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Autore: Kim WinterNight    18/05/2021    1 recensioni
Mike, mentre si trova in studio di registrazione con i Mr. Bungle, riceve una telefonata che lo sconvolge completamente.
Per fortuna non dovrà affrontare da solo il lungo momento di panico che lo aspetta.
DAL TESTO:
E se muore?
E se muoiono tutti? [...]
E se lo perdessi? [...]
E se fosse già morto? [...]
E se una costola rotta gli avesse perforato qualche organo interno?
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Bill Gould, Mike Bordin, Mike Patton, Roddy Bottum
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I cannot separate from this anxiety






Sono in studio insieme ai ragazzi dei Mr. Bungle, quando il monumentale telefono cellulare che ho da poco acquistato squilla.
Non lo uso spesso, però è comodo perché mi permette di comunicare con i miei colleghi e collaboratori anche quando non sono in casa.
Ho dato il numero a pochi amici fidati, quindi rispondo senza pormi troppi problemi, approfittando della breve pausa che ci siamo presi tra una sessione di registrazione e l’altra.
Premo il pulsante per avviare la chiamata e mi porto l’ingombrante oggetto all’orecchio. «Patton» rispondo.
«Sono Bill. Dove sei?»
Aggrotto la fronte: sembra leggermente allarmato, ma non vorrei fraintendere, così mi limito a sbuffare. «In studio con i Bungle, lo sai.»
«È successo un casino.» La sua voce si incrina, ora ne sono sicuro.
Sento il cuore perdere un battito. «Che casino?» chiedo.
Trevor, appena rientrato nella stanza, intercetta il mio sguardo e rimane a osservarmi con espressione perplessa.
«Roddy. Mike, stiamo andando al pronto soccorso.»
«A far che?» domando, non trovando altre parole da pronunciare.
Trevor mi si accosta leggermente e mi posa una mano sulla spalla, continuando a fissarmi interrogativo.
Non ascolto neanche la replica di Bill e lo interrompo bruscamente: «Dove?»
«Eh?»
«In che cazzo di ospedale state andando?»
Il bassista sospira pesantemente prima di comunicarmi la destinazione.
«Ci vediamo lì» concludo, chiudendo con foga la telefonata.
Mi lascio cadere sul divanetto poco distante e mi prendo la testa tra le mani, cercando di respirare il più lentamente possibile. Eppure il cuore batte all’impazzata, la stanza gira tutta attorno a me e il mio corpo è improvvisamente debole e intorpidito.
Che cazzo mi sta succedendo?
Non so nemmeno cos’è capitato a Roddy, avrei dovuto ascoltare meglio le parole di Bill. Frugo nella mia mente alla ricerca di qualche ricordo, di una parola chiave, ma l’unica che rimbomba nel mio cervello è casino.
«Mike? Ci sei, amico?»
La voce di Trevor mi riporta alla realtà e mi ricordo che è insieme a me. Si è avvicinato e tiene ancora una mano sulla mia spalla; si china a osservarmi e posso notare tutta l’apprensione e la preoccupazione dipingersi sul suo viso dai tratti dolci.
«Sei pallido. Che succede?» chiede.
«È successo un casino» farfuglio.
«Questo lo avevo intuito. A chi?»
«Non lo so. Mi ha chiamato Bill, ha nominato Roddy, poi non ho più ascoltato.»
Trevor sospira e si siede vicino a me, circondandomi le spalle con un braccio. «Adesso cerchiamo di ragionare.»
«Stanno andando al pronto soccorso…»
«Okay, okay, vediamo…» Il mio amico si agita appena, passandosi una mano tra le ciocche mosse. Poi indica il cellulare che ancora stringo in mano. «Me lo presti?»
«A che ti serve?»
«Richiamo Bill e ci parlo. Mi faccio spiegare meglio» afferma.
Gli porgo l’oggetto e inclino il capo all’indietro, socchiudendo gli occhi e tentando di regolarizzare invano il respiro. Forse ho un attacco di panico, forse l’ansia mi sta stordendo, ma non so neanche io come mai sto così di merda.
Ascolto distrattamente Trevor parlare con Bill, ma drizzo le orecchie poco dopo.
