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Autore: KaienPhantomhive    16/05/2021    0 recensioni
[NUOVA EDIZIONE - VERSO LA PUBBLICAZIONE
Dopo 7 anni di blocco dello scrittore, riprendo in mano finalmente questo progetto, con una revision e correzione integrale dei capitoli già pubblicati, oltre a proseguire la storia.
Indispensabili lettori e recensori, aiutatemi a trasportare questo sogno da EFP alle pagine di un libro!
Completa | Prosegue in: "EXARION - Parte II"]
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"Quando i Signori della Luna penetrarono per la prima volta il nostro cielo, ciò avvenne come un monito, portando con sé il Freddo Siderale. [...] E da quel giorno il Cielo fu d'Acciaio."
Anno 2050: dopo più di un secolo, l'Umanità imparerà ad affrontare nuovamente la sua più mortale nemesi; se stessa.
Zeitland, Natasha, Helena, Arya, Misha, Màrino, Aaron: qual'è il filo invisibile chiamato 'Exarion' che lega queste anime? Quale la vera natura e il segreto del contratto che li lega alle misteriose sWARd Machines, gigantesche entità bio-meccaniche dai poteri soprannaturali? Una storia di Amore e Odio, Ricordi e Desideri, conflitti, legami, alchemiche coincidenze e destini incrociati. La Storia dell'Amore Egoista e dell'ultima Guerra del Mondo.
Genere: Guerra, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'EXARION: Tales of the EgoSelfish sWARd Machine'
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13.

 

Oltre il dominio dei sensi

  

Nat arrancava alla cieca tra le rovine dei palazzi, un tempo delicati ed eleganti nelle loro tinte calde e ora ridotti ad un cumulo senza forma di cemento accatastato in mezzo alla strada. Talvolta risaltava qualche intarsio su blocchi di gesso che prima dovevano aver formato raffinati balconi e cornicioni.

Era strano indugiare in quella morta distruzione, illuminata solo dalle scintille che sprizzavano da lampioni sfondati, e vedere che più in lontananza i grattacieli del centro finanziario di Varsavia svettavano illuminati e intatti. Ogni passo trafiggeva i suoi tendini con aghi di dolore che le piegavano le gambe, ma l’istinto di autoconservazione la spronava a proseguire e a cercare un luogo dove nascondere il proprio corpo stanco e debole. Non c’era quasi anima viva nel giro di dieci isolati e quei pochi sguardi che incrociava nella penombra di un sottopassaggio semidistrutto si nascondevano in fretta, scomparendo in scantinati ancora integri.

Tutti gli altri esseri umani che aveva incontrato giacevano sotto tonnellate di massi spruzzati di rosso. Una fitta più acuta delle altre le fece mordere un labbro per non urlare e una lacrima le si gonfiò tra le ciglia; si costrinse a guardare verso il cielo ormai notturno e il rumore di aerei in lenta discesa – come avvoltoi sazi delle carcasse divorate – le diede il giusto incentivo per trovare un nascondiglio il più in fretta possibile.

Un negozio.

O un piccolo magazzino, un deposito di cassette di legno? Non avrebbe saputo dirlo, dato il penoso stato in cui versava. Era a una decina di metri da lei, in una traversa di un palazzo in mattoni dai muri crepati e dalle insegne sradicate. Mentre accelerava il passo pensò che fosse già un miracolo sufficiente che quel buco stesse ancora in piedi. Spinse la porta e si affrettò a immergersi nel buio di una stanzetta grigia e polverosa, occupata da colonne di scatole di legno macero e sacchi contenenti qualche strana sabbia scura e granulosa. Scelse l’angolo più a destra possibile, protetta tra una pila di scatolame e una parete sporca e rovinata. Si strinse le ginocchia ferite al petto e vi affondò il viso, con la mente e il cuore stravolto.

