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Autore: Sapphire_    13/05/2021    1 recensioni
Trenta minuti.
Trenta minuti bloccati insieme in ascensore.
Possono bastare per cambiare radicalmente il rapporto tra due persone?
***
Dal testo:
«Quanto hanno detto che ci mettono?» chiedo, più per riempire il silenzio dell’ascensore che per sapere realmente la risposta. E infatti lui mi guarda con una vaga espressione che potrei solo tradurre come “sei scema?” per poi concludere con uno sguardo di impassibilità.
«Trenta minuti.» è la sua telegrafica risposta.
Dio santo, mio fratello mi ucciderà. E anche la mia futura cognata, a cui avevo assicurato di essere onnipresente in caso di crolli psicologici nei cinque minuti precedenti alla cerimonia.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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È ormai passato quasi un anno da quando ho pubblicato qualcosa dall’ultima volta, anche se di certo non ho smesso di scrivere in tutto questo tempo.

Volevo pubblicare qualcosa da un po’ di tempo, ma tutte le idee che ho in testa sono per ora difficili da buttare giù, quindi ho optato per qualcosa che mi portasse via poco tempo e quindi rieccomi qui, con una nuova one-shot per questa raccolta che fino ad ora aveva solo una storia. Lo stile è diverso da quello della precedente, ma spero che possa piacere comunque.

Avevo optato per un finale diverso, all’inizio, ma alla fine non ce l’ho fatta!

Beh, non mi perdo in altre chiacchiere, quindi vi auguro buona lettura e, se vi va, lasciate un commentino!

Buona lettura!

 

~Sapphire_

 

 

 

~Trenta minuti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Agatha aveva sempre pensato che non esistessero le “coincidenze”.

Se una cosa deve succedere, succederà, punto. E se essa accade, non è per un qualche assurdo scherzo del destino, ma solo perché tu hai voluto che accadesse e hai fatto sì che le circostanze portassero a quel risultato.

Da avvocato, d’altronde, aveva una visione alquanto pragmatica e logica della vita.

In quel momento, però, chiusa in un ascensore con il suo peggior nemico, pensava che di sicuro ci fosse lo zampino di qualche strana entità malevola, perché lei di sicuro non aveva voluto tutto quello.

«Non sentirti parlare, per una volta, è un episodio da segnare sul calendario.»

«Fottiti, Stone.»

L’uomo affianco a lei scoppiò a ridere – ma non era una risata gentile, di cuore, no, era una risata beffarda e cattiva.

Agatha alzò lo sguardo verso il suo – purtroppo – collega, e sperò che l’occhiataccia fosse sufficiente a renderlo cenere. Sfortunatamente, non bastò.

«Se mi guardi così mi consumi, lo sai?» la canzonò ancora il giovane uomo, appoggiato con indolenza su una delle pareti dell’ascensore, la cartella di pelle poggiata con poco riguardo per terra.

«Magari ti consumassi, almeno spariresti dalla mia vista.» sibilò la donna, stretta nel proprio tailleur giacca-pantalone color crema, la cartellina del suo ultimo cliente stretta al petto come baluardo di salvezza.

L’uomo alzò gli occhi al cielo.

«Rilassati, fiorellino, dovrai stare qui con me per un’altra mezzora almeno.» soffiò melenso l’uomo.

«La mezzora peggiore della mia vita.» continuò la donna, masticando un’imprecazione tra sé.

L’altro si limitò a sbuffare una risata e tacque.

Era quantomeno assurdo che l’ascensore si fosse bloccato proprio quando lei e quel… coso erano lì dentro. Avrebbe preferito rimanere rinchiusa con un serial killer, piuttosto che con Maximilian Stone, suo acerrimo rivale dai tempi del college, odioso quanto sfacciatamente bello.

Sì, era sempre stato un fottuto modello, e questo era l’unico motivo per cui aveva avuto un’imbarazzante cotta per lui alla misera età di diciannove anni. Cotta sfumata nel momento in cui l’aveva contraddetta di fronte al loro docente di diritto, in mezzo all’aula, facendole fare la figura dell’idiota incapace.

Lo odio.

«Già che siamo qui, perché non mi parli del tuo cliente? Ho saputo che hai perso miseramente l’ultima udienza, magari posso darti una mano.» soffiò dolce Max «Se me lo chiedi per favore, ovvio.» aggiunse ironico.

