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Autore: Melabanana_    15/05/2021    1 recensioni
A un certo punto della storia che conosciamo, in tutto il globo terrestre hanno cominciato a nascere bambini con poteri sovrannaturali, dando inizio alla generazione dei "portatori di doni". Assoldati dalle "Inazuma Agency" come agenti speciali, Midorikawa e i suoi coetanei dovranno lottare contro persone disposte a tutto pur di conservare e accrescere il proprio potere. Ma possono dei ragazzini salvare il mondo?
Avvertimenti: POV in 1a persona, AU, forse OOC, presenza di OC (secondari).
Questa storia è a rating arancione per via delle tematiche trattate (violenza di vario grado, morte, trauma, occasionale turpiloquio). Ho cercato di includere questi temi con la massima sensibilità, ma vi prego comunque di avvicinarvi alla materia trattata con prudenza e delicatezza. -Roby
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Crack Pairing | Personaggi: Jordan/Ryuuji, Xavier/Hiroto
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Spy Eleven -Inazuma Agency '
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Volevo solo che sapeste che scrivendo questo capitolo ho pianto come una fontana.
Ringrazio la mia Ohana per avermi fatto da beta ♥



 
 
La nostra casa non era molto grande, specialmente se confrontata con l'edificio dell'agency, dove avevo vissuto nell'ultimo anno. Dalla porta si entrava direttamente nell’ingresso, dove Mamma ci faceva lasciare le scarpe e le giacche, e dall’ingresso si arrivava direttamente nel soggiorno-cucina. Lo chiamavamo così perché da un lato c’era l’angolo TV e dall’altro, alle spalle del divano, c’erano il tavolo da pranzo e i banconi della cucina. L’intera cucina era stata parte del corredo di nozze, e Mamma e Papà erano quel tipo di persone che possiedono gli stessi mobili per oltre quarant’anni, riluttanti a rinunciare alla familiarità delle maniglie che ormai sembrano aver preso la forma delle tue mani, e alla comodità di sapere quali mobili puoi tenere aperti nello stesso momento e cosa invece deve essere chiuso per far sì che il delicato gioco di incastri tra due persone impegnate a cucinare nello stesso momento possa funzionare. Quando il loro primo cuociriso di coppia era passato a miglior vita, erano rimasti a lutto per tre giorni prima di decidersi a comprarne uno nuovo. Entrambi amavano cucinare, specialmente insieme: come liquidi, si adattavano a qualunque spazio, invadendo spesso quello dell’altro, ma senza farne una tragedia. Erano sposati da quarantadue anni.
Quando si usciva dalla cucina, ci si trovava davanti a un bivio: a destra il bagno, a sinistra le scale. Al piano di sopra c’erano le due camere da letto, quella di Mamma e Papà e quella di Kazemaru, che ad un certo punto era diventata la camera-di-Ichirouta-e-Ryuuji. Una volta che Hitomiko se ne fu andata, Mamma mi mandò in camera a posare la mia roba, poi mi disse di affrettarmi in bagno. Mi aveva preparato un bagno caldo e un ricambio di vestiti puliti e stirati.
Circondato dal vapore e dall’odore pungente dei sali da bagno, mi immersi nella vasca piena quasi fino all’orlo di acqua calda, proprio come piaceva a me, e cercai di rilassarmi pensando il meno possibile. Dopo qualche momento di relax, però, dubbi e paure che avevo spinto in fondo risalirono a galla sotto forma di domande. Chi sapeva che mi trovavo lì? L’avevano detto a Kazemaru? E soprattutto, quella che più preoccupava: quanto e cosa sapevano Mamma e Papà di quello che era successo? Ci rimuginai a lungo, ma non riuscii a darmi una risposta. Mamma mi aveva accolto con calore, senza tracce di paura; dal suo atteggiamento sereno immaginai che sapesse poco o niente. Papà sarebbe rientrato solo verso sera, e allora avrei potuto vedere come si sarebbe comportato. In ogni caso, sapevo che non avrei avuto il coraggio di chiedere direttamente a loro.
Rimasi a mollo nella vasca finché l’acqua non divenne tiepida e, quando aprii gli occhi e gettai uno sguardo alla finestra, mi resi conto che fuori aveva cominciato a piovigginare. Mi alzai, mi asciugai e presi i vestiti che Mamma mi aveva preparato. Mentre mi infilavo la maglietta, lo sguardo mi cadde sul bracciale che avevo al braccio. Lo osservai per un momento, girando il polso per ammirarne la fattura. Speravo che funzionasse, oltre a essere esteticamente carino.
Dopo essermi vestito, tornai in soggiorno. Mamma era occupata ai fornelli, perciò io mi lasciai cadere sul divano, rannicchiandomi contro un cuscino mentre mi tamponavo i capelli umidi con un asciugamano. Benché fosse di spalle, sicuramente Mamma si era accorta della mia presenza, ma non disse niente. Stava canticchiando una vecchia canzone di Kyu Sakamoto che le piaceva tanto. Se non fosse stato per i suoi capelli, ormai più grigi che azzurri, avrebbe dimostrato molti meno anni di quelli che aveva. Dal fornello veniva un delizioso odore di stufato di crema, con un aroma delicato ma al contempo stimolante, che faceva venire l’acquolina in bocca. Accanto alla pentola sobbolliva un altro pentolino di latte. Lo stufato di crema era uno dei cavalli di battaglia di Mamma, nonché il piatto preferito di Papà: aveva conquistato il suo cuore partendo dal suo stomaco.
Ascoltando Mamma cantare, accompagnata dal tintinnio del mestolo di ferro contro la pentola e dal borbottio dello stufato, riuscii finalmente a rilassarmi davvero e, prima che me ne accorgessi, chiusi gli occhi e mi addormentai così, raggomitolato sul divano con l’asciugamano sulle spalle.
Solo che i miei sogni non furono altrettanto pacifici.
Sognai mia madre e Hiroto nella clinica. Sognai che Kenzaki stava per ucciderli entrambi, ma loro non lo vedevano, non vedevano il pericolo, e per quanto io gridassi la mia voce non riusciva a raggiungerli. Perché ero sott’acqua. Avviluppato dalla corrente, trascinato verso il fondo. Provai a gridare, ma di colpo i miei polmoni si riempirono d’acqua… 
Mi svegliai di soprassalto, spalancando la bocca per prendere aria. Non sapevo per quanto tempo avessi dormicchiato, ma fuori intanto aveva cominciato a piovere con insistenza  e capii che a svegliarmi era stato il rumore secco e forte di un tuono. Mi ci volle qualche momento a capire che non stavo affogando davvero, e a ricordarmi che mia madre e Hiroto erano al sicuro. Non aveva neanche senso, che fossero nella clinica assieme. Apparentemente, però, il mio subconscio aveva deciso di torturarmi.
Mentre riprendevo familiarità con la realtà, mi accorsi che sulle mie gambe era stata poggiata una coperta leggera e che l’asciugamano umido non era più attorno alle mie spalle. Un profumino di miele e spezie mi solleticò il naso e, tirandomi su, notai una tazza di latte fumante poggiata sul tavolino davanti ai miei piedi. Istintivamente mi voltai verso il lato cucina. Mamma aveva finito di cucinare lo stufato, che ora riposava pigramente in pentola sotto il coperchio, e si era seduta al tavolo, impegnata a tagliare delle vecchie maglie di Papà per farci degli stracci per la casa.
Quando sentì che mi stavo muovendo, alzò gli occhi verso di me e gli angoli della sua bocca si sollevarono in un sorriso, formando delle adorabili fossette sulle guance rosate.
-Ryuuji, ti ho preparato un po’ di latte- disse. Non fece commenti sul fatto che mi fossi addormentato, anche se doveva essere stata senz’altro lei a coprirmi.
-Grazie- mormorai, girandomi di nuovo. Mi sporsi in avanti e sollevai la tazza con molta attenzione per non versare il latte che sembrava ancora caldo; me la portai alle labbra e cominciai a sorseggiare piano. Subito il dolce bruciore del miele, seguito dal pizzicore delle spezie, mi fece formicolare la lingua, ma era una sensazione piacevole.
Poi Mamma si alzò dal tavolo e venne a sedersi vicino a me, all’altro capo del divano, ed io sussultai, ma quando notai che aveva lasciato uno spazio, seppur minimo, tra noi mi sentii deluso e vagamente ferito dal dubbio che si stesse tenendo a distanza da me. Ma perché dovrebbe?, mi chiesi subito dopo. Lei non sapeva niente, giusto?
Restammo in silenzio per un po’; lei a tagliuzzare, apparentemente concentrata sulle forbici, e io a bere, con gli occhi fissi nel vuoto mentre cercavo di ignorare l’ululato di quell’aggressiva pioggia estiva.
Mamma fu la prima a mettere giù la sua distrazione. Finito di tagliare una manica in due parti, posò sul tavolino le forbici e il tessuto forato e voltò lo sguardo verso la finestra, mordicchiandosi il labbro pensierosa.
-Questa pioggia proprio non ci voleva. Speriamo che smetta presto, eh?- disse e, quando si girò a guardarmi, sorrideva di nuovo. -Allora, hai messo a posto le tue cose? Se hai qualcosa da lavare o stirare, dammi tutto che ci penso io. Ah, non posso credere di averti finalmente a casa! Sai, è ancora un po’ strano per me vedere un cumulo di panni sempre così piccolo. Quando eravate bambini c’era sempre tanto da fare. Adesso mi sembra di avere un po’ troppo tempo libero.
Abbassai un po’ la tazza e mi schiarii la gola.
-È… è passato tanto tempo da allora- riuscii solo a dire, in modo patetico. Ma lei non mi prese in giro. Invece, sospirò e si portò una mano al volto.
-Ah, hai ragione. Sono passati due anni, eh? Ma non mi abituerò mai a sapervi lontani da casa entrambi… Una mamma mette in conto di doversi separare dai figli solo quando sono già adulti, immagino-. Sorrise e con una mano si scostò una ciocca di capelli dal viso, sistemandoli dietro l’orecchio. 
-È lo stesso per Papà, ovviamente. Purtroppo Hitomiko-san ci ha avvertiti solo ieri, perciò l’ho mandato subito a comprare delle cose… Ma sono certa che si affretterà a tornare a casa, non vede l’ora di passare un po’ di tempo con te.
Annuii distrattamente, ma quando realizzai cosa aveva detto, per poco non feci cadere la tazza.
-Avete… avete parlato con Hitomiko-san…?- chiesi.
Accorgendosi di aver detto qualcosa che non doveva, Mamma ebbe un momento di esitazione, ma era sempre stata una persona schietta, perciò non mi mentì.
-Ci ha chiamati ieri pomeriggio per dirci che saresti rimasto da noi per tre o quattro giorni- rispose. Mentre parlava non distolse mai lo sguardo da me, come se stesse studiando la mia reazione. Non c’erano più dubbi: sapevano già tutto.
Mi mancò il respiro. D’istinto mi ritrassi, rannicchiandomi di più nel mio angolino; mi affrettai a mettere giù la tazza con mani tremanti, e il latte si rovesciò in parte sul tappeto. Mamma scattò subito in avanti, allarmata, ma si bloccò prima di toccarmi.
-Ryuuji…