Mi sono nascosta. E ora? Li sento volare…e se mi trovano? Mi uccideranno. Ho paura di morire, non voglio morire. E anche se non mi trovano, come me ne vado? Sono lontanissima da casa e nemmeno mio padre mi può ritrovare. Non so come scappare, non so nemmeno perché quel rottame è scomparso nel nulla. Che cosa è successo? Miša…che cosa penserà di me? Dopo il disastro che ho combinato, dopo che ho mandato a monte tutta la missione…non sono stata capace di nulla. Mi odieranno tutti. Anche lui. E quelle persone; le persone che ho…che ho…

Iniziò un pianto sommesso, continuo e attutito come un pigolio lontano tra fronde di un albero, interrompendole perfino i pensieri.

E nel buio spezzato solo da una sudicia finestrella rimase in ascolto dello stridore di potenti motori che planavano tra i palazzi, avvicinandosi sempre più al terreno. Sempre più a lei.

 

*   *   *

 

Quattro ore dopo. Centro Strategico di Difesa Nazionale; Mosca.

 

Gli unici tre membri superstiti della squadra ‘Stella Rossa’ e i due piloti del Dollhouse attendevano in una silenziosa agitazione l’arrivo del Presidente, avendo già percorso su e giù almeno mezzo chilometro lungo lo stretto corridoio che collegava la Sala Centrale di Controllo Operativo allo stanzino privato per le riunioni classificate. Rientrati meno di mezz’ora prima, avevano già fatto rapporto al Generale – non che ci fosse poi molto da aggiungere – ma non c’era nemmeno stato tempo per redarguirli.

I piloti dell’hovercraft discutevano tra loro a voce appena percettibile, interrogandosi a turno sul perché o per come la Machine nera fosse scomparsa e ricomparsa in prossimità di Baksheevo. Il soldato alla guida di ‘Rosso-4’ poggiava con le spalle al muro e le braccia conserte, gli occhi persi sul grigio logoro del pavimento e ormai lucidi di lacrime soppresse: un’intera squadra spazzata via, i suoi compagni morti. Gente con cui aveva prestato servizio da parecchio tempo. Gente che non avrebbe più rivisto. Ivanovič non smetteva di camminare avanti e indietro, piano e regolare ma con ansia crescente. La nascondeva bene, certo, a questo era stato abituato. Avesse perso la calma davanti ai suoi sottoposti allora che fine avrebbe fatto il punto fermo degli ‘Stella Rossa’? Ma dentro di sé sapeva bene che quel contegno era inutile. Non c’era più nessun plotone a cui mostrarsi intransigente.

Soltanto Miša sedeva sulla seggiola di plastica a fianco di una magra pianticella da sala d’attesa; aveva i gomiti piantati sulle ginocchia e le bocca premuta contro il dorso della mano. La sua gamba destra non smetteva di agitarsi ed il tallone tambureggiava contro il pavimento a un ritmo quasi maniacale. Gli occhi erano persi in un punto vuoto, con la testa tutta da un’altra parte: Nat.

Nat, Nat, Nat.

Solo ed esclusivamente lei.

Continuamente, ossessivamente, come un martello penumatico che gli batteva in mezzo al cervello. Quelle iridi azzurre e quei capelli porporini si imponevano nei suoi pensieri in modo prepotente. A scatti la sensazione di adrenalina della battaglia e le intricate trame di fumo che aveva disegnato in cielo con i razzi del suo aereo gli spezzavano l’attenzione, pompandogli nuova eccitazione nelle vene, ma subito sparivano al suono delle esplosioni che ancora gli rimbombano nelle orecchie.

Un vero campo di battaglia, una vera guerra.

Non aveva mai preso parte prima d’allora a uno scontro, si era solo limitato a qualche esercitazione. Tutto sommato poteva perfino complimentarsi con sé stesso per l’incredibile prestazione offerta, al limite dello spettacolo coreografico.

No, per niente. Non c’era nulla di cui andare fieri.

I palazzi in fiamme, decine di persone morte, i suoi compagni morti. E poi Nataša e ancora lei. E il suo gigantesco robot che precipita e si dissolve nel nulla. Tutto era andato per il verso sbagliato: un fallimento su ogni fronte. E ora lei dov’era? Era viva? Stava bene? Il nemico l’avrebbe catturata? In questo caso sarebbe stato meglio che fosse morta prima, perché di certo quei diavoli in nero le avrebbero fatto scontare di essere sopravvissuta.

