. La sensazione di sollievo che aveva attraversato la mia anima alla vista di lei che era ancora aggrappata a quel tronco era stata talmente profonda che mi pareva davvero di riuscire a percepirla anche nel momento che stavo vivendo: avvertì un flusso di calore raggiungere il mio occhio destro e colmarlo di quella lacrima che, felice e leggera, scivolò lungo la mia guancia. Lei era spaventata e avrebbe voluto raggiungermi, ma io l’avevo pregata di non farlo, l’avevo supplicata di rimanere ancorata a ciò che poteva darle la salvezza, promettendole di restare viva e di tornare a cercarla. Così mi ero allontanata, dalle lacrime che avevano rigato il suo viso e dalla sua mano sinistra protesa verso di me, trascinata da una corrente che avevo sperato potesse darmi una seconda possibilità, anche se il lieve movimento delle mie palpebre mi fece intendere che quella speranza era stata accolta: i miei occhi si immersero nel bianco di un soffitto mentre, deglutendo, restituivo alla mia gola secca la giusta porzione di saliva. Rimasi ferma, contemplando il rumore del mio debole respiro e l’incredibile sensazione di tornare in vita: dischiusi la bocca, mentre cominciavo a muovere le dita delle mani, avvertendo i miei polpastrelli entrare in contatto con una fredda superfice, e a contrarre i vari muscoli del mio corpo. Digrignai i denti, mugugnando di dolore, nel sentire la pelle della coscia sinistra tendersi per poi ritrarsi improvvisamente, in un movimento che inumidì i miei occhi: allungai la mano in avanti, sfiorando con incertezza le protuberanze che solcavano la mia carne, fino a raggiungere il punto che sentivo pulsare con maggior intensità. Corrucciai le labbra in una smorfia di sofferenza, mentre indugiavo con le dita sulla parte esterna della coscia, cercando di stabilire la gravità della ferita, provocata dal pezzo di un ramo particolarmente sporgente, e di conseguenza le condizioni del mio corpo: dovevo assolutamente andare da mia figlia. Strinsi con vigore i bordi di quella sorta di branda, irrigidendo i muscoli  dell'addome per cercare di sollevarmi: le mie braccia, così come tutto il mio corpo, iniziarono a tremare, ancora impreparate a sostenere il peso del mio busto che continuava la sua ascesa. L'irregolarità del mio respiro non fece altro che accentuarsi mentre, una volta seduta, i miei occhi dovettero scontrarsi con ciò che quell'onda aveva lasciato dietro di sé: sofferenza e disperazione era tutto quello che si riusciva a percepire in quel corridoio, urla di dolore e pianti di sconforto era tutto ciò che si poteva ascoltare e l'unica cosa che continuava a incontrare la mia vista era il sangue. Scossi il capo, chiudendo gli occhi per tentare di scacciare dalla mia mente le immagini che il mio sguardo aveva incrociato e per allontanare dal mio cuore le grida che il mio udito aveva colto: non poteva essere accaduto realmente, non a noi, non alla mia famiglia. La sensazione di vertigine che si diffuse nel mio corpo si accompagnava al movimento del mio petto che, sollevandosi con insistenza, mi lasciava priva di ossigeno: il rumore dei miei sospiri era così forte da riuscire a soffocare i dolorosi suoni che mi circondavano e i pensieri che affollavano la mia testa, ma al tempo stesso non faceva altro che incrementare lo stato di angoscia in cui sostava la mia anima. Deglutì, prima di riaprire gli occhi e spostare il peso sul lato destro della brandina, pronta a mantenere la mia promessa: mossi la gamba destra, riuscendo a piegare il ginocchio e a condurre la pianta del mio piede fino alla freschezza del pavimento. Un sospiro tremolante abbandonò la mia bocca, mentre cercavo di avvicinare l’altra gamba alla sponda della barella: il dolore continuava ad irradiare la mia coscia, rendendo difficile qualsiasi spostamento, così come il sangue che, nonostante la presenza di una fasciatura, non accennava a ridurre la sua espansione, scivolando sulla mia pelle e sgocciolando sulla superfice del lettino. I miei occhi si inumidirono mentre, mordendomi la lingua, soffocavo nella mia gola il grido che accompagnava la lieve contrazione del quadricipite: rimasi ferma per un istante, aspettando che il dolore si affievolisse, prima di ripartire -"Mami!”