-Mi dispiace- dissi meccanicamente, interrompendola sul nascere. Abbassai lo sguardo e le parole si rovesciarono dalla mia bocca come un fiume in piena.
-Per colpa mia Kazemaru si è fatto male… Non sono riuscito a proteggerlo, e non ho fatto altro che causare problemi e alla fine non sono riuscito nemmeno a risolvere niente… Io… io ti chiedo scusa. Voi mi avete dato tutto e io… io non sono riuscito a restituirvi niente, ho dato solo problemi. Non so come scusarmi…
Prima che potessi aggiungere altro, Mamma mi tolse la tazza con un gesto deciso, la poggiò sul tavolo e poggiò le sue mani sulle mie.
-No, Ryuuji, no- disse, scuotendo più volte il capo. -Se c’è qualcuno che deve chiedere scusa… quelli siamo noi-. Man mano che parlava il suo volto si rabbuiava sempre di più, e alla fine la voce le tremò un poco.
La guardai confuso, ma quando aprii la bocca per parlare lei scosse di nuovo il capo.
-Lasciami parlare. La verità è che io sono… mortificata. Sono così arrabbiata con me stessa per non aver capito come ti sentivi. Non immaginavo che tu… pensassi queste cose. Pensavo che fossi felice… Ma deve essere stata dura… devi esserti sentito così solo.
I suoi occhi erano rossi e lucidi; vedendola piangere, andai un po’ nel panico.
-No! Non è colpa vostra, sono io che… sono io quello sbagliato- mormorai, imbarazzato.
Mamma non disse niente. Mi fissò a lungo senza parlare, poi si alzò e uscì dalla stanza. Restai immobile a guardarla andare via, smarrito. Fuori il rumore della pioggia si era fatto più forte, e il vento la faceva battere contro i vetri, perciò presi un cuscino e lo strinsi al petto, schiacciato nel mio angolino.
Mamma tornò dopo una decina di minuti con un grosso libro tra le mani. A guardarlo meglio, capii che era un album di foto rilegato con una copertina di tessuto azzurro; sul davanti c’era la scritta “Album di famiglia”, ricamata con un taglio pulito e ordinato. Senza dubbio Mamma ci aveva messo il suo tocco magico.
Si sedette sul divano accanto a me, stavolta così vicina che le nostre spalle si toccavano, e aprì l’album sulle proprie gambe. Le prime pagine erano piene di foto di Kazemaru da bambino a un anno, due, tre e così via; poi, verso la sesta pagina, apparve una mia foto. Rimasi a fissare stranito quel bambino con i capelli lunghissimi, tutto arruffato, praticamente un piccolo selvaggio. Doveva essere stata scattata non molto tempo dopo il mio arrivo a casa, perché nelle foto a seguire i miei capelli erano più corti e sistemati. Quasi istintivamente, allungai una mano e sfiorai con le dita la mia prima foto con Kazemaru: abbracciati, in salopette, sdentati perché entrambi stavamo ancora cambiando i denti da latte. Kazemaru mi stringeva le braccia attorno alle spalle e sorrideva con gli occhi strizzati, le fossette sulle guance. In un angolo della pagina, in alto a sinistra, c’era scarabocchiata la scritta Ichirouta e Ryuuji, 8 anni. A quell’età eravamo ancora solo dei normali bambini di Tokyo. Nella foto successiva ero io ad abbracciare Kazemaru, che era in pantaloncini da corsa e mostrava con orgoglio la medaglia del primo posto in una gara scolastica. Diventare un atleta era il suo sogno. Io, invece, di sogni non ne avevo poi molti; essendo privo di un passato, era difficile per me immaginare un futuro, perciò mi accontentavo di pianificare il domani insieme a Kazemaru. Era impossibile non notare che eravamo insieme in tutte le foto.
-Eravate inseparabili- commentò Mamma, come leggendomi nel pensiero. Mi indicò sorridendo una foto in cui dormivamo vicini, Kazemaru rincantucciato sotto le coperte ed io seduto in ginocchio accanto al letto, con la testa poggiata accanto a lui. -Una volta alle elementari dovevate andare in gita con la classe, ma Ichirouta si è ammalato proprio la sera prima… Ha pianto tutto la sera dicendo che doveva andare con te e alla fine siete entrambi crollati! Te lo ricordi, Ryuuji?
Annuii piano, senza staccare gli occhi dall’immagine. -Avevamo promesso di andarci insieme… perciò sono rimasto a casa anch’io- sussurrai.
-Sì… Me lo ricordo benissimo. Hai dormito vicino a lui tutta la notte e poi, la mattina dopo, mi hai detto tutto serio che saresti rimasto a casa per aiutarmi a prendermi cura di Ichirouta. E Ichirouta…
-Ha pianto di nuovo quando si è svegliato.
Mamma ridacchiò. -Proprio così. Aveva paura che fossi andato alla gita da solo, ma tu non avevi voluto separarti da lui- disse. Girò pagina e indicò una foto in cui eravamo seduti sul divano: avevo un ginocchio sbucciato e Papà me lo stava disinfettando, mentre Kazemaru mi teneva forte la mano con un’espressione contrita, come se stesse soffrendo più di me.
-Qui ti eri fatto male per proteggere Ichirouta- raccontò Mamma. -Stavate giocando a calcio con Papà sul lungofiume e Ichirouta è inciampato ed è caduto lungo l’argine. Tu ti sei buttato e lo hai stretto tra le braccia per attutire la sua caduta e… ti sei fatto male tu. Ma anche quando ti abbiamo medicato, tu non hai mai pianto, sai? Non sei mai stato un bambino che piange.
Mamma si fermò e fece un sorriso triste.
-Sei sempre stato così forte- sussurrò. -Così forte, e così indipendente… Quando Kazemaru era in difficoltà, eri il primo a correre in suo aiuto, ma quando eri tu a soffrire, cercavi sempre di nasconderlo per non farci preoccupare. Se avessi pianto, se ti fossi lamentato, avremmo potuto starti accanto e confortarti. Ma tu non volevi conforto, guardavi sempre avanti. E allora io e Papà non abbiamo potuto fare altro che guardarti crescere insieme a Ichirouta, e darvi una mano quando potevamo. Pensavo che avrei potuto proteggerti per sempre, ma…
Girò ancora pagina, e ancora. In alto a destra era scarabocchiata la scritta Ichirouta e Ryuuji, 13 anni. La foto che voleva farmi vedere risaliva al festival culturale della terza media. Kazemaru aveva appena perso la corsa dei 100 metri a cui teneva tanto e piangeva ancora per la frustrazione mentre facevamo il picnic con la famiglia sotto gli alberi in fiore; naturalmente, io ero vicino a lui e lo stavo consolando, offrendogli i fazzoletti. Ricordavo fin troppo bene quel festival. Come dimenticare il primo momento in cui la mia empatia si era manifestata? Un istante prima ero normale, l’istante dopo stavo assorbendo le emozioni negative di Kazemaru come una spugna.
Lanciai un’occhiata di sbieco a Mamma, chiedendomi cosa volesse dirmi.
-Ma… poi sono arrivati i nostri doni?- tentai, nervoso. Mamma assentì.
-Da quel giorno avete cominciato pian piano a essere… speciali. Anche se eravamo confusi, io e Papà abbiamo capito abbastanza in fretta che non era semplice crescita. Kazemaru era più che veloce, era come il vento. E tu… tu sentivi troppo, troppe cose, e stavi male per questo. Eravate chiaramente diversi dagli altri bambini, e noi… io… io avevo paura, Ryuuji-. Mamma deglutì e le lacrime bagnarono di nuovo i suoi occhi.
Mi sforzai di non essere ferito dalle sue parole. Anche se faceva male, dovevo essere forte per lei, glielo dovevo.
-È normale, sai… avere paura di tutto questo. Dei doni- dissi. Di me, volevo aggiungere, ma non riuscii ad andare oltre. Avevo un fastidioso nodo alla gola.
Mamma scosse il capo.
-No… No. Non capisci, Ryuuji. Non era dei vostri poteri che avevo paura- rispose.
-Temevo di… di non essere abbastanza. Avrei voluto proteggervi, ma non ero abbastanza forte… Perciò, quando Hitomiko-san è venuta da noi e ci ha spiegato tutto, mi sono sentita sollevata. Ho pensato che loro avrebbero potuto aiutarvi, e vi ho lasciati andare… anche se sapevo che avrebbe potuto essere pericoloso, vi ho lasciati andare…
-Nei primi tempi, non facevo altro che chiedermi se avevo fatto bene, se avrei potuto fare di più. Sono una cattiva madre? Avrei potuto continuare a crescervi qui, con Papà? Avremmo potuto darvi la vita che meritate, anche se siamo solo persone comuni? Ancora non lo so… Non so cosa dovrei pensare, o cosa avrei dovuto fare, ma...
Mamma si girò e mi poggiò una mano sulla guancia.
-Ryuuji, mio bellissimo, coraggioso guerriero… Tu sei mio figlio. E nulla di ciò che farai o dirai potrà mai cambiare questo fatto. Tu sei nostro figlio, e noi siamo la tua famiglia. Perciò non devi mai, mai chiederci scusa. Ogni momento passato insieme è un ricordo prezioso che nessuno potrà toglierti... e spero che ci porterai sempre con te, ovunque andrai, perché io vi porto sempre con me, nel mio cuore.
Nonostante le lacrime che le rigavano il volto, Mamma sorrideva e la sua voce era sicura.
A ogni parola sentivo il bruciore agli occhi intensificarsi, finché non riuscii più a trattenere le lacrime. Mi sporsi in avanti, schiacciando l’album tra noi due, e le gettai le braccia al collo con impeto, rifugiandomi nel suo abbraccio come un bambino. Mamma non esitò a stringermi a sé. Perché non avevo mai pianto davanti a lei? Se l’avessi fatto, avrei capito molto tempo fa che ne avevo bisogno. Lei mi avrebbe confortato come stava facendo adesso e io mi sarei sentito un po’ meno solo. Ma era inutile pensare alle possibilità mancate; c’era invece qualcosa di molto importante che potevo dirle adesso, e in futuro. Una sola, preziosissima parola che conteneva tutto ciò che provavo. Grazie. La ripetei più e più volte tra un singhiozzo e l’altro, e lei in risposta mi strinse più forte.
Eravamo così impegnati a piangere che non ci accorgemmo nemmeno che aveva smesso di piovere. Capimmo quanto tempo era passato solo quando Papà rientrò a casa dopo aver svolto le commissioni che Mamma gli aveva affidato; sentendo i suoi passi nell’ingresso, mi staccai finalmente dall’abbraccio e alzai la testa, guardando verso la porta, in attesa. Papà entrò in soggiorno camminando goffamente, impacciato dalle buste della spesa che portava a due a due, ma appena ci vide e mi guardò bene in faccia lasciò cadere di colpo tutto ciò che aveva in mano e si buttò in ginocchio davanti a me, stringendomi tra le braccia con lo stesso calore di Mamma. Abbracciai le sue spalle forti, la sua testa stempiata, quasi calva, e mi sorpresi di sentirlo piangere a sua volta.
Dopo un po’, Mamma si staccò da noi e si asciugò il viso con un fazzoletto di stoffa.
-Spero che nelle buste non ci fossero le uova- osservò, con la voce rotta dal pianto e un sorriso ironico sulle labbra. Abbozzai un timido sorriso per la battuta; dopo aver pianto mi sentivo più leggero. Papà, invece, scoppiò a ridere: non ammise la colpa, né la negò.
Quella sera, seduti a tavola, mangiammo lo stufato di crema e, per dessert, un semplice budino. Per fortuna, le uova si erano salvate quasi tutte.
 


