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Autore: Old Fashioned    13/05/2021    9 recensioni
Prima guerra mondiale. A un giovane e ardimentoso pilota tedesco viene assegnata una strana missione: dovrà atterrare con il suo aereo dietro le linee nemiche e lì caricare a bordo una persona, poi rientrare alla base. Tutto semplice, all'apparenza, peccato che la persona che dovrà caricare, una pericolosa spia tedesca, sia inseguita dal suo arcinemico: una spia inglese di pari livello, disposta a tutto pur di catturare il rivale.
Questa storia è stata scritta per Crazy_person, come modesto ringraziamento per tutte le bellissime recensioni che mi ha sempre lasciato.
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Incliti lettori,
un altro po’ di mappazza per non perdere l’abitudine. Come sempre ringrazio tutti coloro che gentilmente passano da queste parti, anche solo per dare un’occhiatina.
Ringrazio sentitamente, anche un po’ commosso, chi addirittura mi lascia un commento. Molte grazie e, spero, buon divertimento con le disavventure del nostro pilota!^^






Capitolo 9

Il camion correva sobbalzando sulla pianura.
Von Knobelsdorff si guardò i polsi: le ferite ormai si erano rimarginate. Al loro posto erano rimaste sottili strisce rossastre, un po’ più lucide della cute circostante, come se il suo corpo avesse dovuto stiracchiare la pelle rimasta per coprire le piaghe che le corde gli avevano procurato. Il dottore aveva detto che anche quelle col tempo sarebbero scomparse.
In ogni caso, le mani si muovevano bene, era certo che entro breve sarebbe anche tornato in grado di suonare il pianoforte.
Non che gli interessasse particolarmente, suonare il pianoforte. L’aveva studiato da piccolo, ovviamente, e ogni tanto lo strimpellava ancora, con l’abitudine disinvolta delle cose che si sono imparate tanto tempo prima perché è normale impararle. Lo faceva più che altro in certe serate di baldoria con i camerati, quando a qualcuno veniva in mente di cantare.
In ogni caso preferiva la cloche alla tastiera, poco ma sicuro.
Si sistemò meglio sulla cassa di munizioni che aveva scelto come sedile. Dall’apertura posteriore del cassone rimase a guardare la strada bianca, che scorreva come una specie di nastro attraverso un paesaggio su cui la guerra aveva esatto un pesante tributo. Sui campi incolti si susseguivano i crateri lasciati dai proiettili d'artiglieria, le poche case che si vedevano erano in rovina o disabitate. Qua e là vi erano ancora tratti di filo spinato.
Quando era stato il momento di rientrare alla Jasta aveva trovato un passaggio su un camion di rifornimenti. L’autiere l’aveva invitato con deferenza a sedere in cabina, ma lui aveva rifiutato, preferendo accomodarsi dietro, in mezzo a munizioni e pezzi di ricambio.
Aveva bisogno di pensare in pace.
Ancora una volta era successo qualcosa che non riusciva a spiegarsi. Quando già si vedeva di fronte al plotone d’esecuzione, a fumare l’ultima sigaretta in attesa delle pallottole fatali, l’avevano liberato e rinviato alla sua unità d’appartenenza.
Cosa fosse accaduto, e perché, soprattutto, non gli era dato di saperlo. Aveva sempre fornito le stesse risposte alle domande dei vari interrogatori, anche perché obiettivamente non sarebbe stato in grado di fornirne altre. Fino a un certo punto non erano andate bene, poi a un tratto, non sapeva perché, la cosa era cambiata.
Niente più domande e ovviamente niente spiegazioni. Da domani riprenderà servizio, arrivederci e grazie.
Non riusciva a liberarsi della sensazione di essere un bambino che ha scoperto il trucco della lanterna magica: non c'erano figure fatate che si inseguivano sulle pareti di una stanza buia, c'erano semplicemente un proiettore con una lente, un fornellino a spirito che produceva luce e una serie di immagini stampate su vetro.
O, fuor di metafora, lo scontro uomo contro uomo – o esercito contro esercito, o aeroplano contro aeroplano – era solo l'epifenomeno di forze immani e perlopiù sconosciute, che muovevano i soldati come un burattinaio avrebbe fatto con le marionette.
Von Clausewitz, puro e semplice. E dire che l'aveva anche studiato in accademia. Il soldato esiste, si nutre e marcia unicamente per combattere al posto giusto nel momento giusto. O anche, cosa che si attagliava senza dubbio al modo di agire dell'agente segreto: la guerra è un atto di forza, e non c'è nessun limite all'uso di essa; l'una parte impone la propria legge all'altra.