Forse sperava fosse morta.

No, ma come poteva anche solo pensare a una cosa simile? Stava impazzendo, lo stress gli stava friggendo i neuroni. Come mai avrebbe potuto pensare a una vita senza di lei, accettandone la scomparsa? Non poteva perdere la speranza che l’avrebbero ritrovata. Ma comunque ora non era lì e Novikov stava arrivando.

Edvard Novikov: il Presidente, la massima autorità su suolo russo. Il padre di Nataša. Con quale coraggio avrebbe trovato le parole per giustificare la sconfitta e la scomparsa di sua figlia? Provò a convincersi che lui era perfino troppo giovane per partecipare a una guerra, che la colpa era stata anche di quello sconsiderato del padre di Nat…ma non vi riuscì del tutto. Era un gran casino e proprio mentre iniziava a mettere in fila qualche fac-simile di scusa decente un suono di tacchi lo riportò alla realtà.

Era lui: a passi irrequieti Novikov stava attraversando il corridoio, diretto verso di loro.

Ivanovič eseguì senza nemmeno troppa cura il saluto marziale e si affrettò verso di lui: “Signore, sono mortificato ma siamo stati costretti a …”

“So già tutto, Ivanovič. Si risparmi le scuse.” – lo sorpassò privandolo perfino di un’occhiata, la voce durissima e distratta.

Oltrepassò Miša neanche fosse invisibile, diretto verso la saletta privata dalla porta blindata, ma il senso di colpa mosse i muscoli del ragazzo, che gli si fiondò alle spalle, costringendolo per un braccio a voltarsi.

“Mi dispiace!” – aveva il volto paonazzo di vergogna e rabbia verso di sé – “Mi dispiace davvero, io volevo…volevo aiutarla, sul serio, ma lei ha agito da sola e…e allora…”

“Lasciami immediatamente.” – una vibrazione di pura collera in un tono di voce apparentemente pacato fece rabbrividire il giovane a tal punto che la sua mano gli ricadde lungo il fianco.

“Io…” – boccheggiava come un pesce fuor d’acqua, senza riuscire ad articolare più di una sillaba – “…mi…”

Novikov perse le staffe e lo afferrò per il bavero del giaccone, inchiodandolo al muro: “Tu dovevi proteggerla! Una cosa ti avevo chiesto – una sola – e tu non l’hai fatta! Sarà meglio per te che lei stia bene!”

E lo rispinse indietro in modo brusco, sparendo subito dopo nella stanza di alta sicurezza.

 

Miša sentì gli zigomi andargli a fuoco e le lacrime che non riusciva a lasciare andare, continuando a mordergli la coscienza dall’interno. Si passò le mani tra i capelli e con una smorfia di nervi assestò un pugno contro la parete, finendo perfino per farsi male.

Si sentì un incapace mentre tutto il suo mondo iniziava a sgretolarsi sotto il peso dell’angoscia.

 

*   *   *

 

Contemporaneamente. Varsavia; Polonia.

 

La notte era ormai discesa, gelida e crepitante degli ultimi bracieri della battaglia, sulla città ferita. Infaticabili, dopo quasi quattro ore di costante ricerca, i soldati del Reich si attardavano ancora nello scalare tumuli di macerie e perlustrare palazzi semidistrutti, con in mente un solo obiettivo: il pilota della Divinità Metallica dall’armatura corvina. Non sapevano se fosse uomo o donna, giovane o meno, ma qualsiasi cosa che si fosse mossa nel loro campo visivo avrebbe costituito bersagli di cattura. Zeitland si fermò per un momento a riprendere fiato. Una nuvoletta di vapore si condensò al suo respiro e lo sguardo ricadde su un vicolo buio e umido, nascosto, che prima non aveva notato.

Una porticina da retrobottega socchiusa. I suoi sensi formicolarono. Avvisò i suoi sottoposti di continuare le ricerche nell’isolato, mentre lui avrebbe ispezionato altrove.

 

Sospinse l’uscio tenendo il braccio diritto, puntando la pistola verso il buio della stanza come il protocollo di difesa base imponeva.