Dalla gola di Agatha uscì un suono che sembrò un ringhio – come cazzo aveva fatto a sapere di quella figuraccia? Certo, di sicuro gliel’aveva detta quel deficiente di Thomas, quello stupido assistente non sapeva tenersi la bocca chiusa!

«Non ne ho bisogno.» rispose tagliente.

«Sicura? Posso aiutarti, lo sai…» continuò suadente l’altro e Agatha non poté fare a meno di alzare lo sguardo e fissarlo. Gli occhi neri dell’altro la osservavano con un tono canzonatorio e la voglia di mandarlo all’inferno si faceva più prepotente ogni secondo che passava.

«No.» si limitò a dire, trattenendo l’insulto sulla punta della lingua.

Insultarlo non le sembrava la scelta migliore, dal momento che avrebbe dovuto passare un’altra mezzora – anzi, altri venticinque minuti ormai – chiusa in un cubicolo di due metri per due con l’idiota.

«Quanto sei noiosa.»

Agatha continuò a tacere.

Ma cosa ho fatto di male per meritarmi questa piaga?

Sì, perché Maximilian per lei era la propria personale piaga – altro che locuste, acqua trasformata in sangue e pioggia di fuoco! Quello era una piaga, accidenti!

«Dato che dovremmo rimanere qui per altro tempo, potremmo conversare, non credi?»

La donna, con aria altezzosa, si spostò dal viso la ciocca di capelli castano mogano sfuggita al serioso chignon e aprì la propria cartella.

«Non credo.» disse secca, per poi chinare lo sguardo sui fogli che spuntavano e iniziando a leggerli in maniera ossessiva – che conoscesse a memoria ogni singola parola stampata su di essi non era importante, d’altronde, il suo obiettivo era ignorarlo su tutti i fronti.

Ma non servì a niente fare finta di nulla, dato che un attimo dopo una mano le strappò via fogli e cartella compresa, allontanandoli dalla propria portata.

«Ehi!» strillò infuriata.

Max, dall’alto del suo metro e novanta – ma che gli avevano dato da mangiare, per renderlo così alto?! – sollevò in aria ciò che aveva appena rubato e la fissò divertito.

«Non è carino ignorare le persone, sai?»

«Non me ne frega nulla di cosa è carino o no! Di certo non mi spreco con te!» continuò infuriata.

Era assurdo come il proprio aplomb scomparisse come vapore nel momento in cui l’uomo le rivolgeva la parola. Lei, che riusciva a mantenere il perfetto controllo anche quando sentiva gli insulti di pazzi omicidi che si ritrovava a difendere in tribunale, di fronte a quel tizio perdeva le staffe come mai le capitava.

«Su, un po’ di controllo, fiorellino.»

«Non chiamarmi in quel modo, idiota!»

Max scoppiò a ridere scuotendo la testa e così facendo i suoi capelli neri, sotto le luci bianche dell’ascensore, assunsero delle strane sfumature bluastre.

«Adoro le tue reazioni!» disse fra le risa e ad Agatha non rimase che arrossire, sempre più arrabbiata.

«Ma cosa hai, cinque anni?» sbottò poi «Ridammi i fogli!» ordinò perentoria, ma la frase che voleva essere gelida risuonò alquanto infuocata dalla rabbia.

«Come si dice?» la prese in giro l’altro.

«Ridammi i fogli, altrimenti non uscirai mai più da questo ascensore.» disse ancora la donna «O, perlomeno, non sulle tue gambe.» aggiunse in un sibilo.

Max dovette accorgersi delle fiamme che lampeggiavano negli occhi castani dell’altra, perché scrollò le spalle divertito e si arrese a riconsegnare il tutto alla donna, che li afferrò con uno strattone per richiuderli nella cartella giallo canarino.

Fu per un solo secondo che le loro mani si sfiorarono, ma quel contatto fu sufficiente per far rabbrividire la donna che ostentò nonchalance, sperando che l’altro non se ne fosse accorto.

Povera illusa.

«Non pensavo che toccarmi ti scatenasse ancora una reazione simile.» frecciò svagato Max.

«Quale reazione?»

Negare, negare sempre.

«Hai rabbrividito, l’ho visto.»

Fanculo lui e la sua vista da lince.

«Hai le mani fredde.»

«Bugiarda.»

Agatha non rispose e l’ascensore cadde nel silenzio assoluto mentre la donna guardava ostinatamente un punto fisso sul muro.