L'autocarro sobbalzò, obbligandolo ad afferrare una centinatura per mantenersi in equilibrio. Ripensò alla disordinata fuga a bordo dell'ambulanza inglese e quasi si trovò ad attendere l'ormai familiare stretta sul braccio che l’uomo gli elargiva nei momenti di tensione.
Emise un sospiro.
Era sicuro che fosse stato lui a intervenire in suo favore, essenzialmente perché era l'unico che sapeva com'erano andate le cose. Come avrebbero potuto, infatti, la giovane donna o l’uomo che aveva incontrato a Berna, venire a conoscenza di quello che era successo? Ad altri ufficiali non aveva detto nulla, quindi anche se essi fossero stati a loro volta in contatto con i servizi segreti, non avrebbero potuto riferire alcunché della missione.
Era stato lui per forza.
Sulle prime gli era parso impossibile che un uomo così prosaico e freddo spendesse tempo ed energia per lui: lo strumento non più utile veniva abbandonato, senza rimpianti e senza sentimentalismi, questa era la filosofia che credeva di aver colto negli agenti segreti fino a quel momento incontrati.
Poi aveva capito che quell’uomo – il Werwolf – era tutt’altro che prosaico e freddo. Gliel’aveva dimostrato in tante occasioni, in realtà. L’aveva salvato quando avrebbe potuto lasciarlo indietro, si era preoccupato per lui, l’aveva difeso. Gli pareva che in alcune occasioni gli avesse addirittura dimostrato una tenerezza ruvida, che scaldava e rinfrancava come un sorso di vino forte.

Il paesaggio cominciò a diventargli familiare. Riconobbe una piccola macchia di alberi che la guerra aveva lasciato indenne e il laghetto dove alla fine delle giornate di volo andava a pescare o a nuotare con i camerati. Intravide in lontananza la sagoma chiara di una dimora patrizia abbandonata, danneggiata qua e là da colpi di obice, con gli stucchi ornamentali ormai anneriti e le finestre ridotte a buchi informi.
Ricordò che una volta si era addentrato in quel vecchio palazzo. Gli arredi erano stati perlopiù asportati, dalle pareti pendevano lunghi brandelli di tappezzeria. Nelle grandi stanze vuote i passi risuonavano come in un mausoleo.
Al centro di quello che doveva essere stato il salone delle feste, si era imbattuto in un pianoforte a coda. Non era stato toccato, forse perché tra tutti coloro che avevano depredato la villa, nessuno avrebbe saputo cosa farsene. Fatto sta che era là, proprio sotto una catena che una volta doveva aver sorretto un grande lampadario di cristallo.
Un po' di foglie secche, retaggio dell'autunno precedente, rotolavano frusciando sugli intarsi a palladiana, spinte da refoli di vento. Una tenda strappata ondeggiava lieve.
Affascinato da quell'insolita scenografia, si era avvicinato allo strumento. Era un gran coda da concerto, un Bösendorfer. Per quanto il pianoforte avesse sempre rappresentato per lui un fastidio che lo distoglieva dalle ben più gratificanti attività marziali, aveva provato una sensazione quasi di imbarazzo al pensiero di un oggetto di tale pregio lasciato ad ammuffire in quel modo.
Si era seduto sullo sgabello e aveva sollevato il coperchio della tastiera, mettendo a nudo il familiare alternarsi di avorio bianco e nero.
Ispirato dall'aura di lenta decadenza del luogo, aveva eseguito la sonata 'Quasi una fantasia'. Per la prima volta in vita sua, si era talmente concentrato sulla musica che solo alla fine del primo movimento si era reso conto che intorno a lui, a rispettosa distanza, si era radunato un cerchio di camerati della Jasta, soldati di fanteria e civili francesi che lo ascoltavano in un silenzio religioso.