Nell’oscurità del suo riparo, Nat era ancora là. Non aveva perso nemmeno per un istante il timore di essere scoperta e adesso che la porta era stata aperta capì che la sua vita sarebbe continuata ancora per poco. Un brivido le percorse la schiena e le venne quasi da urlare ma strinse la bocca con le mani.

Non farti sentire. Non farti sentire.

Quel posto era un buco, l’avrebbe trovata di certo. Era la fine. Sentì crescere la paura della morte sempre più vigorosamente, fin dentro le ossa, per quello che sarebbe presto accaduto. Sua madre, suo fratello, i suoi migliori amici, suo padre: non li avrebbe più rivisti, ormai ne era certa. Quell’orrenda giornata sarebbe stata l’ultima della sua vita, prima di andarsene per sempre con una pallottola in testa.

Lentissimi passi di stivali in pelle scricchiolarono sul pavimento.

Sarebbe stato doloroso? Forse, almeno, sarebbe stata una cosa rapida. Era quasi sul punto di smettere di preoccuparsi di rimanere nascosta e pensare solo al modo in cui se ne sarebbe andata dal mondo, ma una parte di lei ancora non si arrendeva. Doveva far silenzio.

Zeit avanzava con passo e mano ferma. I suoi occhi si stavano adattando all’oscurità, attento a ogni movimento. Non c’era alcun motivo particolare per indugiare tanto a lungo in quel posto ammuffito, ma qualcosa – un sussurro, una sensazione primitiva – gli stuzzicava i sensi e lo convinceva a ogni secondo di essere vicino a qualcosa di molto speciale. Cercò hi un interruttore ma le lampadine erano comunque fulminate.

Nat si strinse ancor più nelle ginocchia, provando a ridurre il suo corpo il più possibile dietro le scatole di legno marcio. Tremava in silenzio e si rese conto di non aver mai pregato tanto Dio in vita sua quanto in quegli istanti, quando qualcosa le solleticò il polpaccio. Guardò i trenta centimetri di gamba scoperta dai corti pantaloni militari e si accorse della presenza di una macchiolina scura che risaliva molto lentamente: un ragno; neppure molto grande, ma abbastanza da poter distinguere le ossute zampette che si tendevano dinoccolate. Se c’era qualcosa che la disgustava più della guerra e dei Nazisti erano i ragni: quelle orribili e inutili creaturine le facevano saltare tutti i nervi; tentò di reprimere un grido e sgrullò appena la gamba ma la bestiaccia non accennava a scendere e di toccarla a mani nude non se ne parlava. Era il colmo, c’era quasi del tragicomico in quella situazione.

I passi si erano fermati per un istante – forse il ‘qualcuno’ che non riusciva a vedere era in attesa – ma il ragno maledetto che stava iniziando a detestare era sempre più vicino al suo ginocchio.

Non ce la faceva più a trattenere il formicolio che le attraversava i tendini e lasciando da parte razionalità e buon senso distese con più vigore la gamba, scacciò via l’animale e urtò inavvertitamente le scatole al suo fianco.

Il rumore che provenne da destra fece sobbalzare Zeitland, cogliendolo di sorpresa, ma in una frazione di secondo la sua lucidità rispose con prontezza: si avvicinò in un solo passo alla colonna di cassette nell’angolo e l’aggirò, puntando l’arma verso il fagotto umano rannicchiato al suolo.

Stop!” – gridò verso Nat; la canna della sua pistola a mezzo metri dalla sua testa – “Stop oder ich schieße![1]

L’aveva trovata. Nat sollevò lo sguardo impietrito dalla paura e lanciò un gridolino, appiattendosi contro la parete.

Wer bist du?!” – l’uomo che aveva davanti continuava a gridare parole in Tedesco senza che lei riuscisse a capirne una sola – “Antworte! Schnell![2]

Tutta quell’accozzaglia confusa di suoni le venivano strillati contro senza comunicarle nulla e l’unica cosa che le venne in mente per farsi capire, per quanto suonasse stupida da dire in un momento simile, fu: “I don’t speak German!

