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Autore: Mannu    14/05/2021    0 recensioni
Ci sono lavori che nessuno sogna di fare. Come trattare la spazzatura, per esempio. Eppure è un lavoro utile, necessario. Certi tipi di rifiuti poi, hanno bisogno di... attenzioni speciali. Bisogna fare ciò che serve, e spesso nessuno vuole farlo. Nessuno, tranne...
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Nico'
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Un lavoro come un altro
Una volta scesa dal Tubo si mischiò alla folla in uscita dalla sottostazione, ma non si diresse verso gli ascensori. Attraversò l'atrio inferiore dell'edificio e imboccò una uscita di servizio su cui spiccava il divieto di accesso per il personale non autorizzato: la blanda sorveglianza lo consentiva. Percorse un buon tratto del largo corridoio che aveva di fronte fino a raggiungere una porta aperta: gli spogliatoi del personale addetto alla manutenzione. Aveva controllato in precedenza: in quel posto il viavai era continuo. Aprì un armadietto, non scelto a caso. Poté recuperare gli abiti che vi aveva messo in precedenza. Petra cessò definitivamente di esistere: dallo spogliatoio uscì, non notato da alcuno, un tecnico ascensorista come mille altri. Una donna dai capelli a caschetto castano chiaro nascosti da un berretto grigio piombo col bordo rosso e il logo aziendale, con la divisa da lavoro del medesimo grigio piombo, scarpe pesanti sporche e usurate, uno zaino anonimo sulle spalle.
Badando a sostare il meno possibile entro i campi visivi delle telecamere, di cui aveva memorizzato la posizione, salì sugli ascensori di servizio fino a raggiungere la sommità dell'edificio, aprendo ogni varco elettronico col badge aziendale. Non incontrò colleghi ascensoristi ed ebbe solo brevi conversazioni di circostanza con due donne del personale delle pulizie.
Ogni angolo libero del tetto era utilizzato per installare apparecchiature di comunicazione, componenti dell'impianto di ricircolo e condizionamento dell'aria, motori di ascensori e molto altro. Un intricato, angoloso labirinto di metallo, plastica e imballi abbandonati. La vertiginosa vista del pozzo gravitazionale, quel giorno sfumato da una nebbia grigia, era gravemente limitata dalla folla di apparati, antenne, tubature, strutture di sostegno.
Il pozzo gravitazionale: il nucleo della stazione, lasciato vuoto. Per fornire un panorama mozzafiato ai pochi danarosi eletti che potevano permettersi un attico? O solo uno spazio forzatamente vuoto, lì per il semplice fatto che la stazione era cilindrica? Di certo offriva una vista che non lasciava indifferenti. Una gigantesca città cresciuta, strato su strato, lungo le pareti interne di un tubo. Ma lei non era lì per turismo. Si diresse decisa verso quello che sembrava un grosso container e vi entrò sbloccando la porta con la chiave elettronica contraffatta. Era il locale dei motori idraulici di uno degli ascensori secondari, simile a quelli che aveva usato per salire lungo i novanta piani dell'edificio. Fece scattare un interruttore, illuminando il locale con la fredda luce azzurrognola dei neon installati lungo gli spigoli delle pareti. I motori acquattati al centro del locale esprimevano la loro potenza ringhiando continuamente, protetti da una gabbia di rete metallica. Posò lo zaino in un angolo buio e si diresse decisa verso un armadietto a parete. Lo aprì con la medesima chiave e con mani esperte montò rapidamente un fucile di precisione, prelevando i pezzi da due cassette colme di attrezzi da lavoro, dove lei li aveva lasciati poco tempo prima. Con l'arma a tracolla si arrampicò sulla rete metallica, raggiungendo la sommità a forza di braccia. Storse la bocca in una smorfia: dai motori sotto di lei saliva una corrente di aria calda e puzzolente, e il poco spazio tra la sommità della gabbia e il soffitto del locale la costringeva a stare carponi. Non senza fatica rimosse la grata di ventilazione attraverso cui i motori scaricavano il loro calore nell'ambiente esterno. Sporse la testa. Via libera.
Strisciò sul ventre fin quasi al bordo, nella posizione che aveva verificato in precedenza essere la migliore. Poteva vedere l'edificio: una enorme, futuristica scheggia mozzata nel curvo panorama frattale del pozzo gravitazionale. Imbracciò il fucile e aprì il bipiede per stabilizzare la mira. Col potente mirino cercò i riferimenti che aveva memorizzato e trovò la finestra che le serviva. Il telemetro della sua arma segnalava una distanza di trecentotrentasette metri. Un tiro difficile, ma non impossibile.
Appoggiò il fucile di precisione e scoprì il braccio sinistro, dove portava il bracciale olografico di Petra. Aveva lavorato due giorni nei suoi panni, più che sufficienti a impadronirsi di quella piccola vita. Penetrata nella rete informatica dell'azienda molto tempo prima, aveva avuto modo di ascoltare, imparare e preparare la trappola con cura. Facendosi scudo con l'attività dell'inconsapevole Petra, aveva introdotto un virus che, prontamente annidatosi nella centrale telefonica, aveva pazientemente sorvegliato Kesher Bran e registrato le sue chiamate. Ritorcendo la potenza di calcolo dei server infetti contro il loro stesso proprietario, quel virus era ora in grado di usare le registrazioni delle telefonate dell'amante del Direttore per simulare a comando una conversazione telefonica credibile. Sapeva di poter contare su quella donna che, altezzosa, dispotica e capricciosa, non era solita perdersi in chiacchiere coi sottoposti. Nemmeno l'assistente di Kesher Bran gradiva intrattenersi con quell'arpia più del minimo indispensabile: non avrebbe osato contraddirla.