Aprì e chiuse nuovamente le mani, strinse i pugni fin quasi a far scrocchiare le giunture. L'autocarro aveva imboccato la strada che conduceva dritto al campo, ormai erano arrivati. Sorrise fra sé e sé al pensiero di rivedere volti conosciuti e si guardò intorno alla ricerca dei suoi pochi effetti personali. Si augurò che le sue cose fossero ancora dove le aveva lasciate, nella camera al secondo piano della villa padronale che fungeva da alloggio per i piloti.
Nel posto dove l'avevano trattenuto – una via di mezzo tra una prigione e un ospedale – gli avevano dato un'uniforme tedesca senza gradi o mostrine, giusto per non lasciarlo con i panni inglesi addosso, ma aveva nostalgia della sua Ulanka[1].
Il camion rallentò fino a fermarsi. Da fuori provenne una voce che gli suscitò un empito di gioia: “È l'ora di arrivare? Sono tre giorni che aspetto i miei ricambi!”
Il tenente saltò giù dalla sponda del veicolo ed esclamò: “Kramer!”
Il robusto capo-meccanico strizzò gli occhi cercando di capire chi fosse.
Kramer, sono io!” ripeté von Knobelsdorff. “Non si ricorda più di me?”
Il sottufficiale si tolse il Krätzschen[2] e si grattò la testa perplesso, poi, quando il giovane ufficiale gli si fu avvicinato, perplesso disse: “Signor tenente?” Tacque per qualche secondo, squadrandolo da capo a piedi, poi contrito proseguì: “Scusi i miei occhi signore, da lontano ormai ci vedo male. Cosa ci fa vestito in quel modo, signore?”
È una storia un po' lunga,” rispose von Knobelsdorff, il cui entusiasmo cresceva di attimo in attimo. “È arrivato il nuovo aereo per me?” Sogguardò alle spalle del meccanico, cercando di scrutare l'interno dell'hangar.
L'altro si grattò di nuovo la testa. “Ecco...”
Il tenente lo fissò attento. “Sì?”
Il maggiore von Stade non è più con noi. Lo sa, questo, signore?”
Me l'hanno detto.”
Kramer lo fissò di nuovo. Era evidente dalla sua espressione che stava cercando di comporre i pezzi di un rompicapo piuttosto complicato.
Ho perso la mia uniforme,” gli venne in aiuto il tenente.
Oh, già. Certo,” assentì l'altro. “Comunque, l'abito non fa il monaco. Non è così che si dice, signore?”
Sì, direi di sì. Ma stavamo parlando degli aerei...” Di nuovo von Knobelsdorff allungò il collo per cogliere uno scorcio dell'hangar.
L'altro si strinse nelle spalle e per tutta risposta chiese: “Ora dovrà andare a parlare con il nuovo comandante, non è così?”
Certo, per l'assegnazione e tutto quanto.” Poi, dopo una pausa: “Perché?”
Beh...”
Il tenente aggrottò le sopracciglia, lo strano atteggiamento del capo-meccanico, così diverso dalla solita cordiale pacatezza, lo rendeva decisamente sospettoso. “Vado subito a parlare col Vecchio,” annunciò.
Fece per dirigersi verso l'edificio del comando, ma l'altro lo prevenne: “Aspetti, signore.”
Che c'è?”
Il signor capitano è in volo.”
Von Knobelsdorff lo fissò interdetto. Anche il maggiore von Stade volava, ovviamente, ma a quell'ora di solito era nel suo ufficio a sistemare la burocrazia.
Stava per aprire bocca quando qualcuno da lontano esclamò: “Max? Sei proprio tu, Max?”
Egli si girò in quella direzione mentre un sorriso gli si allargava sul volto: avrebbe riconosciuto quella voce fra mille. “Herbert!” esclamò.
Max!”
Il tenente Hoffmeyer lo raggiunse. Aveva un braccio al collo e una medicazione sulla fronte. “Maximilian!” ripeté. Si fermò di fronte a lui e gli appoggiò la mano sana sulla spalla. “Dov’eri finito?” gli chiese.
Uhm… niente di speciale,” rispose von Knobelsdorff. Si prese qualche secondo per elaborare una scusa credibile, quindi proseguì: “Facevo… ho fatto l’istruttore.”
L’altro lo fissò perplesso. “L’istruttore?” ripeté poco convinto.
Per la figlia di un generale che vuole diventare aviatrice. Ma non dirlo a nessuno, eh.”
Oh, ma certo.” Hoffmeyer alzò le sopracciglia con l’aria di chi ha capito tutto. “Le hai lasciato la tua uniforme per ricordo?”
Von Knobelsdorff avvampò. “Herbert!”