 
xxx


 
Mamma aprì la porta della mia camera e si affacciò.
-Ryuuji? Ho messo l’acqua sul fuoco. Scendi per un tè tra poco?- chiese con un sorriso.
Annuii, ricambiando il sorriso, e lei tornò al piano di sotto tutta contenta; la sentii scendere le scale canticchiando.
Nei due giorni che avevo trascorso a casa, mi ero gradualmente riappropriato dei miei spazi e di tutte le cose che avevo dovuto lasciare indietro quando mi ero trasferito. Quel pomeriggio ero steso sul mio letto a leggere dei vecchi fumetti che avevo tirato fuori dall’armadio e sparso dappertutto sul pavimento. Oh, se avevo adorato quella serie da bambino! Forse perché era una serie di supereroi, e tutti i bambini sognano un po’ di essere degli eroi. E come potevo io, un bambino che voleva essere amato così disperatamente, non voler diventare un eroe benvoluto da tutti? Quello che mai avrei immaginato era che, beh, avere un potere non è per forza figo. Nessuno ti avverte mai degli effetti collaterali.
I due giorni che avevo trascorso a casa con Mamma e Papà erano stati sorprendentemente normali; era come se quello che era successo alla clinica non fosse mai accaduto, come se fosse stato solo un incubo i cui contorni erano sfumati una volta che me n’ero distanziato. Avrei voluto che fosse andata così, ma purtroppo sapevo che il mio dono non era scomparso. E non potevo prevedere quando sarebbe tornato.
Chiusi il fumetto e lo poggiai sul cuscino, poi mi tirai su, mi infilai una felpa e uscii dalla camera per raggiungere Mamma al piano di sotto. Mentre scendevo le scale, mi resi conto con sollievo che la pioggia si era diradata dopo essersi accanita contro i vetri per tutta la notte e la mattina successiva.
Nel soggiorno-cucina c’era profumo di tè verde e gelsomino. Mamma era in piedi davanti al fornello e stava versando il tè nei bicchieri di gras; alle sue spalle, sulla tavola, c’era anche una scatola di latta contenente dei biscotti. Senza perdere neanche un momento, mi lasciai cadere su una sedia, presi un biscotto e lo addentai. Era friabile, burroso e pieno di gocce di cioccolato, e mentre masticavo mugugnai un verso di apprezzamento. Intanto, Mamma mi tese un bicchiere di tè in cui galleggiavano due stecchini di legno. Mi preparava sempre qualcosa di caldo da bere quando pioveva. Accettai il tè con gratitudine e lo poggiai vicino a me mentre ponderavo l’idea di riempirmi la tasca della felpa di biscotti.
-Dov’è Papà?- chiesi distrattamente, portando il bicchiere alla bocca e soffiandoci sopra.
-Oh, aveva una faccenda da sbrigare. Dovrebbero essere qui a momenti- rispose Mamma serenamente. Annuii e stavo per prendere un sorso di tè quando finalmente la mia testa registrò le parole; mi bloccai e fissai Mamma confuso, con la fronte corrugata. Solo in quel momento notai che stava versando il tè in quattro tazze, non due.
-Dovrebbero chi…?
Ma coincidenza volle che la mia domanda fosse interrotta proprio dal suono del campanello. Mamma mi sorrise di sfuggita e, quando andò ad aprire, mi alzai di scatto e la seguii d’istinto. Papà stava posando delle buste a terra e alle sue spalle, impegnato a sistemare l’ombrello sul pianerottolo in modo che non fosse d’impiccio, c’era Kazemaru.
Rimasi a fissarlo a bocca aperta. Kazemaru entrò dietro Papà e cominciò a scrollarsi di dosso la giacca bagnata; quando alzò lo sguardo e mi vide, anche lui si paralizzò, con gli occhi incollati su di me e la giacca ancora appesa a un braccio.
-La pioggia ci ha beccati proprio nel tragitto tra il palazzo e la macchina! Che sfortuna, eh- si lamentava intanto Papà, scuotendo il capo mentre appendeva l’impermeabile in alto. Si girò verso Kazemaru e aggrottò la fronte, confuso dal fatto che il figlio sembrasse congelato nel tempo, ma poi si accorse di me e fece due più due.
-Oh- disse, quasi illuminandosi. Lui e Mamma si scambiarono un’occhiata eloquente, poi Mamma poggiò una mano sulla spalla di Kazemaru, attirando su di lei la sua attenzione.
-Ichirouta, tesoro, perché non finisci di spogliarti e ti avvii dentro? Vi porto il tè in camera dopo- suggerì con una certa fermezza.
Kazemaru prese la palla al balzo. Senza farselo ripetere due volte, tolse definitivamente la giacca, si sfilò le scarpe e varcò finalmente l’ingresso. Vedendomelo arrivare addosso, feci d’istinto un passo indietro, ma Kazemaru mi prese per il braccio e mi tirò nel soggiorno e poi verso il piano di sopra. Avrei potuto opporre resistenza. Non lo feci.
Solo una volta arrivati davanti alla nostra stanza, Kazemaru si fermò, mi lasciò il braccio e aprì la porta. Il suo sguardo cadde subito sui fumetti sparsi a terra.
-Wow- esclamò subito, sgranando gli occhi davanti al caos che regnava nella camera.
Mi morsi il labbro e cominciai ad attorcigliare una ciocca di capelli attorno a un dito.
-Avevo, uh… voglia di leggere qualcosa- ammisi. -Non posso uscire di casa perché… Beh, non posso. E anche se potessi, non vorrei, quindi…
Kazemaru annuì senza fare commenti, poi si chinò e raccolse da terra un numero a caso. Sorrise guardando la copertina.
-Me lo ricordo questo. Era il tuo preferito. Ti sono sempre piaciuti i supereroi- disse. Scrollai le spalle, mi lasciai cadere sul letto e abbassai lo sguardo sul fumetto che ci avevo lasciato poco prima.
-I supereroi sono fighi, ma hanno anche un sacco di problemi. È molto meglio essere normali. Era bello quando eravamo… soltanto noi, senza doni. Senza stranezze- ribattei con una punta di amarezza. 
Prima di rispondermi, Kazemaru chiuse la porta della camera. Sapevamo entrambi che Mamma sarebbe arrivata con le nostre tazze di tè quando sarebbero state già fredde.
Kazemaru si sedette accanto a me, le mani intrecciate in grembo e il volto leggermente chino in avanti in modo da scrutare il mio.
-È vero. I ricordi di quando eravamo bambini sono probabilmente i più belli che ho- ammise. -Forse non abbiamo mai apprezzato quella normalità quanto dovevamo, perché… perché era normale. E noi sognavamo di essere qualcosa di più.
Tacque per un momento, inspirò a fondo, poi continuò.
-Prima o poi lo scoprirai comunque, perciò voglio dirtelo io. I medici dicono che non potrò più fare atletica. Anche se Maki è intervenuta quasi subito, ho… perso troppo sangue.
D’istinto guardai la sua gamba. Strinsi i pugni sulle ginocchia, frustrato, ma prima che potessi scusarmi, lui poggiò una mano sulla mia e mi guardò serio.
-Non dire che è colpa tua. Io non penso che lo sia- disse, con una tale sicurezza che non riuscii a contraddirlo. Rimasi in silenzio a guardarlo, e lui proseguì.
-Persino in quella situazione, tu cercavi di proteggermi… È per questo che mi avevi allontanato da te, vero? Ma Fox ci ha presi tutti di sorpresa… Sai, ho pensato e ripensato a come avrei potuto evitarlo. Ma rimuginarci ora non porta a niente.
-Fare atletica era il tuo sogno- mormorai in un fil di voce.
Kazemaru scosse il capo e abbozzò un mezzo sorriso.
-Non avrei potuto continuare in ogni caso. Credo che usare poteri sovrumani per vincere le Olimpiadi sia ancora illegale- rispose, strappandomi un verso a metà tra una risata e un singulto. Kazemaru mi mise una mano sulla spalla e poggiò la testa contro la mia, stringendomi in un mezzo abbraccio.
-Solo perché quel sogno non si è realizzato, non vuol dire che fosse stupido... Anche se i tuoi sogni non si sono realizzati come avresti voluto, non vuol dire che non valessero niente. Puoi sempre ricominciare daccapo- disse.
-Mi dispiace di non esserti stato accanto quando ne avevi bisogno. Mi dispiace se ho avuto paura, anche solo per un istante. Quando ho capito di averti ferito, era già troppo tardi… Ti stavo già perdendo- aggiunse. La sua voce tremò alla fine, ma poi si ricompose.
-Io credo in te, Ryuuji. E voglio che tu sia felice… per questo accetterò anche di dovermi separare da te. Ma nulla di tutto questo ha senso se tu non sei felice. Ryuuji, promettimi che ti impegnerai. Io mi impegnerò, se tu continuerai a farlo.
-Non posso prometterti nulla- dissi in tono stanco. Kazemaru mi strinse di più a sé.
-Lo so- sussurrò. -Lo so. Scusami se non sono sempre l’amico che meriteresti.
-Sei più di un amico. Sei mio fratello- sussurrai. Kazemaru fece un sorriso incerto e mi guardò intensamente mentre la sua mano scivolava via dalla presa.
-Spero che lo penserai ancora tra un’ora o due… perché a dire la verità, c’è un’altra cosa di cui devo scusarmi- disse lentamente.
Alzai il viso e lo guardai, accigliato. Kazemaru si morse il labbro inferiore.
-Uhm… C’è un’altra persona che vorrebbe parlarti. Hitomiko non voleva, perché, ehm, si tratta una persona troppo ‘coinvolta emotivamente’, ma lui ha insistito per vederti, perciò… l’ho portato qui- confessò. -Gli ho detto che avrei parlato prima io con te, perciò… ti sta ancora aspettando fuori, probabilmente.
Non aveva neanche finito di parlare che ero già saltato giù dal letto. Spalancai la porta, scesi le scale di corsa e attraversai a grandi falcate soggiorno e ingresso, solo vagamente consapevole che Kazemaru, Mamma e Papà stavano assistendo a tutto quanto. Mi gettai sulla porta d’ingresso e la aprii bruscamente. Il fiato mi si mozzò in petto.
Hiroto era lì, avvolto in un trench nero, appoggiato vicino alla parete con le braccia incrociate al petto; sorpreso dal rumore della porta, ebbe un sussulto e si raddrizzò di colpo. Lo guardai sconvolto, ancora con la mano sulla maniglia, incurante del vento che mi batteva sulle guance. Hiroto alzò la mano in segno di saluto e accennò un pallido sorriso, i capelli rossi che ondeggiavano come anemoni sullo sfondo grigio lamiera del cielo.
-Midorikawa- disse, esitò. Le sue guance si imporporarono. -Uhm… speravo che… potessimo fare due passi, se ti va.
Il cuore mi palpitava forte nel petto. Non sapevo più parlare. Rimanemmo per un attimo a fissarci, senza parole. Hiroto mi guardava con un senso di nervosismo e attesa, e non potei fare a meno di chiedermi come mi vedesse in quel momento, mentre stavo lì davanti a lui con una vecchia tuta e una felpa di due taglie più grossa della mia. Sapevo di avere delle occhiaie molto profonde; mi svegliavo ogni notte con gli incubi.
Un rumore mi fece sobbalzare. Mi girai di scatto e intravidi Kazemaru sulla porta della cucina: mi faceva segno di andare. Presi un respiro profondo, poi afferrai la mia giacca e la indossai mentre uscivo, chiudendomi la porta alle spalle. Quando alzai lo sguardo su Hiroto, vidi nei suoi occhi sorpresa, sollievo, esitazione. Riabbassai subito la testa e lo presi per la manica del trench con due dita.
-Seguimi- dissi soltanto, e lui lo fece senza fiatare.