- avvertì il mio respiro spezzarsi mentre, sollevando la testa di scatto verso destra, i miei appannati occhi si immergevano nella figura di Evolet. Incredula d’innanzi al suo volto che si faceva sempre più vicino rimasi immobile, con la bocca leggermente dischiusa e l’intenso rimbombo del mio battito cardiaco a fare da sottofondo al mio silenzio: dovetti attendere l’istante in cui le sue braccia si chiusero intorno al mio corpo per capire che non si stesse trattando di una mia allucinazione. Chiusi gli occhi, sospirando tremante, mentre circondavo la sua schiena e lasciavo che alcune lacrime rigassero le mie guance: incrementai la stretta, appoggiando la mano destra sulla sua cute e intrecciando le mie dita fra i suoi capelli ancora umidicci -“Tesoro mio”- mormorai, con la voce rotta dai primi singhiozzi che iniziarono a scuotere le mie spalle, prima di darle un bacio sulla tempia e affondare il viso nell’incavo del suo collo. Il mio corpo cominciò a rilassarsi, mentre la mia anima tornava a respirare, liberata dall’opprimente e soffocante sensazione di angoscia che aveva caratterizzato ogni secondo del mio risveglio, e i battiti del mio cuore ritrovavano quella pace che solo il calore di casa poteva donare. Restai aggrappata a lei e al suo famigliare odore, finché non percepì il suo corpo scuotersi e l’umidità delle sue lacrime bagnare la mia pelle: mi allontanai dalla sua spalla, sollevando lo sguardo verso il suo viso e racchiudendolo tra i palmi delle mie mani -“Mi dispiace”- sussurrò, abbassando il capo e concentrando l’attenzione sul pavimento. Corrugai la fronte, confusa d’innanzi a quelle parole che lasciavano un vuoto nel mio stomaco e che stringevano il mio cuore in una morsa: feci una leggera pressione sulle sue gote, cercando il motivo di quel turbamento nei suoi occhi -“Tesoro..per cosa?”-  le domandai, preoccupata dal rossore che contornava la sue iridi e dal suo sguardo che continuava a sfuggirmi: la vidi deglutire mentre, incrociando agitata le sue dita, cercava di trovare il coraggio per alzare la testa e rispondermi -“Io..non..non ho mantenuto la promessa”- mormorò, distogliendo nuovamente l’attenzione dal mio volto che assunse un’espressione di perplessità e spaesamento di fronte a ciò che aveva detto e al timore che traspariva dal tono della sua voce. Stavo per chiederle di cosa stesse parlando quando il movimento della sua mano destra sul suo avanbraccio attirò la mia attenzione: una serie di ferite ed escoriazioni si estendevano lungo tutta la sua pelle, dal dorso delle mani fin quasi alla spalla; una serie di lesioni che prima non c’erano: riportai velocemente i miei occhi nei suoi, rendendomi conto che non era rimasta su quel tronco. Un sospiro tremolante abbandonò la mia bocca, mentre abbassavo le mie mani dal suo viso alla ricerca delle sue: le racchiusi con vigore tra le mie, chiudendo gli occhi per un istante, giusto il tempo di rallentare il battito del mio cuore e di ridurre la spirale di angoscia che aveva attanagliato il mio stomaco al pensiero di quello che sarebbe potuto accadere e alla visione di lei che veniva trascinata con violenza dalla corrente -“Mi dispiace tanto mami ma..”- sollevai il capo, incrociando il suo sguardo che, ansioso e preoccupato, mi osservava incerto -“..avevo paura di rimanere sola”- il singhiozzo che fuoriuscì dalla sua gola venne accompagnato da una serie di lacrime che inumidirono i suoi occhi e bagnarono le sue guance: il mio labbro inferiore tremava mentre, alzando il braccio sinistro, cercavo di asciugare dal suo viso tutto il terrore e lo spavento che doveva aver provato, supponendo che non le rimanesse più nessuno -“Non..non sei sola..okay?”- mi sporsi in avanti, appoggiando la mia fronte sulla sua e circondando il suo volto tra le mie mani -“Ci sono io..sono qui e..e..”- deglutì, chiudendo con forza gli occhi per evitare che quel pensiero distruggesse le mie speranze e incrinasse il mio cuore quel tanto che bastava da farmi provare dolore -“..ci sono anche la mamma e Luna”- a quelle parole Evolet spalancò i suoi occhi neri nei miei, guardandomi impaurita, ma al tempo stesso dando fiducia alla mia affermazione: annuì lievemente, prima di stringermi in un poderoso abbraccio. Restammo in quella posizione per diverso tempo, finché lo sforzo a cui dovevo sottoporre i miei muscoli divenne troppo elevato: mi sdraiai sulla brandina, mettendomi sul fianco destro per permettere ad Evolet di distendersi vicino a me. Accolse subito la mia richiesta, avvicinando il capo al mio petto e stringendo tra le sue dita una ciocca dei miei capelli: sorrisi a quel gesto che, nonostante fosse cresciuta, non l’aveva mai abbandonata, dandole un bacio sul capo e racchiudendo il suo corpo nel mio.