Sì sì, Herbert,” sghignazzò il collega. “Sai le risate che si farebbe Behringer, se fosse ancora con noi?”
Un’ombra passò sul viso dell’altro. “Non c’è più?”
Hoffmeyer alzò le spalle. “Caduto poco dopo von Stade.” Sospirò, poi soggiunse: “Un gran peccato, con le sue battute avrebbe reso più facile sopportare il nuovo comandante.”
Ogni Vecchio ha le sue manie.”
Dici così perché non hai ancora conosciuto il capitano Walther Kunz.”
Von Knobelsdorff non rispose. Bastava che quel Kunz lo facesse volare, poi poteva essere anche un ottentotto con l’anello al naso e non gliene sarebbe importato nulla. “Tu, piuttosto, che cos’hai fatto al braccio?” chiese al collega.
Hoffmeyer emise un teatrale sospiro. “Niente figlie di generali per me.”
Oh, insomma...”
Volevo dire: solo un colpo di striscio.”
E in fronte?”
L’atterraggio. Con il braccio fuori uso ho toccato storto, e il carrello...” Con la mano sana fece un segno di croce a mezz'aria, come a sancire l'ineluttabile fine dell'apparato.
I due si incamminarono verso gli alloggi. Von Knobelsdorff si guardava intorno: qualcosa di ineffabile gli stava comunicando una sgradevole sensazione di estraneità. A una prima occhiata era tutto a posto, gli hangar erano ordinati e puliti, l'erba della pista era rasata, gli avieri se ne andavano attorno indaffarati. La manica a vento ondeggiava lenta, di fronte alla baracca bianca e rossa i segnalatori prendevano il sole in attesa degli aerei in rientro dalla missione.
Però era come se ci fosse più silenzio, come se nell'aria aleggiasse una generica idea di cautela, di serietà grave.
O forse il cambiamento era suo. Non era obiettivamente la stessa persona, dopo tutto quello che era successo, e quasi si rammaricò di aver perso quella che d'acchito gli parve come una specie di spensieratezza, come un'innocenza che forse gli nascondeva certi aspetti delle cose, ma di sicuro gliele faceva vivere con più leggerezza.
Fino a poche settimane prima, volare era stato solo uno sport pericoloso ma appassionante. C'erano il suo aereo, un bravo meccanico che glielo sistemava e dei camerati con i quali festeggiare le vittorie, oppure onorare i caduti. Nient'altro gli interessava.
Ora, per quanto si sforzasse, non riusciva più a recuperare quella serenità noncurante. Anelava sempre al volo e al combattimento, ma la lanterna magica non era più magica, per così dire.
Mostrava immagini affascinanti, ma sottese da precise leggi fisiche.
La voce di Hoffmeyer lo richiamò alla realtà: “Max?”
Egli quasi trasalì. “Che c’è?”
Stavo dicendo che ormai dovrebbero rientrare.”
Chi è rimasto dei vecchi?” chiese von Knobelsdorff, e si rese conto che stava chiamando ‘vecchi’ gente che aveva visto per l’ultima volta poco più di venti giorni prima.
Il collega alzò le spalle. “Quasi tutti, in realtà. Marquardt, per esempio. Poi ci sono anche Eschmann e Keinhofer. Lohmann è in licenza.” Sollevò le sopracciglia con aria significativa.
Von Knobelsdorff si fece di colpo attento. “Otto vittorie?” chiese.
Otto vittorie,” confermò Hoffmeyer. “Il caro Bernd è diventato un asso.”
Spero che si ricorderà di portare qualcosa con cui brindare, quando si degnerà di ridiscendere fra noi mortali.”
Figurati se Lohmann si dimentica di portare da bere.”
Hoffmeyer stava per aggiungere altro quando nell'aria cominciò a farsi udire un lieve ma ben noto ronzio.
Entrambi si girarono verso la testata pista: all'orizzonte era comparso un nugolo di puntini scuri.
Stanno rientrando,” disse von Knobelsdorff.
L'altro scrutò per qualche secondo, poi rispose: “Già. Mi sembra che ci siano tutti.” Tacque per qualche secondo, senza distogliere lo sguardo dai puntini, che cominciavano a delinearsi come aeroplani. A un certo punto, come se d'improvviso di fosse ricordato di una cosa importantissima, disse: “E tu vatti a mettere un'uniforme decente. Non vorrai presentarti al comandante conciato così, spero.”