Ricordavo perfettamente che poco lontano da casa nostra c’era uno spazio verde, non grande abbastanza da essere chiamato parco, ma con una discreta area per bambini. L’entrata era aperta a tutti gli abitanti del quartiere; non c’erano cancelli, o recinzioni, o siepi. Intravidi subito l’area bambini. La minuscola piscina di sabbia, le altalene, i tubi di ferro: era rimasto tutto uguale ai miei ricordi. A quell’ora e con l’incertezza del meteo la zona era deserta, l’ideale per parlare da soli. 
Dopo essermi guardato intorno, mi avviai verso le altalene e ne scelsi una a caso su cui sedermi. Hiroto occupò subito il posto accanto al mio. Restammo per un po’ così, a ciondolare in silenzio, senza mai staccare davvero i piedi da terra, ancorati con i talloni nel terriccio. A testa china, sbirciai di nascosto il suo profilo vestito di nero, la sua espressione combattuta ma allo stesso tempo determinata, la stessa determinazione che aveva dimostrato in quella stanza sotterranea. Non riuscivo a immaginare di cosa volesse parlarmi, ma quell’atmosfera seria mi rendeva nervoso. Era venuto per lasciarmi?
Il pensiero bastava ad atterrirmi. Ero uno stupido. Ero stato io a incrinare il nostro rapporto; non avevo il diritto di lamentarmi. E forse era meglio così, perché se non lo avesse fatto lui, avrei dovuto farlo io e non sapevo se ero abbastanza forte da riuscirci.
Eravamo tanto vicini che avrei potuto toccarlo solo allungando una mano. Quando una ciocca di capelli gli scivolò sulla guancia, ebbi l’impulso di scostargliela io, così da poter continuare a osservare il suo volto, ma all’ultimo mi trattenni e strinsi i pugni attorno alle catene dell’altalena. Ma cosa sto facendo?, mi chiesi, frustrato.
Poi Hiroto prese un respiro profondo, inspirò, gli occhi fissi sulle proprie scarpe.
-Ho deciso di accettare l’incarico di Spy Eleven appena possibile- mormorò.
Mi morsi l’interno della guancia, cercando di mascherare la mia sorpresa. L’ultima volta che ne avevamo parlato, Hiroto non mi era parso esattamente entusiasta, anzi.
Sembrava passata un’eternità da quel giorno.
-Pensavo avessi detto che non ti sentivi pronto- dissi invece, con voce controllata.
-Pronto? No, non direi-. Hiroto scosse il capo. -Non penso che lo sarò mai… Continuo a pensare di non essere all’altezza. Ma quello che è successo alla clinica… mi ha fatto capire alcune cose. In questi giorni ho avuto tanto tempo per pensare alla missione, a noi due, e anche ai nostri doni.
-Voglio dire, nessuno sa precisamente da dove sono venuti, no? Sono semplicemente apparsi, da un giorno all’altro. E non sappiamo se o quando spariranno- continuò, serio. -Per come stanno le cose adesso, non abbiamo altra scelta che accettarli e conviverci… ma possiamo fare molto di più. So che possiamo. E diventare Spy Eleven è un’opportunità che non posso lasciarmi sfuggire, se voglio davvero cambiare le cose.
-Cosa… cos’hai in mente?- mormorai, titubante, alzando leggermente lo sguardo.
-Beh, prima di tutto informare come si deve i nuovi drifter e le loro famiglie. Proprio perché i doni sono un fenomeno recente e improvviso e del tutto casuale, molti di noi non hanno avuto la possibilità di avere un’infanzia normale. Le nostre famiglie sono rimaste spiazzate, o sono state distrutte, e abbiamo vissuto nella paura- spiegò Hiroto, spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Aveva le guance rosse e parlava velocemente.
-Ma se riuscissimo a individuare i nuovi drifter e ad aiutarli a venire a capo della cosa… se pian piano riuscissimo a normalizzare tutto questo, quei bambini non dovranno passare quello che abbiamo passato noi. Noi possiamo dare loro una scelta, la scelta che molti di noi non hanno avuto. In questo modo, forse… forse potremo lasciare ai bambini del futuro un mondo migliore e più sicuro per tutti.
Hiroto si fermò per riprendere fiato, poi si girò verso di me e sorrise.
-Questo è il mio sogno. Ed è tutto merito tuo, Midorikawa. Sei tu che mi hai ispirato- disse. Per un momento il suo sorriso mi tolse il respiro, e rimasi a fissarlo senza parole, confuso e disorientato. Poi cominciai a sentirmi anche arrabbiato.
-Ispirato?- ripetei con voce tremante, con il viso accaldato dalla vergogna. Mi girai a fulminare Hiroto con lo sguardo e, nel voltarmi, lo sguardo mi cadde di nuovo sul bracciale. Nascosi rapidamente le mani nella tasca della felpa.
-Come puoi dire una cosa del genere? Dopo quello che hai visto là sotto?- sbottai, irritato. -Io… non sono una persona che può ispirare gli altri. Quando ero con Kenzaki, ho conosciuto la parte peggiore di me. Cosa ti ha ispirato, esattamente? Quando ho fatto crollare un palazzo? O quando ho quasi ucciso qualcuno?
-Midorikawa, non è…- Hiroto tese una mano verso di me, ma io la evitai e mi alzai di scatto, allontanandomi da lui con un balzo.
-No!- gridai. -Non provare a dirmi che non è colpa mia! Hai visto quello che ho fatto! L’hai visto! E non posso darti una spiegazione. Io... Io non so più chi sono! Non riesco… non riesco a essere felice di essere sopravvissuto… perché sono un mostro. Il mio dono mi rende un mostro. Come posso continuare a vivere… Come posso sapere che non succederà ancora?
Deglutii. Non volevo piangere, non adesso. Non nel momento della verità.
-Hiroto, noi non possiamo restare insieme- dissi, con voce rotta. -Lo sai, vero? Se resterai con me, non farò altro che continuare a ferirti... Alla fine ti rovinerò la vita. Questo potere vive con me... e finché sarò vivo, distruggerà tutto ciò che tocca. Lo stesso destino toccherà anche a te, e a tutto ciò che amo. Per colpa mia...- La voce mi venne a mancare. Presi un respiro profondo, poi continuai, tagliente.
-Tu hai il potere di fermarmi, è vero. Ma dopo che lo hai fatto una volta, e poi un’altra, e un’altra ancora… cosa succede dopo, Hiroto? Mi controllerai per tutta la vita? Non è questo che voglio per te.
Mi rannicchiai a terra, coprendomi la testa con le braccia, le mani sugli occhi mentre lottavo con tutte le mie forze per ricacciare indietro le lacrime.
-Non ti costringerò a uccidermi. Io… non sarò la tua prossima vittima- mormorai con amarezza. -Non c’è posto per me nel mondo sicuro e pacifico che sogni.
Appena smisi di parlare, tra noi calò il silenzio.
Hiroto non provò a rispondermi subito. Sapevo che stava pensando a come ribattere. Ma doveva sapere che avevo ragione io. Doveva saperlo. Se in passato mi ero fatto l’illusione di poter avere una vita felice, il più possibile normale, quel sogno era andato distrutto insieme alla clinica.
Dopo minuti interminabili, sentii un cigolio da qualche parte accanto a me, poi il respiro di Hiroto. Sussultai di sorpresa quando le sue mani si avvolsero delicatamente attorno alle mie. Hiroto se le portò alle labbra e baciò le nocche arrossate sotto il mio sguardo scioccato, poi, ancora in silenzio, premette la fronte contro le mie mani e chiuse gli occhi. Sentii le sue lacrime contro la pelle. Quando Hiroto sollevò di nuovo la testa, il suo sguardo sincero e determinato mi fece quasi vacillare.
-Per me non cambia niente. Tu non sei cambiato- sussurrò.
Sembrava così sicuro di sé. Mi scappò un singhiozzo e scossi il capo con veemenza.
-No, non capisci... Anche se il tuo potere è terribile, hai il potere di controllarlo. Tu fai sempre la cosa giusta. Ma io... io non sono come te. Se venissi ancora sopraffatto dal mio dono, non sono certo che farei la cosa giusta. Quindi è meglio non illudersi… è meglio dirsi addio adesso…
-No- mi interruppe Hiroto, così brusco da farmi sussultare. Accorgendosene, Hiroto addolcì la sua espressione mentre con una mano mi accarezzava la guancia, scostandomi i capelli dal viso. Quando arrossii e cercai di sfuggire alla presa, mi prese il mento tra le dita e, con delicatezza, mi fece voltare di nuovo verso di lui.
-Tu non sei un mostro. Hai sempre usato l’empatia per aiutare agli altri, no?
Aggrottai la fronte. -Quella... è una cosa diversa- borbottai.
-Il mio potere non è solo quello, è… lo hai visto, no?
Ma Hiroto scosse il capo, deciso a non farsi scoraggiare.
-Non si tratta solo dei doni, Ryuuji. Perché anche se non avessi alcun potere, tu cercheresti comunque di aiutare gli altri. Per questo mi sono innamorato di te... e per questo, credo, ho sempre saputo che ti saresti sacrificato. Sapevi che quello che stavi facendo ti sarebbe costato tanto, ma hai scelto comunque quella strada per proteggerci…
I suoi occhi si riempirono di nuovo di lacrime.
-Quando eravamo nella clinica, me ne sono ricordato. Una volta mi hai detto che avresti protetto Kazemaru a ogni costo… e non hai mai smesso di farlo. Questo sei tu. Non un mostro, ma la persona più coraggiosa e altruista che io conosca.
Lo ascoltavo in silenzio, con il cuore che mi martellava nel petto.
Le sue parole stavano cominciando a smuovere qualcosa, e non ero certo che mi piacesse. Ma, senza che me ne accorgessi, le lacrime avevano cominciato a scendere; me ne resi conto solo quando Hiroto mi asciugò una guancia con il pollice. Mi vidi riflesso nei suoi occhi, fragile, vulnerabile. Perso. Vedermi attraverso i suoi occhi mi fece crollare: premetti una mano sulla bocca per soffocare i singhiozzi, ma non c’era verso. Così, quando Hiroto fece scivolare una mano dietro la mia nuca e mi attirò a sé, facendomi poggiare il volto contro la sua spalla, finii per lasciarlo fare. Era lì che volevo stare. Lì, tra le sue braccia.
-Ho paura… Ho così tanta paura... Io non volevo, non volevo morire… Volevo solo che il dolore finisse... Volevo solo che voi foste al sicuro…- confessai in un fil di voce.
Hiroto annuì, stringendomi forte a sé.
-Lo so. Ma non devi sopportarlo da solo. Anche se verremo separati, avrai sempre delle persone dalla tua parte, te lo prometto. E io mi impegnerò ogni giorno, ogni momento, per creare un mondo dove io e te possiamo vivere insieme. Perciò ti prego, non arrenderti… Il mio sogno non esiste senza di te, niente ha senso se non ci sei tu al mio fianco.
La sua voce tremava, e mi resi conto che stava piangendo anche lui.
Mi gettai tra le sue braccia e scoppiai in un pianto furioso e disperato contro il suo petto. Hiroto barcollò, cadde seduto nella terra, ma ricambiò subito l’abbraccio, e a quel punto non riuscii più a mentirmi. Volevo che Hiroto mi consolasse. Volevo che mi dicesse che sarebbe andato tutto bene. Non avevo mai pensato di poter amare una persona così tanto, ma non potevo vivere senza di lui e, cosa ancora più sorprendente, lui non poteva vivere senza di me. E finalmente capii anche cosa voleva davvero Kazemaru: non una promessa vuota, ma un tacito accordo. Io mi impegnerò, se tu continuerai a farlo, ripetei le sue parole in mente, riflettendo su quel nuovo significato. 
Io andrò avanti, se tu continuerai a farlo.
 