Dal suo canto, Dietrich si rese conto che la ragazza che aveva davanti non avrebbe distinto una parola nemmeno se gliel’avesse ripetuta mille volte a rallentatore; piuttosto l’occhio gli cadde sugli indumenti in tessuto tecnico rinforzato e tra i caratteri in cirillico ricamati riconobbe i simboli dell’esercito russo. Una soldatessa, dunque. Quel viso…qualcosa di antico si rimescolò dentro Zeit, sorprendendolo: la ragazza di Baksheevo, la pilota della Macchina nera che lo aveva sconfitto. Il momentaneo stupore lasciò il posto alla rabbia e il Cavaliere Nero l’afferrò con rudezza per un braccio, parlando stavolta in un Russo perfetto: “In piedi!”

La tirò su di peso e la condusse al centro della stanza, lasciandola andare a sbattere contro la parete opposta. Lei l’urtò con la spalla, facendosi male, e ricadde a terra. Strascicò i piedi sul pavimento, scivolando, provando a comprimersi contro il muro. Trovò il coraggio per fissare in volto il suo carceriere e colui che vide fu un giovane che non arrivava ai trent’anni, dai lineamenti eleganti ma torvi: lo stesso viso che settimane prima le era apparso durante lo scontro contro il robot-drago scarlatto. Una piccolissima parte nel suo subconscio femminile riconobbe perfino un certo fascino in lui, ma il nero della sua divisa ornata dei vessilli del Reich e il simbolo sulla fascia che gli stringeva il braccio le ricordò subito che l’essere che aveva davanti era solo un altro fantasma del passato.

“Sei tu la pilota della Divinità Metallica?!” – l’ennesima domanda che suonava più come un ordine – “Rispondi! Ti manda la Russia, vero?! Come avete fatto a entrare in possesso di quell’Unità? Dove l’avete rinvenuta?!”

“I-io…io non lo so!” – balbettò nel panico, non sapendo nemmeno se scegliere tra il confessare la verità e sperare di essere risparmiata o morire in silenzio.

“Che diavolo dici?!” – le ringhiò lui, puntandole contro la pistola – “Come fai a non saperlo?! Sei tu la Meister, giusto? Come puoi non saperlo?!”

Meister…?” – quella parola non le diceva nulla.

Meister, esatto: la pilota di una sWARd Machine, una Divinità Metallica. E ora dimmi dov’era il suo Anbar Atanor! E come fai a sviluppare tutto quel VRIL?!”

“VRIL, Anbar Atanor…” – Nat portò le mani alle orecchie, tutta in un tremito – “…io non capisco una sola parola che dici! Non so nulla, a me non dicono mai nulla!”

“Ti avverto, la mia pazienza ha un limite.” – Zeit si inumidì le labbra mentre la voglia crescente di premere il grilletto lo assaliva – “Non prendermi per idiota e vedi di rispondermi.”

“Ti ho detto che di tutto questo non so nulla!” – strillò lei sul ciglio di una crisi isterica.

Bang.

Un colpo di pistola partì in linea retta, le sfiorò di due millimetri la tempia e si conficcò nella parete. Lei si azzittì di colpo con la bocca contratta dallo spavento; con la coda dell’occhio poteva vedere il foro del proiettile.

“La prossima volta non sbaglierò.” – disse freddamente lui.

Caricò il cane della pistola con il pollice, stingendola saldamente: “Non importa se non parli. Se ti ammazzo ora toglierò di mezzo l’ostacolo più grande del Reich. In ogni caso avrò completato la missione e tutta la guerra potrebbe anche considerarsi chiusa.”

Un bel riscatto, dopo la sua sconfitta. L’idea gli piaceva non poco.

Era chiaro che a quel tizio non importava nulla della vita di Nataša e lei lo sapeva; gli importava solo delle informazioni che poteva offrirgli e in ogni caso l’avrebbe fatta fuori, a prescindere dalle sue risposte. Ma lei – davvero – non ne sapeva nulla.

Si sentì improvvisamente stanca e affranta: non voleva morire ma non escludeva la possibilità; non avrebbe mai tradito il suo Paese ma anche volendo non aveva una risposta per nessuno di quegli interrogativi. Qualsiasi cosa avrebbe fatto sarebbe stata una mossa falsa e non c’era nulla che potesse fare per uscire da quella situazione. Tutto quello le riuscì fu un supplichevole:

“Ti prego, non uccidermi.”