«Come sarebbe a dire lo hanno ammazzato di botte?» esplode. «Ma che pezzi di merda!»
Non ho neanche il coraggio di chiedere a chi si riferiscono, anche perché un’orribile sensazione si sta facendo sempre più largo dentro me e sto tentando in tutti i modi di soffocarla per non soffocare io stesso nell’angoscia.
«È ridotto male?» prosegue Trevor. Poco dopo lo vedo annuire e aggrottare la fronte. «Capito. Mike è in panico, credo. Senti, forse è meglio se lo accompagno a casa…»
«Non dire stronzate!» sbotto con rabbia.
Lui si volta a fissarmi, palesemente in apprensione nei miei confronti. «Credimi, sarebbe meglio così» mi suggerisce.
«Non esiste.» Quelle due parole escono fredde, categoriche, affilate dalle mie labbra.
E Trevor se ne accorge, mi conosce troppo bene. «Bill, stiamo arrivando» conclude, poi mi restituisce il cellulare e si alza. «Prendi le tue cose, io vado ad avvisare gli altri.»
«Tu non resti qui?» lo apostrofo.
«Non ti lascio solo» afferma con ovvietà.
Esce dalla stanza prima che possa ringraziarlo, ma con Trevor non servono parole. Io e lui ci capiamo con un solo sguardo, a volte anche con la forza del pensiero, per quanto possa suonare strano e bizzarro.
Mi tiro in piedi a fatica e vengo colto da un capogiro. Avrei decisamente bisogno di un caffè per calmare i nervi, ma dovrò aspettare di arrivare in ospedale.


Seduto dal lato del passeggero, guardo fuori dal finestrino e non riesco a calmare il battito del cuore.
Trevor guida il suo pick-up e non fa che imprecare contro qualunque automobilista rincoglionito intralci la sua avanzata; il mio amico è un tipo tendenzialmente calmo, ma quando è al volante si trasforma letteralmente in un camionista incazzato.
In genere mi diverto a stare in auto con lui, mi fa morire dal ridere, ma stavolta sono distratto da qualcos’altro.
Ci sono emozioni dentro me che non riesco a categorizzare e questo mi fa totalmente impazzire. Non sono uno che soffre d’ansia, anche se mi fa innervosire non avere sempre la situazione sotto controllo; ora invece sto malissimo, mi sento a disagio e non faccio che agitarmi e sobbalzare per ogni minimo rumore improvviso.
So che Trevor mi tiene d’occhio nonostante sia concentrato sulla strada, penso sia molto preoccupato per me; a volte è fin troppo apprensivo, ma non gliene posso fare una colpa: lui è fatto così e io lo accetto, proprio come lui accetta me in ogni caso.
Non so neanche a cosa sto pensando, dove va la mia mente. Mi sento vuoto e pieno allo stesso tempo, è una sensazione bruttissima.
Morirà?
Rimarrà ferito gravemente?
Starà bene?
Frasi sconnesse si susseguono e mi trapanano il cervello, lo soffocano e lo rendono inservibile.
Mi scoppia la testa, ecco qual è il problema. Mi premo le mani sulle tempie e il respiro accelera di nuovo.
«Levati dal cazzo, idiota! Perché non guidi quella fottuta auto anziché guardare il cellulare, stronzo?!» esplode Trevor, attaccandosi al clacson e sorpassando con uno scatto un’auto bianca.
La sua voce è fin troppo alta, mi dà più fastidio di quanto vorrei. Eppure non riesco neanche a dirglielo, ho la gola serrata e comincio a sudare freddo.
E se muore?
E se muoiono tutti?
Mi lascio sfuggire un rantolo e appoggio la fronte al finestrino, sentendomi un pochino meglio al contatto con il vetro freddo. Inspiro ed espiro forte un paio di volte, massaggiandomi il collo teso.
«Siamo quasi arrivati» annuncia il mio amico. «Se questo pezzo di merda si dà una mossa! Ehi, bello, non è una processione!» sbraita.
Mi sfugge perfino un sorriso, non ci capisco più niente.
Ho decisamente bisogno di un caffè. Questa potrebbe anche essere una crisi d’astinenza, non lo nego: so di consumare tanta caffeina e non intendo neanche darci un taglio.