 


Mugugnai, corrugando la fronte, prima di sbattere lentamente le palpebre e mettere a fuoco ciò che avevo davanti: gli angoli della mia bocca si distesero in un piccolo sorriso alla vista di Luna che dormiva placidamente al mio fianco, racchiudendo tra i suoi palmi le dita della mia mano destra. La sensazione di pace e calore che si diffuse nel mio cuore mi riportò per un momento a casa, nel mio letto, con l’odore della colazione che arrivava dalla cucina e le lenzuola sfatte, reduci da un’intensa sessione di coccole mattutine: chiusi gli occhi, inumidendomi le labbra e cercando di trattenere il rumore del singulto che si era formato non appena la mia mente era tornata alla realtà. Deglutì, respingendo il calore delle lacrime, prima di sporgermi in avanti e appoggiare la mia bocca sulla sua fronte, in un bacio che speravo potesse risvegliarla: la mia voce era ancora troppo instabile perché riuscisse a dare il via ad una giornata che sapevo mi avrebbe distrutta. Per fortuna l’intensità del mio contatto e i rumori di sottofondo di quel corridoio bastarono a farle dischiudere le palpebre: ridacchiai mentre, stropicciandosi gli occhietti, la sua bocca si spalancava in un rumoroso e immenso sbadiglio -“Hey..”- sfilai le mie dita dalla sua mano, cominciando a punzecchiarle la pancia per avere la possibilità di riempire la mia anima del suono della sua risata che, in poco tempo, colmò il silenzio di quella corsia, oscurando i lamenti di dolore e le grida di disperazione. Mi lasciai investire dalla vibrazione delle sue corde vocali, sperando che mi desse la forza necessaria per affrontare tutto quello a cui sarei andata incontro nel tempo successivo -“Dai mamma..”- ridacchiò, tentando inutilmente di allontanare le mie dita dal suo corpo: avevo bisogno di sentirla e vederla felice ancora per un po' -“Okay..okay..la smetto”- allontanai le mie armi di tortura dal suo addome, sorridendo d’innanzi alla suo viso che continuava a trasmettere serenità e gioia: si sollevò leggermente dalla branda, prima di lanciarsi verso il mio collo, racchiudendolo fra le sue braccia, e iniziare a ricoprire il mio viso di piccoli e teneri baci. Non opposi alcuna resistenza, consentendo al mio cuore di cibarsi di quel meraviglioso momento: la strinsi a me, non prestando attenzione al dolore della ferita che cominciava a diventare sempre più intenso a causa dei miei movimenti e della lieve pressione dei piedini di Luna sulla mia pancia -“Quando andiamo a cercare mami e Evolet?”- i muscoli del mio corpo si irrigidirono, mentre avvertivo le pulsazioni del mio cuore perdere un battito al sentire la sua richiesta: distolsi lo sguardo, sbattendo velocemente le palpebre per contenere lo strato di lucidità che aveva preso il possesso delle mie iridi -“Ehm..”- riportai i miei occhi nei suoi, cominciando ad accarezzarle la schiena per avere qualcosa che riuscisse a ridurre la soffocante morsa sulla mia anima -“..ci..ci andiamo adesso”- il sorriso che continuava a sostare sulla sua bocca non fece altro che allargarsi ancora di più, arrivando a contagiare i suoi occhi che, illuminandosi, costrinsero le mie labbra a ricambiare la sua espressione. Luna si sporse in avanti, lasciandomi un bacio sulla guancia destra, prima di scendere dalla brandina e cominciare a saltellare verso il corridoio adiacente a quello in cui ci trovavamo: deglutì, mentre avvertivo il vuoto racchiudere il mio stomaco nella sua stretta e l’angoscia attanagliare il mio cuore, di fronte alla sua felicità che probabilmente sarebbe stata spezzata. Con il magone che ghermiva la mia gola e lo strato di lucidità che ricopriva le mie iridi mi sporsi verso destra, cercando di sollevare il mio corpo da quella brandina: digrignai i denti, mugugnando di dolore, mentre facevo leva sui muscoli delle braccia, tentando di evitare la contrazione dell'addome. Sospirai tremante, appoggiando la mano destra sulla ferita e concedendomi un momento per riprendere fiato e asciugare il sudore che impregnava il mio viso: sollevai il braccio sinistro, passandomi la corta manica della maglietta sulla fronte e sul collo. Respirai profondamente, prima di compiere l'ultimo passo e poggiare il peso del mio corpo sulla pianta dei miei piedi: chiusi gli occhi, mentre una piccola sensazione di vertigine si faceva spazio nelle mie ossa, rendendole deboli, e nella mia mente, offuscando la mia vista. Attesi che quello stato di instabilità cessasse, per poi dischiudere