Zeitland rimase interdetto per un istante. Qualcosa in quella ragazza gli impediva di porre fine in fretta alla faccenda, ma la metà raziocinante del suo cervello la riconosceva solo come un nemico: “Dammi un solo motivo per non farlo.”

Che motivo poteva dare? Se i ruoli si fossero invertiti, forse perfino lei avrebbe premuto il grilletto.

“Non voglio morire…”

Zeitland avvampò: non voleva morire? Che razza di stupido motivo. Dopotutto chiunque muore, presto o tardi, e in guerra si dovrebbe darlo per assunto. Come se tutti quelli che aveva ucciso avessero gradito il regalo…chi credeva di essere lei? Perché proprio lei avrebbe dovuto meritare la sua pietà?

La sollevò con forza e le premette un braccio sulla gola, comprimendole la trachea; le puntò la pistola all’altezza dello sterno e le sibilò carico di disprezzo: “Tu mi hai umiliato. Tu – insulsa ragazzina sovietica – hai osato mettermi in ridicolo. Dovrei ammazzarti in questo istante.”

Lei provò a divincolarsi, mentre le lacrime le rigavano il volto; la voce le uscì spezzata e soffocata: “Per favore…mi dispiace.”

Quella parola si conficcò nello stomaco del ragazzo come una lama.

Dispiacere: lo si prova quando ci si sente colpevoli. In guerra non si dovrebbero avere rimpianti, pensò. Un nemico, poi. Compiangere un avversario non ha senso. Forse non lo sapeva nemmeno lei perché lo avesse detto. In verità, le dispiaceva di tutto: per non essere più forte, per non poter proteggere coloro che amava, per aver combinato solo danni; le dispiaceva per i suoi familiari, per Miša, per i cittadini di Varsavia. Forse perfino per quell’uomo crudele da cui ora dipendeva la sua vita: a lei non fregava nulla della guerra, né tantomeno di essere una Meister migliore di lui e se questo lo infastidiva avrebbe dovuto sapere che ci era stata obbligata, a combattere.

Lui allentò la presa e lei scivolò lungo il muro, sedendosi ancora.

Lui si piegò sulle ginocchia, per squadrarla meglio. Si guardarono.

Non la ricordava tanto bella: così fragile ed esile; pura nel suo sguardo distrutto dalla paura, una paura che accomuna ogni essere vivente. Talmente effimera e ammantata di sofferenza da ricordare una rosa. Una rosa rossa, una cosa bella che chiunque può uccidere, schiacciandola nel proprio pugno. Forse anche per quello – sapere che la sua vita era ora merce di sua disposizione – che Zeitland si sentiva così frastornato, contrariato e insieme interessato. Gli parve quasi di sentire la voce del dottor Schulz che gli chiedeva delle sue pulsioni fisiche durante le visite periodiche; ebbe per un momento la sensazione che gli occhi del Kaiser, o di Albrecht o forse di Helena (o magari di tutti quanti insieme) lo fissassero e lo giudicassero, in parte annuendo e in parte ghignando malignamente.

Nat ansimava piano, senza il coraggio di guardarlo negli occhi, in cui ora le tracce d’odio sembravano sfumare in una profonda solitudine. Quel viso, quelle mani…cose che le pareva di conoscere da un lungo tempo, come una giostra che su cui si andava da bambini e che ora arrugginisce sperduta.

Un impulso contradditorio, incomprensibile e silente li mosse entrambi. Una tensione reciproca, come centri di gravità in avvicinamento.

Lui poteva sentire il suo odore di femmina; lei il suo alito caldo che iniziava a lambirle il collo. Cosa fare? Concedersi? Svendersi come merce, nella speranza di assopire gli spiriti omicidi di un uomo, soddisfano i più bassi desideri di un maschio?

La pistola cadde a terra e delle mani sfiorarono i fianchi; le gote ora vicine; le fronti corrugate.

Perché? Perché, infine, le loro labbra premute l’una sull’altra, come un bocciolo che si richiude per paura di nascere?