È uno dei pochi vizi che ho e me lo tengo stretto. È così e basta.
Eppure c’è qualcos’altro che mi infastidisce, mi assilla, mi tormenta.
Roddy. Roddy. Roddy.
Improvvisamente il nome del tastierista riecheggia nella mia mente.
E se lo perdessi?
Considerando il fatto che stiamo nella stessa band da più di sei anni, non saprei come fare. I Faith No More hanno già cambiato il chitarrista una volta e il cantante in più occasioni, non può succedere che anche il tastierista se ne vada.
E perché poi? Per una stupida rissa?
Non morirà.
Non se ne andrà.
Non mi lascerà.
Sbatto le palpebre e vorrei sbattere la testa contro il finestrino fino a spaccarmela. Che razza di pensieri sto formulando?
Lui è un collega come tutti gli altri.
Se non facesse più parte della band, potremmo rimpiazzarlo come abbiamo fatto con Jim. Non sarebbe un problema, ce la caveremmo in ogni caso.
I Faith No More non hanno mai avuto difficoltà ad adattarsi a nuovi musicisti: io sono solo uno dei tanti cantanti che ci sono stati e che ci saranno, Jim è stato solo uno dei tanti chitarristi, quindi Roddy potrebbe essere uno degli infiniti tastieristi.
Tutti siamo utili, nessuno è indispensabile.
Chi cazzo ci crede?
Io ci credo. Devo crederci perché è così.
A malapena mi accorgo che l’auto si è fermata, mi riscuoto soltanto quando Trevor mi sfiora la spalla per attirare la mia attenzione.
«Eh?»
«Vuoi scendere o no?» mi interroga il mio amico.
Annuisco e mi catapulto fuori dall’abitacolo, inspirando a fondo l’aria frizzante. Non so che ore sono, ma probabilmente la mezzanotte è passata da un pezzo, visto il silenzio quasi completo che ci avvolge. I motori delle auto sono lontani, solo qualche clacson si fa sentire e sfuma nei meandri di San Francisco.
E io sono più agitato di prima.
«Trev, ho bisogno di un caffè.»


Mentre sorseggio la pessima brodaglia a base di caffeina che ho appena estratto dal distributore automatico, Trevor prende la parola.
«Bill ha detto di salire in ortopedia» mi informa, restituendomi il cellulare dopo aver nuovamente telefonato al bassista dei Faith No More.
Annuisco e continuo a bere. Questa roba fa schifo, è vero, ma l’effetto della caffeina è praticamente immediato e mi dona un minimo di conforto. Eppure non mi rilassa del tutto, stavolta è diverso.
Ci dirigiamo verso l’ascensore e io non so se riuscirò ad affrontare il viaggio chiuso in quella cabina claustrofobica, viste le mie condizioni attuali.
«E se prendessimo le scale?» propongo.
«Ortopedia è all’undicesimo piano. Hai voglia di fare ginnastica alle due del mattino?» replica scettico, schiacciando il pulsante di chiamata.
Evito di commentare e tento di concentrarmi: devo soltanto entrare nel box, aspettare un minuto al massimo e poi sarò nuovamente libero. Non ho mai sofferto di claustrofobia e gli ascensori non mi hanno mai dato problemi, perché cazzo adesso mi spaventa così tanto metterci piede?
E se rimanessimo bloccati là dentro e nel frattempo Roddy morisse?
Quel pensiero mi schiaffeggia con prepotenza e il bicchiere in polistirolo mi scivola di mano, schiantandosi a terra. Lo osservo come se lo vedessi per la prima volta e scuoto il capo.
«Tanto era vuoto» borbotto. «E faceva pure cagare, ‘fanculo.»
«Andiamo» mi incoraggia Trevor, precedendomi all’interno della cabina metallica non appena le porte scorrevoli si aprono.
Lo seguo e mi appoggio con la schiena a una delle pareti, infilando le mani in tasca per placarne il tremore.
Mi sento un totale idiota, sono sempre più confuso e riesco a malapena a reggermi in piedi. Non è decisamente da me.