le palpebre e procedere lentamente verso l'uscita, allontanandomi da quell'inferno di dolore solo per addentrarmi in un altro: ogni angolo di quell’edificio non faceva altro che incrementare la mia angoscia e la mia disperazione, strappandomi dall’anima quel barlume di speranza la cui luce era ormai asfissiata dalla paura. Raggiunta la fine del corridoio Luna mi prese per mano e, seguendo la velocità del mio passo, mi accompagnò in direzione dell'ingresso principale: durante il tragitto i miei occhi si soffermarono di sfuggita sulle persone che occupavano le varie corsie, troppo spaventati e sconvolti per avere la forza di reggere altra sofferenza e morte. Riuscì a prendere un paio di bende da un carello, prima di lasciare definitivamente quella struttura adibita ad ospedale e immergermi nel surreale e inquieto silenzio che accompagnava l’immensa devastazione generata dall'enorme onda: mi fermai per un istante, con l'ossigeno che faticava a raggiungere i miei polmoni e le ginocchia che avevano iniziato a tremare d'innanzi al vuoto, alla prospettiva di ciò che era rimasto. Aumentai la stretta intorno alla mano di Luna, cercando di trovare il coraggio che solo lei sarebbe stata capace di darmi per affrontare il lungo e straziante cammino che avrebbe atteso la nostra anima: deglutì, prima di voltarmi verso sinistra e dirigere il mio corpo in direzione della spiaggia, in direzione della mia famiglia. Non sapevo esattamente quanto tempo fosse passato, ma l’intenso calore del sole aveva reso la mia pelle particolarmente bagnata, le mie gambe troppo stanche per riuscire a reggere altri chilometri e la mia vista eccessivamente debole per avere l’audacia di esaminare, di nuovo, ogni persona sdraiata su quelle barelle: la prima volta il mio sguardo era stato sfuggente, da un lato oltremodo impaurito per riuscire a soffermarsi per più di qualche secondo sul viso dei vari sopravvissuti, dall’altro, così ansioso di trovare un segno di famigliarità che non ero stata in grado di controllare la rapidità con la quale aveva scandagliato ogni centimetro di quell’ospedale da campo; la seconda volta, invece, avevo imposto ai miei occhi di essere calmi e precisi, di non avere fretta di passare al corridoio successivo, ma quella mia decisione non aveva fatto altro che aggravare le condizioni della mia anima, incrinando le mie speranze e riducendo al minimo le mie forze. Mi sbilanciai verso sinistra, lasciando che il mio corpo trovasse sostegno nella durezza del muro che indicava l’ingresso dell’ennesimo ospedale: sospirai, chiudendo gli occhi e appoggiando la mano destra sul rovente capo di Luna che, stremata dall’intenso percorso, si reggeva stancamente alla mia gamba. Mi inumidì le labbra secche, prima di dischiudere lentamente le palpebre e prendere un respiro profondo: ero distrutta, fisicamente ed emotivamente, ero a pezzi, ma l’ombra della palma alla mia destra era più distante rispetto all’entrata della struttura e il bisogno di sapere se almeno i loro nomi fossero presenti sulla lista era più forte rispetto alla necessità di riparare il mio corpo dal sole e di riposare i miei occhi. Mi piegai verso Luna, raccogliendo le energie rimaste per essere in grado di prenderla in braccio e condurla sul lato sinistro -“Mamma”- mugugnò, appoggiando il capo sulla mia spalla e circondando tra le sue braccia il mio collo -“Ancora un momento tesoro..okay?”- annuì lievemente, avvicinando la fronte all’orlo della maglietta. Respirai profondamente, prima di staccarmi dalla parete e procedere a tentoni in direzione dell’apertura principale: le mie ginocchia erano troppo fragili e le piante dei miei piedi estremamente lacerate per riuscire ad avere un’andatura costante che mi permettesse di raggiungere in poco tempo l’ingresso. Dopo una manciata di minuti l’intenso calore del sole abbandonò la mia pelle, sostituito dalla delicata e refrigerante ombra che segnava il passaggio nella prima stanza dell’ospedale: mi concessi un secondo di pausa, lasciando al mio corpo il giusto tempo per recuperare il minimo di energia e preparando la mia anima ad assorbire tutto ciò che sarebbe venuto. Feci vagare lo sguardo per tutto l’atrio, finché la mia attenzione venne catturata da un paio di infermiere che stavano inserendo una serie di fogli all’interno di una carpetta: mi avvicinai a loro, sperando che la funzione di quei pezzi di carta fosse la stessa che avevo riscontrato nel secondo ospedale da campo -“Io..ehm..scusatemi..”