Inviò il segnale al virus in ascolto: un pacchetto dati camuffato in modo da sembrare innocuo. Al centro della trappola, attese Kesher Bran, certa che il suo assistente non avrebbe esitato a interromperlo qualunque cosa stesse facendo. La vittima a lungo studiata non si sarebbe fatta alcuno scrupolo pur di trascorrere del tempo al telefono con la sensuale amante.
Lo attese al centro del mirino elettronico, in grado di superare la polarizzazione dell'ampia finestra indifesa e di correggere l’errore di traiettoria dovuto alla rotazione della stazione sul proprio asse.
È sempre un errore sentirsi intoccabili, pensò un attimo prima di tirare il grilletto. Il proiettile corazzato volò via preciso e mortale, prolungamento invisibile della volontà di lei che lo aveva preparato dopo aver scelto con cura l'arma. Avrebbe voluto evitare di vedere la testa dell'uomo esplodere: non amava compiacersi della parte più cruenta del proprio lavoro, ma il mirino era luminoso e catturava molti dettagli. Dopotutto per lei era solo lavoro.
Scese dal tetto del locale motori e smontò l'arma. Scottava ormai, se ne sarebbe presto liberata. La infilò nello zaino insieme agli abiti di Petra, insieme alla parrucca scura e anche a quella castana. Si spogliò degli abiti grigi dell'ascensorista, pensando a come sarebbe stato lavorare con le macchine anziché con gli uomini. Vita facile, ipotizzò: si verifica un guasto, si va a ripararlo. Io e la macchina, e nessun altro. Niente riunioni, niente collaborazioni, niente colleghi che ti invitano a pranzo o a bere il caffè.
Terminò di rivestirsi in modo sciatto e banale con gli abiti che aveva preparato nello zaino. Raccolti i suoi capelli rossi in una coda spettinata lunga fino alle spalle, con l'aiuto di uno specchietto per il trucco tolse dal viso, dal collo e dal petto tutto il fondotinta che le alterava il colore della pelle, riportandone alla luce il naturale pallore e le numerose lentiggini chiare. Dallo zaino estrasse uno strumento identico a quello utilizzato dalla polizia per la ricerca di materiale genetico sui luoghi del delitto e dette una ripulita, cancellando le tracce del suo passaggio. Aveva tutto il tempo di farlo, in sicurezza, impunemente.
Infine si mise a tracolla lo zaino, ora davvero pesante, e si avventurò nel dedalo di macchinari e impianti che affollavano lo smisurato tetto dell'edificio, badando bene a non ripercorrere la medesima strada fatta all'andata. Il percorso era studiato per essere al riparo addirittura da un ipotetico osservatore che, dotato di un binocolo, cercasse di localizzare il cecchino guardando attraverso la finestra della vittima.
Trovò le scale di emergenza, riuscì facilmente a neutralizzare il sistema anti-intrusione: l’aveva violato il giorno prima. Percorse dieci piani in discesa senza che i sensori appositi registrassero la sua presenza. Raggiunse quindi una uscita d'emergenza e la attraversò in senso opposto. Un gioco da ragazzi, poiché aveva scoperto facilmente che i dipendenti del bar di lusso che si trovava a quel piano usavano quell'uscita per andare a farsi di roba sulle scale, lontano dagli occhi dei clienti e del titolare. Per aver vita più facile avevano manomesso loro stessi il sensore di apertura della porta e sabotato la serratura. Potevano aprirla con uno strattone quando rimanevano accidentalmente chiusi fuori, sulle scale.
Aperto e richiuso il varco di sicurezza senza fare rumore, si infilò svelta nel vicino bagno delle donne e qui si cambiò d'abito per l'ultima volta. Non era riuscita a procurarsi una vera divisa da inserviente, ma usando il berretto grigio da ascensorista, opportunamente privato del logo distintivo, della camicia bianca di Petra e dei pantaloni da lavoro, ottenne un buon grado di somiglianza. L'ora di pranzo era lontana, ma nella cucina ferveva l'attività di preparazione delle colazioni di lavoro, e c'era un discreto viavai nonostante la scarsa clientela. Si dedicò alla raccolta dei rifiuti: si calò meglio il cappello e si affrettò ad afferrare un carrello di scarti della cucina mezzo pieno. Infilato lì dentro lo zaino, non vista terminò di riempirlo di immondizia celando il vero contenuto. Un lavoro umile, si disse: raccolgo l'immondizia, la smaltisco... rendo un servizio alla comunità. La quale mi ripaga con gratitudine eterna, e scansandomi come un'appestata. Nessuno si mise sulla sua strada mentre si dirigeva di buon passo verso l'uscita di servizio, il cappello in testa con la visiera calata sugli occhi. Il carrello era pesante e le impediva di procedere agevolmente, ma non ci fu bisogno di sveltire il passo. Trovò il montacarichi esattamente dov'era indicato nella pianta dell'edificio, che aveva ben impressa in mente, e scese fino al livello della manutenzione. Qui si sfilò il berretto, si sciolse i capelli e li arruffò; recuperato dal carrello dei rifiuti lo zaino, che ormai celava solo il fucile, se ne andò. Ma non prima di aver correttamente smaltito la spazzatura, e con essa i suoi travestimenti.
Consulente informatica, ascensorista, killer e spazzina. Tutto in poche ore. Forse sì, pensò mentre si avviava verso un nastro pedonale affollato. Forse il mio vero mestiere è proprio questo: sono una spazzina. Elimino i rifiuti, facendo ciò che serve ma che nessun altro vuole fare.
Un lavoro come un altro.
   
 
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