«Non è che…» l’uomo iniziò a parlare e Agatha sperò davvero che non dicesse quello che pensava.

Di nuovo, povera illusa.

«…Non è che ripensi ancora a quei momenti in biblioteca?»

Era inevitabile arrossire se tirava fuori quell’argomento – l’unica macchia nel perfetto curriculum di Agatha. L’unica cosa che, per quanto si sforzasse di rimuoverla dalla propria testa, rimaneva cementificata nella memoria a lungo termine.

«Non ripenso proprio a nulla.»

Bugiarda.

«Davvero?»

La domanda di Max suonò casuale.

«Sì.» altra risposta secca.

«Quindi non ripensi a quando ti sbattevo sulla libreria, a come ti baciavo, a come ti toccavo…»

«Non ripenso proprio a un bel niente!» strillò la donna – l’altro scoppiò a ridere.

Perché doveva fare così? Perché doveva rinvangare quei ricordi che cercava di seppellire altrove?

«Peccato.»

Agatha finì per guardarlo e lo trovò che percorreva il suo corpo con aria maliziosa. Appena si accorse di essere osservato, si stampò in volto un’espressione innocente e un sorriso angelico.

«Sì?»

«Smettila di guardarmi così.»

«Così come?»

«Come se…!» si interruppe.

Come se volessi strapparmi i vestiti di dosso.

Ma non serviva pronunciare ad alta voce quelle parole, erano già sospese tra di loro e se Max godeva nel giocherellare con esse, insinuando più di quanto non dicesse realmente, la mora cercava di farle sparire come fumo nell’aria.

«Come se…?»

Eppure, l’altro voleva sentirle dalle sue labbra – ma lei non gli avrebbe concesso quella vittoria, per questo tacque e spostò lo sguardo.

«Hai intenzione di fare così per tutto il resto del tempo?» continuò ancora l’uomo – proprio non voleva tacere, notò Agatha.

«Perché mi tormenti in questo modo?» finì per chiedere la donna, e la sua domanda risuonò tragicamente disperata in quel cubicolo che sembrava diventare sempre più stretto ogni minuto che passava.

Ma, a quella domanda, Max per la prima volta tacque. La fissava, gli occhi neri che erano diventati quasi pesanti, e Agatha per un attimo pensò che fossero come buchi neri, la cui forza gravitazionale la attraeva verso di loro. Si costrinse a spostare lo sguardo.

«E tu, perché non mi guardi più?»

La domanda fu un soffio e la donna percepì una strana nota desolata in quella domanda, una nota che non seppe spiegarsi.

«Che domanda è questa?» finì per borbottare la donna, confusa.

Max alzò gli occhi al cielo e sorrise.

«Lascia stare.»

Se fino a un momento prima avrebbe accolto quella frase con sollievo, in quell’istante le diede persino fastidio.

«No. Spiegami.» ordinò perentoria. Max la fissò divertente.

«Sai che non puoi costringermi, vero?»

Agatha sbuffò.

«Ti conosco abbastanza da sapere che, se non avessi voluto rivelarmi nulla, non avresti detto quella frase dall’inizio.» disse secca.

Ed era la verità: Max, da bravo avvocato, non lasciava nulla al caso, men che meno una frase. Conosceva bene il potere delle parole.

«Touché.» ammise l’uomo e scrollò le spalle.

«Quindi, che significa quello che mi hai detto?»

Il silenzio che intercorse tra quella domanda e la risposta fu più lungo di quanto Agatha si aspettasse. Lo osservò mentre si lasciava scivolare indolente per terra, la schiena lungo la parete dell’ascensore, e lo vide che apriva la bocca per un secondo di troppo prima di iniziare a parlare.

«…Hai smesso di considerarmi da quando abbiamo finito il college. Perché?»

Il tono con cui venne fatta la domanda era un misto tra la tristezza e il fastidio, e Agatha si ritrovò a guardarlo spiazzata.

«Non ho smesso di considerarti. Siamo colleghi dello stesso studio, come potrei non considerarti?» frecciò sarcastica – eppure sapeva cosa intendeva, anche se faceva la finta tonta.

«Sai cosa intendo.»

Ma come la donna conosceva bene Max, anche lui conosceva bene lei.

«Che vuoi che ti dica? Ci odiamo a vicenda, che dovrei fare, starti sempre appresso?» fece retorica e con una vena sarcastica nemmeno troppo sottile.