- le due donne interruppero il loro lavoro, sollevando lo sguardo e prestandomi la più completa attenzione -“Si?”- mi schiarì la gola, prima di deglutire e aumentare la stretta intorno al corpo di Luna, come se averla più vicina avrebbe potuto attutire qualsiasi dolore -“Ehm..sto cercando Santana Lopez e Evolet Lopez-Pierce..sono..sono qui?”- avvertì il mio cuore accelerare il ritmo delle sue pulsazioni e il mio respiro farsi leggermente affannato, mentre le due ragazze controllavano la lista dei nomi presenti in quella struttura. Le pagine scorrevano velocemente tra le loro dita, accentuando il mio stato di angoscia e rendendo incredibilmente nervosa la mia attesa: percepì il mio cuore salire fino alla gola quando, una volta cessato il lieve strusciare di fogli, i loro sguardi si posarono su di me -“Mi dispiace ma..non le abbiamo trovate”- la fitta che travolse il mio stomaco fu così profonda da farmi mancare il fiato per diversi istanti: non potevo credere che non fossero nemmeno lì, dopo tre ospedali ancora niente. Un sospiro tremolante lasciò la mia bocca, mentre sbattevo con insistenza le palpebre per impedire alle mie iridi di accogliere le lacrime che sentivo sopraggiungere -“Ehm..grazie lo stesso”- sussurrai, con il tono di voce incrinato e la gola bloccata da un soffocante nodo. Rivolsi a entrambe l’accenno di un sorriso, prima di fare un passo indietro e prepararmi ad uscire: stavo per voltarmi quando una delle due infermiere non richiamò la mia attenzione -“Aspetti”- mi girai di scatto, credendo e sperando che fossero riuscite a individuare i loro nomi, ma l’attenzione dei loro occhi non era rivolta alla lista e il timore che traspariva da essi mi fece intendere che nulla di quello che avevo supposto fosse giusto: deglutì, stringendo di riflesso Luna e attendendo che fosse la loro voce a prendere parola -“Sa per caso dove fossero quando è arrivata l’onda?”- corrugai lievemente la fronte, sbattendo con rapidità le palpebre, mentre tentavo di dare una spiegazione a quella domanda e al tempo stesso di rispondere: la mia mente era talmente affaticata che sembrava aver vissuto una settimana in più rispetto ad egli eventi che erano accaduti solo la mattina precedente -“In..in spiaggia”- riuscì a percepire ogni secondo in cui la pelle delle mie mani cominciò a diventare fredda e l’irregolarità del mio respiro iniziò a prendere il sopravvento sulla velocità dei miei battiti: l’occhiata di preoccupazione che si erano scambiate non aveva fatto altro che rendere reali le mie paure -“Hanno..hanno trovato molte persone lì..ma ecco..”- la donna alla mia destra si voltò in direzione della sua collega, come se cercasse una sorta di aiuto -“Forse le conviene guardare nel campo qui vicino..ci sono..ehm..hanno trovato diverse persone..”- dischiusi leggermente la bocca, mentre il significato delle loro parole risuonava con prepotenza nella mia anima, recidendo ogni illusione che avevo tenuto stretta nel mio cuore: boccheggiai un paio di volte, con gli occhi che si facevano sempre più lucidi e lo stomaco che tentava di reprimere le contrazioni dei primi singhiozzi -“Okay..grazie”- riuscì a mormorare, prima di voltarmi e dirigere i miei passi verso l’uscita. Non appena la calda luce del sole investì il mio viso le mie guance vennero invase da una pioggia di gocce salate: singhiozzai, chiudendo gli occhi e avvicinando ancora di più Luna al mio petto. Con il corpo scosso dai tremori dei singulti e la vista appannata dal calore delle lacrime mi diressi verso la palma: avevo bisogno di qualcosa a cui appoggiarmi, altrimenti anche il mio fisico sarebbe sprofondato nell’oblio della morte. Una volta raggiunto il tronco mi lasciai cadere a terra, trattenendo a stento il grido che si era formato con violenza nella mia gola a causa della ferita al fianco destro: appoggiai la mano sulla fasciatura, prima di sollevarla in direzione della bocca per contenere il rumore dei singhiozzi che continuavano a far tremare la mia anima. Ero in frantumi, distrutta dalla consapevolezza che non c’era più alcuna possibilità, che tutte le speranze erano svanite, lasciandomi senza nulla a cui aggrapparmi: l’ennesimo singulto risuonò nella mia cassa toracica, scuotendo il mio corpo e ciò che rimaneva del mio cuore. Cominciai ad accarezzare la schiena di Luna, mentre le lacrime insistevano a scorrere lungo le mie gote e la mia anima si perdeva nella disperazione della realtà.