 
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Mamma, Papà e Kazemaru ci aspettavano nell’ingresso di casa; quando io e Hiroto rientrammo, sporchi di terra, con gli occhi gonfi e rossi per il pianto e tenendoci per mano, tutti e tre ci fissarono con sorpresa, curiosità e apprensione. Si vedeva che morivano dalla voglia di chiederci cosa fosse successo, ma prima che chiunque potesse parlare, Hiroto prese l’iniziativa.
-Uhm… Scusate il disturbo. Sono tornato solo a riaccompagnare Ryuuji, ora vado- disse pacatamente, con un sorriso educato e gentile. Mamma si portò una mano alla guancia, pensierosa, poi scosse il capo.
-Cosa? Ma è già così buio fuori, e poi potrebbe piovere di nuovo… Oh no, no, caro, non posso mandarti via così. La nostra casa non è molto grande, ma saremmo lieti di averti a cena. Puoi anche dormire qui, vero, Papà?- esclamò, girandosi verso il marito per avere approvazione.
-Oh, certo, certo, naturalmente. Venite dentro, ragazzi- rispose prontamente Papà.
Hiroto sembrava sul punto di obiettare, ma gli strinsi la mano e lo tirai dentro con me. Quando lui mi lanciò un’occhiata interrogativa, scrollai le spalle, troppo imbarazzato per rispondere. Non avevo certo programmato di presentare il mio ragazzo ai miei genitori ed ero sollevato dal fatto che non mi avessero fatto domande, anche se probabilmente avevano già capito tutto da soli. Dal momento che Mamma aveva già preparato la cena, ci mandarono al piano di sopra per rinfrescarci e cambiarci prima di scendere a mangiare; una volta entrato in camera mia, vedendo i due cambi di vestiti sul letto, capii che rimandare a casa Hiroto non era mai stata un’opzione. Sì, avevano decisamente capito tutto.
Presi tutti i panni sul letto, tirai a Hiroto ai suoi e gli feci vedere dov’era il bagno. Hiroto entrò senza fare commenti. Quando mi passò a fianco, notai che aveva le guance rosse, e il suo imbarazzo non fece altro che aumentare il mio. Mi rintanai in camera, dove mi cambiai in fretta e aspettai che Hiroto finisse per dargli il cambio.
Mezz’ora dopo scendemmo insieme in soggiorno. Papà stava guardando la TV con aria distratta, mentre Kazemaru e Mamma erano accanto ai fornelli e parlavano a bassa voce. La tavola era già stata apparecchiata; era chiaro che avevano fatto il possibile per tenersi occupati, o almeno per fingere di esserlo, ma nonostante questo. il loro entusiasmo al nostro arrivo mi fece capire che eravamo noi il vero evento della serata. Quel pensiero mi rese un po’ nervoso. Avevo fatto del mio meglio per darmi una ripulita, ma tutta l’acqua fredda del mondo non sarebbe bastata a ridurre il gonfiore degli occhi.
Con mio grande sollievo, però, le mie paure non si avverarono. Nessuno chiese cosa fosse successo tra me e Hiroto. Nemmeno un commento sul nostro aspetto malconcio. Invece, Mamma fece accomodare Hiroto a tavola come uno di noi, tra me e Kazemaru, e lo viziò in tutto e per tutto per l’intera serata. Papà gli fece alcune domande di cortesia, ma con un sincero interesse dietro. Mentre li osservavo in silenzio, ben attento a non intromettermi nella conversazione per non attirare l’attenzione su di me più del dovuto, mi accorsi con sorpresa che si respirava un’atmosfera tranquilla, serena, come se avere a cena Hiroto fosse la cosa più normale del mondo. Anche Hiroto, che all’inizio era visibilmente nervoso, riuscì a rilassarsi dopo poco, e la cena proseguì senza intoppi fino alla fine. Ero così disorientato da quella inaspettata scenetta familiare che quando Mamma e Kazemaru iniziarono a sparecchiare e tutti si alzarono da tavola, soltanto io rimasi seduto lì come uno stupido a fissare il vuoto, senza accorgermi che la cena era finita. Hiroto mi toccò una spalla per attirare la mia attenzione.
-Tutto bene?- mi sussurrò, preoccupato. Lo guardai senza parole, e solo in quel momento mi chiesi dove avrebbe dormito. La camera mia e di Kazemaru era già stretta per due ragazzi ormai grandi, figuriamoci per tre. Allo stesso tempo, però, il pensiero di farlo dormire sul divano mi disturbava.
Il mio dubbio si risolse pochi minuti dopo, quando sentii Mamma chiedere a Papà dove avevano messo il futon per gli ospiti. Hiroto insisteva nel dire che il divano gli sarebbe bastato, ma non ci fu verso di convincerli. Stavamo per spostarci al piano di sopra quando il telefono squillò. Mamma e Papà si scambiarono una lunga occhiata, poi lui alzò la cornetta.
-Pronto? Sì-. Pausa. Papà si girò a guardarmi ed io mi avvicinai subito. Avevo già capito. Senza dire altro Papà mi passò la cornetta. La presi, poggiando una mano sul microfono, e per un momento ci fissammo: cercavo di comunicargli il mio desiderio di restare solo. Per fortuna lui capì. Andò da Mamma e le poggiò le mani sulle spalle.
-Andiamo a stendere il futon- le disse, spingendola gentilmente. Lei esitò, ma si lasciò accompagnare al piano di sopra. Kazemaru e Hiroto mi lanciarono un’occhiata apprensiva, poi anche loro si allontanarono. Rimasto da solo nel soggiorno, appoggiai la cornetta all’orecchio e dissi a Hitomiko-san di parlare.
La conversazione non durò molto, ma quanto misi giù il telefono mi sentii comunque svuotato di energie. Volevo soltanto andare a dormire. Era da un po’ che non sentivo rumori venire da sopra, come se gli altri avessero deciso persino di trattenere il respiro per non disturbare. O forse per ascoltare quello che dicevo. Per questo ero stato molto attento a parlare a bassa voce.
Salite le scale, trovai Mamma e Papà in corridoio, davanti alla porta del bagno; le spalle di Mamma tremavano leggermente e sembrava che Papà le stesse bisbigliando qualcosa per confortarla. Quando mi sentirono arrivare, si girarono entrambi. Mamma aveva la fronte corrugata e le labbra tremule strette in una linea sottile. Notai che anche Papà aveva gli occhi lucidi. Mi avvicinai, senza sapere cosa dire, ma a quanto pareva non c’era bisogno di dire niente, perché loro si limitarono ad abbracciarmi in silenzio.
Di colpo mi venne in mente che, qualsiasi strada avessi intrapreso, quella avrebbe potuto essere la mia ultima notte in quella casa. Il solo pensiero mi fece venire un nodo alla gola, perciò appena mi lasciarono farfugliai una scusa e mi rifugiai in bagno, dove mi gettai in faccia dell’altra acqua fredda. Tornai in camera solo quando fui certo di essermi calmato; un mal di testa era l’ultima cosa di cui avevo bisogno.
Quando uscii, scoprii con sollievo che Mamma e Papà non erano più lì. Probabilmente erano andati a dormire, e decisi che era il momento di farlo anche io. Appena aprii la porta della camera, Kazemaru, che era seduto sul suo letto, scattò in piedi. Hiroto, in piedi vicino alla finestra, si girò a guardarmi. Tutti e due erano rimasti alzati ad aspettarmi. Mi guardarono entrambi, come aspettando un mio cenno. Sospirai.
-Buonanotte- mormorai, imbarazzato, e diedi loro le spalle per infilarmi nel letto. Kazemaru fece lo stesso e spense la luce. Nel buio, sentii un fruscio di lenzuola e, girandomi, mi parve di intravedere Hiroto che si sistemava nel futon. Guardandolo così, mi resi conto di colpo che avevano steso il futon proprio sotto il mio letto, e che non avrei potuto alzarmi e uscire senza passargli letteralmente sullo stomaco. Chissà se non era una tattica per tenermi d’occhio. Ma ero troppo stanco per sospettare, e mentre lo osservavo nella penombra della stanza, mi venne spontaneo far scivolare la mia mano fuori dal lenzuolo e farla oscillare lungo il fianco del materasso, così da sfiorare la spalla di Hiroto.
Lo sentii sussultare e poi rilassarsi sotto le mie dita; dopo alcuni secondi, la sua mano trovò la mia. Respiravamo entrambi molto piano, per paura di svegliare Kazemaru; ma lui stava già dormendo pesantemente, o forse fingeva per rispetto dei nostri sentimenti. Chiusi gli occhi e sospirai.
-Hiroto?- bisbigliai, e attesi finché non lo sentii stringere la mia mano.
-Mi impegnerò ancora un po’- aggiunsi, senza riaprire gli occhi.
Hiroto non mi rispose, ma mi tenne la mano per tutta la notte.
 