«Io non ti odio.»

Se le avesse detto “Ho deciso di cambiare sesso”, forse sarebbe rimasta meno scioccata.

«Ma che dici? Sì che mi odi.» balbettò irritata.

«No, sei tu che pensi che io ti odi.» continuò ostinato l’altro – e Agatha proprio non sapeva come rispondere, non se lui la guardava con quegli occhi neri, per la prima volta dal basso verso l’alto e non viceversa.

«Tu vorresti che io ti odiassi, e così ti sentiresti giustificata a odiarmi a tua volta.» continuò con una logica tutta sua.

Agatha scoppiò a ridere – ma la risata suonò strana all’interno dell’ascensore, quasi stridula.

«Stronzate.» disse solo, senza aggiungere altro, ma solo perché non sapeva bene come rispondere.

Agatha Prince che non sapeva come rispondere. Avrebbe iniziato a piovere viola.

Ma a quel punto Max sembrava essersi stancato di quelle negazioni continue, e dopo essersi alzato con aria indolente si avvicinò alla donna. Agatha avrebbe volentieri arretrato, peccato che dietro di lei la parete le ricordasse che non ci fossero altri posti in cui rifugiarsi.

«Sai che non sono stronzate. Tu pensi che io ti odi perché quella volta sono andato a letto con Susan.»

Fu come essere pugnalate, solo molto peggio, ma Agatha si costrinse a ridere.

«Sai quanto mi importa.» frecciò sprezzante – no, a lei non importava proprio un bel niente di quella sottospecie di tradimento con quella poliziotta alle prese con un caso di loro competenza. Non le importava niente.

Niente.

Max la osservò con i suoi occhi indagatori e per un secondo ad Agatha le parve di essere tornata in biblioteca, lì dove, al riparo da occhi indiscreti, l’uomo aveva preso ad osservarla con una strana luce negli occhi. Dopo ciò, aveva imparato ben presto che adorava quando i suoi occhi si posavano su di lei.

«Invece ti importa eccome.»

L’ennesima frase con quel tono supponente le fece perdere le staffe. Praticamente lanciò per terra quella fastidiosa cartellina gialla mentre un sibilo di fastidio le sfuggiva dalle labbra tinte di un rossetto pesca.

«Smettila, maledizione! Non mi importa proprio un cazzo di come ti sei scopato quella deficiente, né del fatto che non riesci a tenertelo nei pantaloni per più di un minuto. Quindi smettila di infastidirmi e continua a vivere la tua vita respirando lontano da me.»

Sentì il petto alzarsi e abbassarsi furiosamente dopo quelle parole – era sicura che le fosse saltato un bottone da quella camicia che già quella mattina le sembrava troppo stretta sul seno, ma non le importò.

Si costrinse ostinatamente a non osservare un’eventuale reazione da Max per poi chinarsi e prendere la cartelletta.

Il silenzio che era calato però era davvero troppo.

Max la fissava con un’espressione indecifrabile negli occhi – anche la sua aria sarcastica e pungente era scomparsa mentre lasciava scivolare lo sguardo su di lei.

«Che vuoi?» voleva davvero trattenersi da porre quella domanda, ma non ce la fece.

Solo a quel punto Max si lasciò andare in uno sbuffo che nascondeva appena un sorriso.

«Finalmente riesco a farti scomporre.» soffiò appena – Agatha si ritrovò ad arrossire senza nemmeno sapere il perché, o forse lo sapeva ma non lo voleva ammettere.

Lui la guardava e lei per un attimo capì come ci si dovesse sentire dietro il banco dei testimoni davanti al quale c’era sempre lei, forte e sicura delle domande che doveva porre.

«Perché non mi lasci tranquilla e basta?» avrebbe voluto usare un tono meno desolato ma non riuscì a trattenersi.

Nemmeno Max però dovette riuscire a impedirsi quello che aveva da dire, perché dopo essersi appena morso un labbro si arrese a parlare.

«Perché odio vederti così tranquilla e serena senza di me. Perché tu riesci a continuare la tua vita senza nemmeno degnarmi di un’occhiata, anzi, odiandomi addirittura, mentre io continuo a cercare le tue attenzioni come il diciannovenne che ti faceva gli agguati in biblioteca per sfruttare del tempo con te. Sono ancora il ragazzino che non vuole ammettere che tu mi piaci e che per farsi notare da te ti tratta male.»