Una breve colluttazione – Nat provò a rifiutare quell’assalto – conclusasi molto in fretta.

E nel flusso del sangue che faceva pulsare i cuori l’irrefrenabile e inconsapevole libido mandò direttamente in blackout le menti.

 

Le mura della stanza sembrano disintegrarsi nell’orizzonte senza limite dell’Universo, il pavimento diviene fluttuante liquido nero, il mondo intero si capovolge nello specchio del Creato, affondando nel suo negativo. I corpi perdono i loro vincoli, abbandonandosi a una caduta senza dimensioni tra gli scintillii di stelle lontane anni-luce, e i pensieri risuonano confusi, sospesi.

Questa sensazione. Cos’è questa sensazione?

Il mio cuore che vibra, la mia mente che cede: cosa sarà?

Un calore che unisce, vuoto che diventa luce. Paura, senso di colpa, gioia effimera: piacere.

Le loro membra bianche come spettri contro le tenebre dello Spazio, un abbraccio leggero come piume in caduta libera.

Un bacio. Braccia che si incontrano: una cosa piacevole, una cosa che da conforto.

No, non è conforto. È un piacere diverso.

Un piacere diverso, un piacere sbagliato. Perché non riesco a smettere?

Dovrei smettere. Smettere di provare piacere.

Le loro ombre bianche si liquefanno come latte, come linfa vitale, e colano a precipizio negli abissi del nulla, intrecciandosi in bellissimi nastri.

Due corpi che si uniscono fino a fondersi in uno.

Il corpo di un uomo, il corpo di una donna: cose create da altri uomini, cose che si disfano nel tempo.

Si solidificano in un uovo bianco che si gonfia e poi s’incrina, esplodendo in una nebulosa cosmica.

Il tempo si disfa in altro tempo, come l’amore muore nel piacere.

Ormai sono solo voci senza corpo, due pulsazioni alate di luce che danzano senza coscienza tra le ciclopiche galassie diamantine che emergono da differenti linee temporali.

Svenimento, ricordi confusi, inebriante senso di vertigine.

Una sensazione prima dei Tempi: è come esistere da sempre, senza essere mai nati.

Eterni: è come essere e insieme non essere. È come uno spirito senza involucro.

Soltanto un’idea, come un ricordo.

A mala pena riescono a distinguere le proprie voci, mentre precipitano verso il cuore radioso di una Via Lattea che va tingendosi di scarlatto, come un fiore intriso di sangue.

Un ricordo impossibile da ricordare, che qualcuno ha annebbiato ma che è ancora lì.

Qualcuno…qualcosa che non si riesce a portare alla memoria, che soggiace tra le pieghe del tempo, in attesa. È forse di quel ‘qualcuno’ la sconfinata iride rossa che ora forma la galassia? Sono forse sue le colossali mani ricoperte di affilate lamine di metallo che emergono dalle nebulose, chiudendosi lentamente su di loro?

Ricordare…che cos’è…che devo ricordare?

 

Tutto finì.

La mente di Nataša ci impiegò qualche lunghissimo secondo per tornare alla lucidità. Non sentiva più su di sé il peso di quell’uomo e le sue labbra erano ora libere da quel gesto che doveva essere durato pochi istanti, ma che sembrava averla privata di qualche anno della sua vita. Ora lui era in piedi, accanto alla porta dalla quale era entrato, intento a riabbottonarsi la giacca della divisa.

Qualcosa era riuscita ad attivare un interruttore ben nascosto nel lato conscio di Zeitland, riportandolo alla realtà appena in tempo per fermarsi. Che diavolo gli era passato per la testa? Ora come si sentiva talmente rivoltato e disarmato che perfino l’idea di afferrare la pistola e finire il lavoro iniziato gli parve inattuabile.

Inghiottì un groppo e parlò con quanto più controllo possibile:

“Considera il fatto che tu sia ancora viva come una possibilità che ti ho concesso. Ora potrai tornare a casa e avvertire il tuo Paese che il Reich vincerà in ogni caso e che sarà meglio per voi firmare un armistizio il prima possibile.”