 

 
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-Hai preso tutto? Hitomiko-san arriverà tra poco. Hai visto che ti ho preso i tuoi biscotti preferiti? Ti ho messo tutto nella tasca laterale della borsa, in un pacchetto…
Misi una mano sulla spalla di Mamma e la attirai in un abbraccio, interrompendo così il flusso di parole che quella mattina sembrava non finire mai.
-Va tutto bene, Mamma. Sto bene, ho tutto ciò che serve. E grazie per i biscotti- riuscii a dire, nonostante lei mi stesse stringendo così forte da rischiare di soffocarmi. Solo quando Papà le accarezzò con dolcezza la schiena, Mamma si convinse a lasciarmi andare, ma non prima di avermi preso il volto tra le mani un’ultima volta.
-Hitomiko-san ci ha detto in confidenza che la tua vera mamma è viva- sussurrò, in modo che nessuno tranne me e Papà potesse sentire. -Non potrei chiedere un regalo più grande per mio figlio… Per te e per lei ci sarà sempre posto a casa nostra, nella nostra famiglia, se vorrete tornare.
La guardai con sorpresa, poi mi voltai verso Papà e anche lui fece un cenno di assenso.
-Grazie- mormorai. Mi sembrava troppo poco, ma non sapevo che altro dire; non volevo mettermi a piangere di nuovo, a pochi minuti dalla partenza. Mamma aveva già versato abbastanza lacrime per tutti.
Quella mattina ci eravamo svegliati tutti presto per preparare le mie borse, come se fosse stato un rituale di famiglia. Anche Hiroto fu coinvolto, e lui con la sua solita gentilezza non contraddisse i miei genitori neanche una volta. In quel momento Kazemaru gli stava facendo vedere il giardino, probabilmente per lasciarmi solo con Mamma e Papà; Hiroto lo seguiva con aria placida, anche se dubito gli interessassero davvero ranuncoli e ortensie, specialmente in quel momento.
Quando sentimmo il rombo di un motore, tutti ci fermammo e ci girammo verso la strada. Poco dopo, la monovolume di Hitomiko spuntò da dietro un angolo, attraversò il viale e si fermò davanti al cancello aperto della casa. Trattenni il fiato. Era il momento. Ma, quando scese dall’auto, Hitomiko guardò Hiroto invece che me.
-Sapevo che ti avrei trovato qui- osservò, alzandosi gli occhiali da sole sui capelli.
-Sei arrabbiata? Avrei dovuto chiedere il permesso?- replicò Hiroto con un mezzo sorriso.
Hitomiko lo studiò per un attimo.
-No- disse infine. -Hai fatto il bravo bambino per una vita. Era ora che cominciassi ad avere una fase ribelle, onestamente.
Sembrava serena. Aveva i capelli legati in una treccia, un pantalone di tuta e delle scarpe da ginnastica, come se stessimo andando a fare un’escursione o una passeggiata in montagna. Non l’avevo mai vista così… riposata. Come se, insieme all’abbigliamento da ufficio, fosse sparita anche l’aria severa, rigida e controllata che aveva sempre quando suo padre era ancora in vita.
Scesi le scale trascinandomi dietro le due borse, e in un attimo Kazemaru e Hiroto furono accanto a me, uno su ogni lato. Hitomiko ci squadrò tutti e tre.
-Immagino che dovrò portarvi tutti con me. Su, in macchina- disse soltanto, indicando con il pollice la monovolume parcheggiata alle sue spalle. Kazemaru e Hiroto non se lo fecero ripetere e, aiutandomi con le borse, mi accompagnarono all’auto ed entrarono dopo di me. Dal finestrino vidi Hitomiko entrare nel giardino e Mamma e Papà andarle incontro per stringerle la mano. Immaginai che la stessero ringraziando, ma quando Hitomiko scosse il capo con un’espressione dispiaciuta capii che avevano anche provato a chiedere più informazioni su di me, su dove sarei andato e quando sarei tornato. Ma era probabile che Hitomiko non potesse dirglielo, o forse non lo sapeva bene nemmeno lei. Il mio futuro era stato deciso da persone più in alto.
Dopo qualche minuto, Hitomiko tornò indietro ed entrò in macchina. Mentre lei si allacciava la cintura, rivolsi un ultimo sguardo ai miei genitori: non erano venuti a salutare al cancello, ma si erano fermati davanti alla veranda. Quando Hitomiko mise in moto l’auto, alzai la mano in un gesto di saluto e loro fecero lo stesso; li vidi agitare le mani finché non lasciammo il viale e la casa non fu più visibile. A quel punto, sprofondai contro lo schienale con un lungo sospiro. Hitomiko mi lanciò un’occhiata dallo specchietto, poi tornò a guardare la strada.
-Il signor Raimon ha accettato di incontrarti all’indirizzo che mi hai detto- mi informò.
Le sue parole ci misero un momento a registrarsi nella mia mente.
-Oh… okay- dissi soltanto. Kazemaru e Hiroto si girarono a guardarmi. Era ovvio che per loro fosse una sorpresa: non avevo detto niente della mia chiamata con Hitomiko. Ma, a essere sincero, ero sorpreso anch’io. Non pensavo che avrebbero accolto la mia richiesta così facilmente; dopotutto, non ero nella posizione di avallare pretese.
Nell’auto calò di nuovo il silenzio. Dopo un po’, Hitomiko accese la radio.
-Solo perché è una faccenda seria, non vuol dire che stiamo andando al patibolo- disse, apparentemente a nessuno in particolare, ma capii che stava cercando di alleggerire la tensione e gliene fui grato. Non piangere, abbi fiducia, diceva la canzone alla radio. Se piangi ora, diventerai un bugiardo anche tu. Semplicemente, anche se è sempre più difficile, vivere a denti stretti è il tuo modo di vivere…
Era una bella canzone. Chiusi gli occhi e mi concentrai sulla musica mentre rimuginavo su cosa avrei detto a Raimon. Mi ero preparato un mezzo discorso, speravo solo di riuscire a parlare senza bloccarmi per l’ansia o l’emozione. Il viaggio proseguì senza che nessuno di noi dicesse niente e, a un certo punto, riuscii persino ad appisolarmi nonostante la tensione. Fui risvegliato dalla voce di Kazemaru dopo non so quanto tempo.
-Questo posto…!- esclamò Kazemaru, poi si fermò. Aprii un occhio per vedere cosa lo avesse impressionato e riconobbi in un istante l’enorme carcassa metallica dall’altro lato della strada.
-Siamo arrivati, credo- annunciò Hitomiko.
-Ryuuji, ci siamo- mi sussurrò Hiroto, scuotendomi leggermente la spalla. Mi ero addormentato contro la sua spalla, o forse ero scivolato su di lui nel sonno. Mi riscossi e mi tirai su, imbarazzato.
-Uh. Sì- borbottai, senza riuscire a pensare a nient’altro di intelligente.
Hitomiko accostò l’auto vicino al marciapiede, spense il motore e ci fece scendere. Pochi metri più avanti era parcheggiata una macchina grigia e bassa con i finestrini oscurati, dal cui sedile posteriore scesero Raimon e Kudou. Vedendo quest’ultimo, Kazemaru cambiò espressione e si mosse istintivamente davanti a me, ma io gli abbassai il braccio con delicatezza e scossi il capo, poi lo superai e andai avanti per primo.
Mi fermai davanti a Raimon e lo guardai senza dire nulla. Lui mi sorrise.
-Sappiamo entrambi perché siamo qui, Midorikawa. Ma prima che tu mi dia la tua risposta, vorrei che tu soddisfacessi una mia curiosità- mi disse.
-Ho assecondato la tua richiesta, ma perché proprio qui?
Mi girai a guardare la ruota panoramica di fronte a me. Era in disuso da anni, ma la città non aveva mai pensato a buttarla giù; così era rimasta là, a guardare il paesaggio intorno cambiare anno dopo anno, mentre lei restava indietro, coprendosi di ruggine e rampicanti. A pensarci ora, era una vista davvero penosa. Quando ero bambino, però, bastava guardarla per riempirmi di paura.