§

Gli aerei atterrarono uno dopo l'altro. Von Knobelsdorff, di nuovo con la sua divisa da tenente degli ulani, li osservava toccare terra e rullare sulla pista.
Riconobbe subito quello di Marquardt e quello di Keinhofer, inconfondibili per le vistose personalizzazioni. Gli parve di individuare anche quello di Eschmann, che su ogni aereo che gli veniva assegnato faceva scrivere le iniziali della fidanzata.
Poi ne vide uno che a malapena aveva i simboli di nazionalità e una mimetizzazione standard, ancora meno caratterizzato di quello che era appartenuto a von Wasserberg.
Aggrottò le sopracciglia perplesso. Dipingere scritte o immagini sugli aerei era un'abitudine consolidata. Un apparecchio così ostentatamente privo di personalizzazioni gli comunicava una sgradevole sensazione di estraneità e disagio.
L'aereo rullò fin davanti all'hangar, il motore si spense e l'elica si fermò.
Von Knobelsdorff mise le braccia dietro la schiena come faceva sempre quando contemplava qualcosa che per qualche aspetto sfuggiva alla sua comprensione.
Hoffmeyer, comparso al suo fianco, disse: “Quello è il capitano Kunz.”
Dall'aereo stava scendendo un uomo di altezza media. I pesanti indumenti in cui era infagottato non consentivano di distinguere altro della sua figura. Si tolse la cuffia da pilota rivelando una capigliatura castana.
Vado a presentarmi,” annunciò von Knobelsdorff, e senza aspettare la risposta del collega partì a grandi passi verso il nuovo arrivato.
Deciso a fare bella impressione, scattò sull'attenti di fronte all'uomo, eseguì un saluto da manuale e a voce alta e chiara scandì: “Tenente Maximilian von Knobelsdorff a rapporto, signore!”
L'altro rispose al saluto senza tradire alcuna emozione. Lo squadrò dal basso in alto e alla fine freddamente proferì: “Ho letto le sue note caratteristiche.”
Indeciso su cosa replicare, il tenente rimase in silenzio.
Mi segua,” ordinò allora l'altro. Prese a camminare a passo veloce verso l'edificio del comando. “So che era in missione riservata e non mi interessano i particolari,” diceva frattanto, “mi preme molto di più che lei recepisca il nuovo spirito di questa Jasta.”
Sarebbe a dire, signore?”
Senza voltarsi, l'altro spiegò: “Non mi interessano i galletti con le belle uniformi, non mi interessano le patacche blu da portare al collo. Qui si combatte.”
Il tenente abbassò gli occhi sui propri panni, stupito da quella che gli pareva una durezza del tutto immotivata. Alla fine rialzò lo sguardo e rispose: “Non ho mai pensato di fare voli da diporto, signore. Abbattere il nemico è ciò che mi prefiggo ogni volta che mi alzo da terra.”
Oh, li conosco, quelli come lei. Gente che a momenti fa montare un pallottoliere sull'aereo, per controllare costantemente quanto manca all'agognato Pour le Mérite.” Tacque per qualche secondo, poi sprezzante soggiunse: “Non vi interessa altro.”
Perplesso, von Knobelsdorff optò di nuovo per un cauto silenzio.
Nel frattempo avevano raggiunto la costruzione.
Mi segua,” ripeté Kunz. Si diresse verso l'ufficio che era aveva occupato anche von Stade. Il tenente notò che dalle pareti erano spariti tutti i quadri a parte il ritratto dell'Imperatore, ed era rimasta solo la sedia dietro la scrivania. Un eventuale interlocutore del capitano avrebbe dovuto stare in piedi.
Il comandante appese gli abiti di volo a un attaccapanni che si trovava in un angolo, rivelando un'uniforme della fanteria. Aveva un distintivo di ferita di prima classe, la croce di ferro di prima e seconda classe e il distintivo da assaltatore.
Andò a sedersi alla scrivania.
Von Knobelsdorff si mise di nuovo sull'attenti, mantenendo lo sguardo fisso verso un punto indefinito dietro le sue spalle.
Kunz disse: “Siamo in guerra, non a un torneo sportivo. Non mi interessano le classifiche dei cosiddetti assi, mi interessa che la mia Jasta infligga danni al nemico.”
Von Knobelsdorff, che superato il primo momento di stupore stava cominciando a indispettirsi, con voce tagliente replicò: “Ritengo che le due cose coincidano, signore: gli assi sono i piloti che hanno abbattuto più aerei nemici.”
Ma certo, e siccome conta il numero e non il tipo, i furbastri si vanno a cercare i postali, gli osservatori e tutti quelli che si possono abbattere con poco sforzo.”
Il tenente strinse le labbra, a quel punto assolutamente indignato. “Questo non è vero,” replicò poi tagliente. “A nessuno interessa una decorazione guadagnata abbattendo avversari di scarso valore.”
Kunz lo fissò serio, senza preoccuparsi di nascondere la sua disapprovazione. Infine disse: “La veda come vuole, tenente, basta che obbedisca ai miei ordini. Lei non è un cavaliere della tavola rotonda, ma un ufficiale impegnato nello sforzo bellico. Si regoli di conseguenza.”
Potrebbe essere più chiaro, signore?”
Non mi interessano gli abbattimenti confermati, mi interessa che il nemico finisca a terra e non si muova più. Se non ci sono testimoni fa lo stesso, si accontenterà dell'intima soddisfazione di aver reso un servizio alla Patria. E ora, si ritenga congedato.”