Agatha non era sicura che quelle fossero le parole che voleva sentire, eppure udirle fu come se qualcuno avesse improvvisamente scoppiato il palloncino che rimaneva sospeso nel petto.

«Cosa stanno a significare queste parole?»

Avrebbe davvero voluto non avere la voce spezzata.

Quelle parole però erano troppo vaghe, troppo poco pragmatiche per far sì che un avvocato come lei le comprendesse. Lei aveva bisogno di fatti certi, di prove, di regole scritte e clausole che spiegavano come evitarle. Non di vaghe frasi su sentimenti passati.

«Hai capito bene che cosa voglio dire, Agatha.»

Ma il problema era che lei non voleva capire.

Lo guardò senza vederlo realmente mentre la sua mente si affaccendava per cercare di dire qualcosa – una qualsiasi cosa. Ma non sapeva lei stessa cosa pensare.

«Signori, siete ancora lì? Fra pochi minuti apriremo le porte, vi chiediamo qualche attimo di pazienza.»

La voce di un uomo provenne metallica dall’altoparlante dell’ascensore, rompendo quella strana situazione che si era venuta a creare.

Prima ancora che Max potesse realizzare la frase, Agatha già si era precipitata davanti all’altoparlante.

«Sì, siamo qui. Per favore, sbrigatevi.»

Il tono voleva essere seccato e misurato, ma con orrore si accorse di essere suonata come una ragazzina spaventata. E lei non lo era.

«Hai intenzione di fuggire appena si apriranno le porte?»

La voce di Max la raggiunse mente gli dava le spalle.

«Ho una riunione.» rispose solo. Sentì lo sbuffo sarcastico dell’altro.

«Quindi sì, hai intenzione di fuggire. Complimenti, Agatha, ti credevo più matura.» la frase suonava sprezzante e la donna fece violenza su sé stessa per non replicare.

Doveva solo attendere qualche minuto, poi tutto quello sarebbe finito. E sarebbe potuta correre via da quell’ascensore, da quella situazione, da lui.

Non poteva dirle quelle frasi, non in quel momento, non in quelle condizioni.

Le porte iniziarono ad aprirsi lentamente e lei si voltò verso Max che la fissava con una desolazione che mai aveva visto nel suo sguardo – uno sguardo sempre sicuro, controllato, superiore.

«Davvero non vuoi dirmi nient’altro?»

Sentire quel tono di vaga preghiera fu come un pugno allo stomaco per Agatha. Oltrepassò lui con gli occhi, fissandoli sulle porte che si aprivano; oltre riconobbe i volti degli addetti e altre persone che curiose osservavano la scena.

«…io…» soffiò appena, fu solo un sussurro.

E lo oltrepassò, uscendo fuori da quell’ascensore che aveva appena assistito a ciò che lei mai si sarebbe aspettata accadesse. 

«State tutti bene?!»»

Stavano tutti bene?

Agatha si voltò verso di Max.

«Sì, tutto a posto.» sussurrò.

Si girò, la cartellina stretta tra le mani, lo sguardo fermo, lo stesso che usava quando era di fronte al giudice.

Fece un passo. Poi un altro e un altro ancora

Ma si bloccò prima che potesse impedirselo e si voltò.

Max era ancora lì, la guardava e ignorava gli addetti alla sicurezza, ignorava tutto il resto tranne lei, e non era sicura che quel sentimento nei suoi occhi fosse solo la sua immaginazione.

«Credo…» si interruppe e fu un dolore piacevole quello che provò nell’osservare il lampo di speranza negli occhi dell’altro.

«Credo che mi servirà un’opinione sul caso Roxwell-Avery.» disse, non osando spostare lo sguardo per paura che quello che vedeva negli occhi di lui potesse sparire.

«Tu sei disponibile?»

Max la osservò in silenzio. Lo vide fare qualche passo verso di lei e sorridere.

«Certo, se proprio non puoi farcela senza di me.»

«Idiota.» le sfuggì.

Ma Max scoppiò a ridere e lei fu sicura che ciò che vedeva in quegli occhi non era solo la sua immaginazione.

Poi la superò, sempre con un vago sorriso stampato sulle labbra e uno strano luccichio negli occhi scuri.

«Ricordami di mandare un assegno alla ditta degli ascensori.»

Le lanciò un ultimo sguardo prima di precederla.

«Devo ringraziarli.»

  
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