Abbassai la testa e seguii con lo sguardo i canali di scolo pieni d’acqua stagnante che correvano lungo tutto il marciapiede, fino a riversarsi in una sorta di pozza poco profonda. L’acqua era verde e alcune bottiglie di plastica galleggiavano in superficie. Alzai una mano e indicai il grande acquedotto che da un grande tubo vomitava acqua nella pozza.
-È lì che sono emerso- dissi, cercando di tenere qualsiasi emozione fuori dalla mia voce. Sentii qualcuno trattenere bruscamente il fiato alle mie spalle, ma finsi di non averlo notato.
-Dopo che gli uomini di Kenzaki hanno portato me e mia madre nelle fognature e mi hanno gettato nel canale, sono finito qui… È qui che ho vissuto per un po’. È qui che i miei genitori mi hanno trovato- proseguii. Salii sul marciapiede e appoggiai una mano sul muro. Non c’era modo di dire quale fosse il punto esatto in cui mi sedevo sempre, aspettando chissà cosa; l’unica cosa certa era che da lì potevo vedere benissimo la ruota anche di notte, anche quando pioveva. Visto che non avevo ricordi precedenti, quando immaginavo di essere un supereroe nelle mie fantasie era sempre quello il luogo delle mie origini.
-Volevo rivedere questo posto un’ultima volta, credo- mormorai, con lo sguardo basso.
-Passavo ogni giorno a sperare che qualcuno mi vedesse… che qualcuno chiamasse proprio il mio nome… Ovviamente era una cosa stupida. Come poteva qualcuno chiamarmi per nome, se nemmeno mi conosceva? Eppure, ci ho sperato ogni giorno. E ho continuato a farlo per tutti questi anni.
Mi appoggiai al muro con entrambe le mani, poi con la schiena, e alzai lo sguardo verso il cielo terso. Sebbene odorasse ancora di pioggia, non c’era traccia di nuvole. Era un azzurro limpido, pulito, quasi abbagliante. Mi faceva venire voglia di piangere.
-Per tutto questo tempo, non ho fatto altro che cercare un posto a cui appartenere... Non riuscivo a perdonarmi di essere così debole, e ho finito per cercare ciò che mi mancava negli altri. Volevo scavarmi a tutti i costi un posto nel cuore di tutti... Ho sacrificato così tanto per gli altri… che adesso non so più chi sono- dissi con voce tremante. -Chi è veramente Midorikawa Ryuuji? Voglio provare a scoprirlo. Voglio poter rispondere con sicurezza, quando qualcuno chiamerà il mio nome. Anche io… anche io voglio trovare il mio posto.
Mi fermai a riprendere fiato, poi continuai con determinazione.
-Per questo verrò in Europa con lei. Per una volta voglio pensare a me stesso… Dovessero volerci anche dieci anni, questa volta scommetterò tutto su di me.
Mi voltai verso Raimon per vedere la sua reazione. Lui mi stava fissando, come per studiarmi; non so cosa vide sul mio volto, ma qualsiasi cosa fosse parve convincerlo della mia serietà, e sul suo viso si allargò un sorriso.
-Sono molto contento che tu abbia fatto questa scelta. Da parte mia, farò del mio meglio per aiutarti, Midorikawa, hai la mia parola- disse, dandomi una stretta di mano come se fosse stato un mio pari e non un mio superiore.
Alle sue spalle, Hitomiko e Kudou mi guardavano con sollievo, mentre Kazemaru si premeva le mani sulla bocca mentre cercava di trattenere le lacrime. Non gli stava riuscendo molto bene. Anche Hiroto aveva gli occhi lucidi, ma sembrava che riuscisse a controllarsi meglio, perciò si preoccupava di confortare Kazemaru dandogli dei colpetti amichevoli sulla schiena.
Lasciai la mano di Raimon e andai dal mio partner. Quando mi fermai davanti a lui, Kazemaru sussultò e si asciugò in fretta il viso con la manica della giacca.
-Mi dispiace… Ho detto che andava bene anche separarci, ma…- farfugliò. Gli presi la mano, scostandogliela dal viso, e appoggiai la fronte contro la sua.
-Lo so… perché siamo stati sempre insieme. Se potessi, resterei qui a prendermi cura di te. Ma questa volta devo andare. Lo capisci, vero?- sussurrai.
Kazemaru annuì, trattenendo a stento un singhiozzo. Lo abbracciai forte; poi, quando lo sentii smettere di tremare, mi staccai delicatamente da lui e mi girai verso Hiroto. Anche lui mi stava guardando, ma quando aprì la bocca per parlare, Hitomiko lo interruppe con un colpo di tosse chiaramente forzato.
-Penso… penso che possiate avere un momento da soli, vero?- disse Hitomiko nervosamente, lanciando un’occhiata di sbieco verso il signor Raimon. Ci girammo tutti verso di lui, quasi imploranti, e Raimon annuì con un sorriso benevolo. Appena avuto il suo consenso, mi girai di nuovo verso Hiroto e gli tesi la mano. Lui la prese subito e, come la sera precedente, mi seguì senza fare domande.
Mano nella mano, attraversammo la strada e ci fermammo davanti alla vecchia ruota. Vista da sotto, sembrava ancora più imponente e spaventosa, ma ormai non mi faceva più paura. I miei occhi caddero su un traliccio di edera che saliva su, su verso il cielo fino a scomparire nella luce accecante.
Mi chinai per appoggiare la testa contro la spalla di Hiroto e intrecciai le nostre dita.
-Un giorno vorrei provare a salire su una di queste- confessai. -A ben pensarci, il mio mondo è sempre stato piccolo… Mi chiedo come sarebbe il mondo da lassù? Riuscirei a vedere un mondo più grande?
Feci una pausa, poi aggiunsi, a voce ancora più bassa:
-Ehi, Hiroto… quando salirò su una di queste, ci salirai con me? Anche se sarà tra cinque, sei, o dieci anni? Quella proposta che mi hai fatto… non la dimenticherai, vero?
Hiroto si portò la mia mano alle labbra e la baciò con adorazione.
-Voglio vivere con te. E te lo prometterò ogni volta che vuoi- disse senza esitazioni. Risi piano, sentendomi un po’ timido, e stavolta non cercai di trattenere le lacrime. Hiroto si premette la mia mano contro la guancia e mi guardò negli occhi.
-Hai paura?- sussurrò. Annuii, poi gli poggiai anche l'altra mano sulla guancia.
Per qualche momento lo guardai e basta: volevo imprimere nella memoria ogni dettaglio di lui, esattamente com’era in quel momento. I suoi occhi verdi, velati di lacrime, sembravano acquerelli; mi sembrava che brillassero come stelle anche in pieno giorno. Stava di nuovo piangendo, ma era sempre bellissimo.
-Ho paura del futuro... di ciò che non conosco. Ma di una cosa sono certo… e solo tu puoi darmi questa certezza- sussurrai. -Tutti i sentimenti che provo in questo momento sono miei, solo miei… e sono tutti per te.
A quelle parole Hiroto non riuscì più a trattenersi; sporgendosi avanti, d’impulso, premette le labbra sulle mie. Il bacio fu breve, ma ricambiai con tutto me stesso, sperando di trasmettergli tutti i miei sentimenti. Grazie a lui, ora avevo un nuovo sogno. Volevo cambiare, diventare una persona capace di provare orgoglio per se stessa… soltanto così avrei potuto accettare me stesso. Quando ci staccammo, gli accarezzai le guance, guardandolo con tenerezza, poi lo strinsi di nuovo a me, ignorando per un momento il fatto che il nostro tempo insieme era agli sgoccioli. Al di sopra della sua spalla vidi il cielo azzurro, sempre più abbagliante, e d’un tratto fui colpito dal pensiero che, ovunque fossimo, il cielo sopra di noi sarebbe stato lo stesso. Almeno per il momento, quello ci sarebbe bastato.
 