Von Knobelsdorff uscì dal colloquio piuttosto perplesso. Avrebbe voluto chiedere al Vecchio se era arrivato un nuovo aereo per lui e se poteva riprendere i voli di guerra, ma si era trovato in corridoio prima ancora di poter elaborare una sola delle domande che si era preparato.
Uscì dall'edificio del comando per dirigersi verso gli hangar. Quando fu all'esterno, Hoffmeyer lo raggiunse e gli chiese: “Ora che non ci sono orecchie indiscrete in giro, che ne pensi di Kunz?”
La replica gli uscì dal cuore: “È matto?”
L'altro alzò le spalle. “Pensa di essere l'unico che vola per abbattere gli inglesi.”
Perché noi invece cosa facciamo? Raccogliamo fiori di campo?”
Secondo lui ci interessa solo ottenere il Pour le Mérite.”
Come aveva già fatto notare al capitano, von Knobelsdorff disse: “Le due cose sono correlate. Il Pour le Mérite viene conferito all'abbattimento di otto aerei nemici.”
Hoffmeyer scosse la testa come di fronte all'ineluttabile, quindi rispose: “Bah, che vuoi farci. Certa gente dovrebbe restarsene in trincea.”
Non ha la nostra mentalità.”
No davvero.”
Proseguirono fianco a fianco. Von Knobelsdorff ripensò a una frase dell'agente segreto: La mia priorità è portare a termine la missione che mi è stata affidata. Se per raggiungere l'obiettivo devo uccidere, rubare, farmi passare per un pederasta o qualsiasi altra cosa, io lo faccio, è chiaro?
Considerò che probabilmente lui e Kunz si sarebbero trovati d'accordo su tante cose.
Si chiese dove fosse, e di nuovo involontariamente sogguardò i dintorni, come aspettandosi di vederlo spuntare da qualche parte.
Rievocò la sua stretta sul braccio, il suo modo secco, sbrigativo di intimargli il silenzio, e si trovò con stupore a sorridere fra sé e sé.
La voce di Hoffmeyer lo fece quasi sussultare: “Pensi alla tua bella aviatrice?”
Basta con quest'aviatrice!”
Avevi una faccia...”