 


Sospirai, esausta dalle ore di cammino accumulate dalle mie gambe e dall’intensità dei raggi del sole che sbattevano con insistenza sul mio capo: mi fermai, sollevando il braccio sinistro e passandomi il dorso della mano sulla fronte sudata -“Facciamo una pausa?”- accolsi il consiglio di Evolet, annuendo e spostando il peso sulla gamba destra in modo tale da riuscire a piegarmi all’indietro e a sedermi per terra senza nuocere eccessivamente sulla ferita alla coscia: un lieve lamento di dolore fuoriuscì dalla mia bocca mentre, aiutandomi con le mani, distendevo la gamba sinistra fino ad appoggiarla sul polveroso suolo. Chiusi gli occhi, godendomi la sensazione di percepire i muscoli del mio corpo rilassarsi e le piante dei miei piedi trovare un momento di tregua dal fastidioso e bruciante sfregamento delle abrasioni sulla dura e sporca superfice, prima di prendere la fasciatura che avevo recuperato nel mio corridoio quella mattina e cambiare il bendaggio. Gemetti sofferente nell’instante in cui, una volta srotolata la vecchia e sanguinosa garza, portavo allo scoperto la ferita e la sua infezione: avvicinai le dita alla lesione, facendo scorrere con tremante leggerezza i miei polpastrelli sui piccoli pezzi di legno che erano rimasti incastrati nella mia carne durante la collisione con una parte del tronco. Rimasi a contemplare i danni della perforazione per alcuni secondi, prima di sospirare e avvolgere la mia coscia nella nuova e pulita benda -“Mami”- richiamata dalla sua voce sollevai lo sguardo, sorridendo alla vista di lei che mi porgeva un pezzetto di mela -“Grazie tesoro”- allungai il braccio sinistro, sfilandole il boccone e portandolo alla bocca: chiusi gli occhi, gustandomi il sapore dolciastro della mela e la sua consistenza acquosa, necessaria per recuperare le forze e affrontare l’ennesimo ospedale. Durante il nostro tragitto verso la zona centrale della città  eravamo incappate in due strutture che soccorrevano i sopravvissuti, ma in nessuna di esse avevamo trovato traccia di Brittany o Luna: dolore, sofferenza, sangue e morte, erano quelli gli unici segni di cui i nostri occhi si erano fatti testimoni, mentre si erano soffermati sui volti e i corpi delle persone; segni che avevano reciso la mia anima, fatto vacillare le mie speranze e inumidito i miei occhi: sembrava che ad ogni corridoio che percorrevo, ad ogni barella che superavo le possibilità di ritrovarle si riducessero sempre di più, come se ci fosse un numero massimo di sopravvissuti, come se la visione di tutti quegli spazi già occupati precludesse la loro esistenza. Sbattei velocemente le palpebre, mentre quel pensiero si addentrava nella mia mente, bloccandomi il respiro e racchiudendo le mie iridi in un intenso vortice di calore: abbassai il capo, cercando di nascondere il rossore dei miei occhi e quell’angoscia che, attanagliando il mio cuore, si sarebbe tradotta in una serie infinita di lacrime. Un sospiro tremolante abbandonò la mia bocca, mentre tentavo di ridurre la soffocante presa del magone che dalla gola si stava estendendo fino allo stomaco: il mio corpo era contratto, dolorante, così come la mia anima che percepivo stridere e gridare di terrore, in attesa dell’istante in cui si sarebbe frantumata. Volevo urlare, volevo piangere e liberarmi da tutto quello che mi stava divorando dentro, ma non potevo lasciare che la disperazione prendesse il sopravvento sulla speranza, su quella speranza che avevo promesso a Evolet: sollevai lo sguardo, osservando il suo viso che, concentrato e attento, stava già scrutando le persone che si aggiravano vicino all’ospedale da campo a pochi metri da noi, alla ricerca di famigliarità -“Pronta?”