 
Non piangere, abbi fiducia
Sicuramente diventerai forte
Ora è il momento di mentire
Dopotutto, per quanto sia doloroso,

Vivere stringendo i denti è il tuo modo di vivere


  
                                                                                              .
                                                                                                     .
                                                                                                            .
[1 anno dopo; Parigi]
 


Ero così nervoso che il corridoio sembrava infinito; in realtà, non potevamo aver fatto più di una decina di metri, ma la fatica appare mille volte maggiore quando il tuo cuore è pesante. Il signor Raimon era un uomo molto sensibile, e fin dal momento in cui era venuto a prendermi in camera per guidarmi a destinazione non aveva mai fatto commenti sul mio stato d’animo, anche se doveva essere palese.
-È qui dentro- la voce del signor Raimon, appena un sussurro, mi strappò ai pensieri.
Quando lo vidi fermarsi di fronte a una porta, mi irrigidii. Un attimo prima volevo solo che il tragitto si accorciasse, ora invece desideravo ritardare l’arrivo. Grazie al cielo, il signor Raimon non aprì subito la porta, anzi non fece alcun movimento del genere; rimase invece a guardarmi con amorevole pazienza, e capii che stava aspettando che io mi calmassi, mi stava concedendo altro tempo per prepararmi.
Inspirai profondamente e passai le dita sul bracciale inibitore, cercando di convincermi che sarebbe andato tutto bene.
-Sono pronto- dissi infine, senza sollevare lo sguardo. Solo allora, il signor Raimon aprì lentamente la porta.
Mi fece un cenno incoraggiante con il capo, mentre lui sarebbe rimasto fermo sull'uscio. Voleva che andassi da solo. Presi un altro respiro profondo ed entrai.
Nella stanza dominava il verde pastello: verdi infatti erano le pareti, le foglie delle piante poggiate sul tavolo, e la morbida moquette che rivestiva il pavimento. Verdi erano anche le tende di velo leggermente smosse dal vento, e i capelli della donna che stava davanti alla finestra, appoggiata al davanzale. I raggi del sole sembravano avvolgerla in un bozzolo di luce, ma per qualche motivo si abbracciava il petto con uno scialle, come se avesse freddo. Mi dava le spalle, gli occhi fissi sul grande ciliegio in fiore su cui la finestra affacciava; tra i grossi rami si intravedevano in lontananza frammenti della Tour Eiffel.
Appena i miei occhi si fermarono su di lei, il fiato mi si mozzò in gola. Per un momento la terra venne a mancarmi da sotto i piedi e nel panico mi aggrappai a un tavolino, facendo inavvertitamente tremare gli oggetti che c’erano poggiati sopra. Un posacenere rotolò giù dalla superficie del tavolo e cadde a terra.
Allarmata dal rumore, la donna sussultò, si girò di scatto, mi vide. I suoi occhi scuri si riempirono di lacrime e, mentre con una mano tremante si copriva la bocca, una singola parola le sfuggì dalle labbra.
-Ryuuji...?
Disorientato e sopraffatto dalla sua presenza, riuscii a stento a fare sì con la testa.
L’istante dopo lei si mosse, barcollando verso di me con le mani tese in avanti. Senza pensare più a niente, le andai incontro, come rispondendo a un richiamo. Quella voce mi chiamava da tanto, tanto tempo. E questa volta non c’era niente a separarci.
Le sue braccia mi avvolsero e in un istante tornai a quando ero bambino e lei mi cantava la ninnananna per guidarmi in un mondo dove i brutti sogni non avrebbero potuto raggiungermi. Da quel giorno in poi, avremmo potuto cantarla insieme. Le nostre mani si trovarono e si strinsero, decise a non lasciarsi mai più; e, ritornato tra le braccia di mia madre, finalmente riuscii a perdonarmi.





 

**Angolo dell’Autrice**
Ciao a tutti! Questo è l’ultimo capitolo, ma seguiranno 2 epiloghi. Incredibile ma vero, ce l’ho quasi fatta.
La canzone citata nel capitolo è LIAR degli SPYAIR, che amo immaginare come “Opening” se SpyEl. fosse un anime. All'inizio ero indecisa se metterla o meno, ma poi ho scoperto che è uscita nel 2010 e allora ho detto “Ok, no, devo metterla!”, perché il 2010 è anche l'anno in cui ho cominciato questa fic (e quello in cui è ambientata, più o meno, anche se nella fic non viene mai detto esplicitamente).
Penso che LIAR si adatti molto a Midorikawa. LIAR parla di qualcuno che vive a testa alta, restando sempre fedele ai propri principi sebbene il resto del mondo sia sempre pronto a mentire; in questo senso, piangere significa “mentire” perché mostrare debolezza è visto come un tradimento della strada scelta. Ma poi nell’ultima strofa la prospettiva cambia completamente! Mi piace moltissimo come conclusione. Alla fine le persone hanno bisogno di credere in un mondo migliore. Senza speranza, non esiste nemmeno il coraggio. Spero di essere riuscita a trasmettere questo messaggio con Spy Eleven ♥
Mi fa molto piacere quando scrivete nei commenti che questa fic vi ha aiutato in qualche modo ;u;  
A presto, con i migliori auguri per il futuro,
    Roby
 
   
 
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