§

Von Knobelsdorff riaprì gli occhi. Guardò fuori dalla finestra e si accorse che il cielo aveva già i colori del crepuscolo.
Si mise seduto. Gli era bastato stendersi sul suo letto – mi riposo giusto dieci minuti – per cadere in un sonno profondo. Non era nemmeno sceso per il pranzo e i colleghi, evidentemente, non avevano mandato l'ordinanza a chiamarlo. Forse avevano pensato che avesse più bisogno di dormire che di mangiare.
Si chiese come fossero i pasti, con quella specie di Cerbero a capotavola. Probabilmente qualcosa di simile a un refettorio di trappisti, silenzioso e cupo.
Facce chine sui piatti, qualche acciottolio di stoviglie. Il frusciare furtivo di un tovagliolo.
Si alzò, fece qualche passo nella stanza che gli era stata assegnata. La sua roba era ancora tutta lì, nessuno aveva toccato nulla. C'erano persino i suoi libri allineati su una piccola mensola.
Scese nella sala comune. Marquardt stava leggendo un giornale. Vicino alla finestra c'erano Eschmann e uno che non conosceva impegnati nella rievocazione di un combattimento aereo. Tenendo le dita unite e le mani estese a simulare gli aerei, il primo si sbracciava per mostrare all'altro i momenti salienti del duello.
Altri due stavano giocando a scacchi.
Di nuovo lo pervase una sensazione d'incertezza. Da una parte era tutto come prima, dall'altra non lo era più, e non capiva se la questione fosse legata all'impronta che il nuovo comandante aveva dato alla Jasta o a quella che l'agente segreto e la missione dietro le linee avevano dato a lui.
Forse le due cose, stabilì.
Andò al biliardo, prese una stecca dalla rastrelliera e fece qualche tiro svogliato. Per un po' seguì le biglie che rotolavano qua e là, poi la voce di Hoffmeyer attirò la sua attenzione: “Pensi a lei?”
Von Knobelsdorff sentì le guance andargli a fuoco. “Ti avevo chiesto di non parlarne,” sibilò.
Il collega alzò le spalle. “Nessuno ci sta ascoltando.”
Comunque evita l'argomento, per favore.”
Hoffmeyer assunse un'espressione innocente. “Perché?”
Non vorrei che gli altri sentissero.”
Perché?”
Herbert...”
L'altro emise un teatrale sospiro. “E va bene, quanto la fai lunga. Andiamo fuori a fare un giretto?”
Ma io...”
Dai, usciamo. Una boccata d’aria ti farà bene.”

La pista era sgombra, attraversata da lievi refoli di vento. Nel silenzio della sera, si udivano da lontano il cicaleccio dei meccanici e il battere ritmico di un martello. Echeggiò una risata, seguita da un paio di frasi dal tono allegro.
Qualcuno fischiettava da qualche parte, nel fondo dell’hangar.
I due camminarono per un po’ fianco a fianco, poi d’un tratto Hoffmeyer chiese: “Pensi a lei?”
Von Knobelsdorff quasi sobbalzò. “No davvero,” disse in tono tagliente.
Non ci sarebbe niente di male.”
Non sto pensando proprio a nessuno, va bene?”
L’altro non replicò. Dopo un po’ von Knobelsdorff, anche per stornare il discorso dalla cosiddetta ragazza, chiese: “Dici che il Vecchio domani mi farà volare?”
Mi stupirebbe il contrario,” rispose Hoffmeyer, poi, imitando il tono severo di Kunz, aggiunse: “Crede forse di essere qui per fare una vacanza, tenente? Crede che ci siano figlie di generali a cui insegnare i rudimenti del volo?”
Ti ho detto basta!” esplose von Knobelsdorff.
Il collega si fermò, costringendolo a imitarlo. A quel punto gli chiese: “Dì un po’, che ti prende?”
L’altro scosse la testa. “Scusami.”
Sei sicuro di stare bene?”
Sì, perché?”
Hoffmeyer alzò le spalle. “Non lo so, sei strano.”
Sono come al solito.”
Continuarono a camminare in silenzio. Nella luce che andava scemando, la baracca dei segnalatori era una sagoma scura, in cui si intravedevano come aloni indistinti gli scacchi bianchi e rossi. La brezza era caduta e la manica a vento pendeva immobile.
Da qualche parte, un usignolo cominciò a gorgheggiare.
A quel punto, Hoffmeyer chiese: “Lei com’è?”
Von Knobelsdorff alzò gli occhi al cielo, maledicendo il momento in cui si era inventato la figlia del generale che voleva diventare aviatrice. Emise un sospiro sconsolato e disse: “Se te la descrivo, poi tu la smetti di tirare fuori l’argomento?”
E va bene.”
D'accordo, prima iniziamo e prima finiamo. È un po’ più alta di me.”
Ah, però. È una vera valchiria, ecco perché vuole imparare a volare. Ed è formosa?”
Si prese qualche secondo prima di rispondere. “No, non direi proprio,” proferì alla fine.
È un uomo, per caso?”
Von Knobelsdorff scattò come se l’avesse punto una vespa. “No davvero! Come ti viene in mente una cosa del genere?”
Mah… è più alta di te, non è formosa...”
È bionda, va bene? Biondo dorato, come il grano. E gli occhi sono grigi, ma quando ride si accendono di sfumature azzurre.”
Oh… si accendono di sfumature azzurre?”
Certo, che c’è di strano?”
C’è che sei innamorato cotto della tua bella valchiria, amico mio!”






[1] La giubba dell'uniforme da ulano.
[2] Colloquialmente, berretto di truppa e sottufficiali.

   
 
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