- non sapevo esattamente a chi stessi rivolgendo quella domanda, ma quando lei si voltò, incrociando i nostri occhi e annuendo decisa, una sensazione di calore si diffuse nella mia anima, donando un minimo di sollievo e conforto alle crepe del mio cuore: respirai profondamente, prima di posare i palmi delle mie mani a terra e fare leva sui muscoli per sollevarmi. Una volta raggiunta la posizione eretta, grazie all’aiuto di Evolet, cominciammo ad incamminarci lentamente in direzione della struttura: i miei passi erano così instabili e la mia ferita così dolorante che l’unico modo che avevo per riuscire ad andare avanti era mettere un piede alla volta, zoppicando e distribuendo parte del mio peso sul braccio destro di Evolet. Nel corso del breve tratto non avevo potuto evitare al mio sguardo di andarsi a posare su ogni centimetro di quell’edificio, cercando con assidua insistenza qualcosa di conosciuto per evitare di addentrarmi in quella spirale di sofferenza, ma i miei occhi non erano stati in grado di intravedere nulla, così, giunte all’ingresso, mi costrinsi a superare la soglia e a focalizzare l’attenzione sull’ambiente circostante, fino alla visione di un infermiere che, ad un tavolo, stava scrivendo su dei fogli bianchi: sospirai, prima di intimare ad Evolet di aspettarmi e procedere verso di lui. Più mi avvicinavo a delle possibili risposte, più avvertivo i battiti del mio cuore accelerare, il mio stomaco racchiudersi in una ferrea morsa e una sensazione di vertigine propagarsi in tutto il mio corpo, accentuando la mia precarietà fisica e visiva: mi fermai, chiudendo gli occhi e tentando di calmare il tumulto a cui era sottoposta la mia anima, ma senza ottenere alcun risultato, poiché la mia incertezza non aveva fatto altro che incrementare le mie paure. Deglutì, sbattendo le palpebre e riportando lo sguardo sulla speranza d’innanzi a me -“Mi scusi..”- l’uomo alzò il capo, sospendendo il suo lavoro e concedendomi il suo interesse -“..sto..sto cercando due persone..ehm..”- incanalai dell’ossigeno nei miei polmoni, mentre intrecciavo in maniera frenetica le mie tremanti e sudate dita, alla affannosa ricerca di qualcosa che potesse distrarre la mia anima da quell’attimo -“..Brittany S. Pierce e Luna Lopez-Pierce”- le mie tempie cominciarono a pulsare, inondate dal frastornante rumore dal mio battito cardiaco che sentivo espandersi in tutti i miei organi, mentre il mio respiro faticava a superare la soglia della gola, bloccandosi nel centro della trachea e ampliando il peso del magone che sostava lì immobile. Il mio udito dovette attendere alcuni minuti, prima di percepire il silenzio, segno che i polpastrelli del ragazzo avevano smesso di sfogliare con rapidità i vari fogli presenti: i miei occhi si inumidirono mentre, soffermandomi sul suo sguardo, prendevo visione del suo dispiacere e della sua preoccupazione -“Non le ho trovate..mi dispiace”- percepì ogni istante in cui la mia anima si squarciò, frantumandosi in mille pezzi d’innanzi all’ennesima speranza infranta. Lasciai che le lacrime racchiuse nelle mie iridi si riversassero con forza sulle mie guance, dando sfogo a quel dolore e a quell’incredulità che stavano logorando il mio cuore: iniziai a scuotere il capo, cercando di allontanare della mente e dal corpo l’eventualità di averle perse per sempre perché semplicemente non poteva essere vero, non potevo vivere senza la maggior parte del mio cuore -“Non..non è possibile..io..”- i primi singhiozzi cominciarono a scuotere il mio corpo, incrinando la mia voce e rendendo affannoso il mio respiro -“..questo è..è il terzo ospedale..e..”- mi bloccai, di fronte allo sguardo dell’infermiere che celava la risposta al motivo per il quale probabilmente non le avessi trovate da nessuna parte: sospirai tremante, permettendo ad altre gocce salate di rigare le mie gote e ad altri singulti di prendere il possesso della mia gola -“Forse..”- scossi il capo, sollevando la mano sinistra per fermare quelle parole che avrebbero sicuramente distrutto la mia esistenza -“Non..senta non è possibile..lei..ricontrolli”- la mia voce tremava, così come il mio corpo, completamente in balia del terrore e di quella verità che non avevo il coraggio di vedere -“Signora..”- -“Ricontrolli!”