Fece un passo e oltre l’uscio.

Era buio e freddo e una pioggia leggera iniziava a ricoprire Varsavia. Si voltò appena, perché qualcosa in lui non voleva ancora abbandonare quel luogo: “Io sono lo Schwartz Ritter del Reich Lunare e il Meister della sWARd MachineFafner’. Il mio nome è Zeitland Dietrich. Tienilo a mente.”

E se ne andò.

Nat rimase lì dov’era; il suo corpo esausto non le concedeva nemmeno forza per rimettere a posto le idee, lasciandola con una scatola vuota al posto della testa. Era viva perché l’uomo che fino a pochi minuti prima voleva spararle un colpo in fronte l’aveva risparmiata. L’aveva baciato. Non era nemmeno sicura fino a che punto il delirio onirico di cui era stata preda avesse camuffato la realtà, ma per adesso era certa solo di questi due fatti. Restò in silenzio, in solitudine. In quella situazione, mai si sarebbe interrogata sull’utilità di quella piastrina incollata proprio sotto il risvolto del colletto, sotto la quale un chip sottile come un filo d’erba continuava a registrare…

 

*   *   *

 

Contemporaneamente. Luogo ignoto.

 

Un minuscolo puntino rosso pulsava sulla mappa olografica sospesa al centro dell’austera stanza, indicando un quartiere di Varsavia, in Polonia. Dalle casse acustiche sulle pareti proveniva il suono ritmico di un respiro di giovane donna.

“Il secondo Contatto è avvenuto, confratelli.” – una voce maschile provenne da sotto uno dei cappucci neri che riuniti in quella stanza.

 

Una congrega di dodici mantelle di velluto nero sedeva a un lungo tavolo di noce che percorreva il perimetro della stanza. Dita coperte da seta bianca stavano intrecciate davanti a pettorine decorate con soli e occhi, mentre maschere dorate senza lineamenti e cappucci appuntiti coprivano volti sconosciuti. A guardarli meglio, alcuni di loro – che sedevano dentro delle celle in vetro – apparivano eterei, translucidi. Ologrammi anch’essi e le poltrone che li ospitavano. Al centro del pavimento in marmo campeggiava un grande mosaico di tessere nere e oro: tre cerchi concentrici attraversati da dodici linee spezzate, come raggi stilizzati di un Sole. Lo stesso simbolo che era ripetuto sulle pesanti collane dorate che portavano al collo, sui loro anelli e sui due contraltari ai lati opposti della sala. Sul soffitto affrescato con indescrivibili intuizioni cosmiche e celestiali, un grande Cristo crocifisso era appeso prono, senza testa.

 

“Proprio come previsto dai Registri di Paracelso!” – esclamò una delle figure presente solo in forma di ologramma, in un Inglese da madrelingua.

“Cosa accadrà ora?” – chiese qualcun altro; anche se il suo viso era coperto, un’inconfondibile nota di timore tinse la sua voce.

“È il punto di non ritorno.” – aggiunse un uomo dall’accento dell’Europa dell’est, forse russo – “L’Effetto di Accumulazione, la sacra legge che guida il destino dell’universo, renderà i loro ricordi sempre più vividi finché per non potranno sottrarsi a quanto stabilito.”

“Che il VRIL ci conduca verso il nuovo mondo!” – fu il motto unisono dei presenti.

L’uomo dall’accento russo fissò ancora il localizzatore sulla mappa mentre il respiro registrato di Natasha Novikov aleggiava nella stanza. La immaginò stanca e sola sul pavimento sporco del deposito, dopo essere stata stretta in una morsa di passione con un Nazista. Per qualche motivo quel pensiero gli risultò detestabile e pensò che se qualcuno avesse saputo della disponibilità con cui la ragazza si era concessa al nemico nemmeno un miracolo avrebbe potuto salvarla dalla Corte Marziale. Ma, nonostante ciò, non poté fare a meno di pensare: Tutto come nei piani.

Strinse un pugno e l’anello dorato luccicò sul suo anulare.

 

[1] Traduzione: “Ferma! Ferma o sparo!”

[2] “Chi sei?! Rispondi! Svelta!”

   
 
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