- gridai, con l’angoscia che attanagliava la mie corde vocali e la disperazione che solcava ogni centimetro del mio volto. L’uomo non si scompose, continuando ad osservarmi comprensivo e addolorato, come se fosse testimone di una sofferenza a cui non poteva porre rimedio -“Mami”- mi voltai di scatto verso destra, deglutendo alla vista dei suoi occhi che, arrossati e impauriti, vagavano confusi nei miei, alla ricerca di una risposta per ciò che era accaduto: boccheggiai per un istante, tentando di non far emergere la mia devastazione interiore, prima di rivolgermi nuovamente all’infermiere -“Mi scusi”- mormorai, asciugandomi rapidamente le lacrime e voltandomi in direzione dell’uscita: avevo bisogno d’aria. Non mi soffermai sull’acuto dolore che sentivo alla coscia sinistra, sulla sensazione del sangue che scivolava lungo la mia gamba e nemmeno sul bruciore che avvertivo alle piante dei piedi, mentre mi allontanavo a passo svelto dalla dura realtà: se ne erano andate per sempre. A quel pensiero il mio stomaco si contrasse, come se fosse stato colpito da un pugno, il mio battito cardiaco si spense, arrestando il mio respiro, i frammenti della mia anima si dispersero nell’oblio della mia sofferenza e le mie guance si bagnarono di tutte quelle lacrime che avevo avuto paura di versare: una serie di rumorosi singhiozzi travolse il mio corpo, accentuando l’instabilità della mia andatura e rendendo precaria la mia vista. Uscì dall’ospedale e, senza effettivamente prestare attenzione a dove stessi andando, cominciai a dirigermi verso la strada -“Brittany! Luna!”- urlai, con tutto il fiato che mi era rimasto, cercando di ricevere un segno della loro presenza, ma nemmeno l’eco della mia voce riuscì a raggiungermi -“Brittany! Luna!”- ritentai, sperando che in qualche modo potessero sentirmi, ma tutto quello che ottenni fu l’angosciante silenzio della desolazione che mi circondava: chiusi gli occhi, crollando a terra e inginocchiandomi sulle migliaia di detriti che aveva causato quella maledetta onda. Mi piegai in avanti, mentre un lamento di dolore riecheggiava nella mia gola, accentuando lo strazio che stava prendendo forma all’interno del mio corpo -“Noo!”- gridai, con la fronte appoggiata sulle macerie e le mani che stringevano con forza ciò che rimaneva di intere abitazioni, di intere vite -“Noo!”- in quel momento tutta la disperazione che avevo cercato di nascondere e reprimere esplose, travolgendo con violenza ogni aspetto di ciò che ero: il mio corpo, scosso dai continui e aggressivi singhiozzi, tremava incontrollato, i miei occhi, gonfi e arrossati dalle lacrime, riflettevano l’essenza di un’anima spenta e vuota, mentre il mio cuore, contrito e lacerato, sprofondava nel silenzio dei suoi assenti battiti. Rimasi a fissare il nulla davanti a me, ascoltando il suono del mio dolore che, dalla mia bocca dischiusa e bagnata di lacrime e saliva, si disperdeva nell’immensità della mia sofferenza, finché qualcosa di caldo e rassicurante avvolse la mia carne, riversando vita nella mia morente anima: un battito rimbombò nel mio corpo, così potente e inaspettato da farmi sbattere le palpebre e rivolgere il capo verso destra, dove ad attendere il mio sconforto vi era una luce, mitigata dalle lacrime e dalla paura, ma pur sempre una luce di speranza. Lasciai che le sue braccia calmassero i tremori del mio corpo, ripristinassero l’ossigeno nei miei polmoni e donassero un minimo di sollievo ai miei tormentati occhi, fino a quando non fui in grado di sollevarmi leggermente da terra e racchiudere nella mia anima il mio sostegno vitale -“Scusami tesoro..scusami tanto”- mai avrei voluto che lei mi vedesse in quello stato, ma dopo l’ennesima aspettativa andata in frantumi non ero riuscita a reggere l’intensità della sofferenza che ne era derivata. Evolet strinse la presa intorno al mio corpo, restituendo alla mia anima quel pizzico di speranza di cui necessitava per credere che, forse, non tutto era perduto.
   
 
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