Il mio amico mi osserva con la coda dell’occhio, forse teme che io possa reagire in malo modo se mi fissasse insistentemente.
«Quando arriviamo?» sbotto all’improvviso.
«Un attimo e ci siamo» mi rassicura Trevor, rivolgendomi un breve sorriso. «Sei agitatissimo. Rilassati un po’.»
«Ci sto provando.»
«Sono sicuro che andrà tutto bene e che non è successo niente di grave.»
Annuisco, anche se non ne sono per niente convinto. Più il tempo passa, più gli scenari all’interno della mia mente si fanno apocalittici e sanguinari.
Non appena le porte si spalancano, mi butto letteralmente all’esterno e tiro un enorme sospiro di sollievo. «Stavo soffocando, cazzo» bofonchio.
«Da questa parte, vieni.» Trevor mi tocca appena il braccio e mi fa strada lungo il corridoio.
Lo seguo senza neanche guardarmi attorno, sono talmente agitato che vorrei mettermi a correre, a urlare e a fare il pazzo come faccio sempre sul palco.
Anche se l’ospedale non è il luogo adatto.
Anche se non servirebbe a un cazzo.
Anche se mi butterebbero fuori a calci e non potrei vedere come sta.
E se fosse già morto?
Ancora un numero di passi indefinito e mi ritrovo faccia a faccia con Puffy.
Ci fissiamo in silenzio: lui è stravolto, io devo avere più o meno lo stesso aspetto.
Bill prende Trevor da parte e si allontanano di qualche metro per confabulare tra loro. Discorsi da bassisti, probabilmente.
«Vieni, sediamoci» dice Puffy con un filo di voce.
Ci sistemiamo su un paio di sedie addossate alla parete del corridoio bianco e silenzioso, ma io non riesco a rilassarmi e rimango rigido sul posto: spalle tese, busto eretto, occhi spalancati e fissi di fronte a me.
«Hai un aspetto orribile. Forse non saresti dovuto venire.»
Scuoto piano la testa. «Voglio sapere.»
Il batterista sospira e prende uno dei suoi dreadlocks tra le dita, tormentandolo mentre si schiarisce la gola. «Siamo usciti. Io, Roddy e Billy, come ai vecchi tempi. Roddy ha insistito per andare in un locale, non so neanche perché ci tenesse tanto. Insomma, ci siamo andati e a un certo punto un tizio ha attaccato bottone. Lui e Roddy hanno cominciato a discutere e poi se le sono date di brutto.»
Deglutisco, ma ho la gola talmente secca che risulta quasi doloroso.
«Il tipo era grosso e stronzo. L’ha pestato e i suoi amici hanno tenuto occupati noi. Non so neanche perché, non ho capito niente!»
«Non c’era qualcuno della sicurezza?» chiedo in un rantolo.
«Secondo me erano tutti d’accordo. Non so come, ma siamo riusciti ad andarcene. L’hanno quasi ammazzato, Mike.» Puffy sospira pesantemente e si passa le mani sul viso. «Porca puttana!»
«Come sta?» domando in tono piatto.
«Non lo so. Lo stanno medicando, ha pure perso sangue da qualche parte. Forse ha qualcosa di rotto… lo sa Bill, ha parlato con i medici.» Ormai la sua voce è sempre più incrinata e la disperazione la fa da padrona.
È davvero strano vederlo tanto provato, ma allo stesso tempo non lo è: posso capirlo perfettamente.
«Quindi è vivo.» La mia non è una domanda, ma una constatazione – ho troppa paura di porlo come un interrogativo.
«Certo che è vivo!» salta su Puffy. «Ha rischiato grosso, ma è vivo, cazzo.»
«Okay.»
E se morisse per qualche complicazione?
E se una costola rotta gli avesse perforato qualche organo interno?
Scuoto la testa e mi copro la faccia con le mani. Sto decisamente esagerando, devo darmi una calmata. La verità è che sono completamente terrorizzato e ancora non riesco a credere che sia andato tutto bene.
Mi alzo e, barcollando appena, faccio qualche passo fino a raggiungere Bill e Trevor.
«Patton» mi saluta il primo, dandomi una pacca sulla spalla.
«Ve l’hanno fatto vedere?»
Bill scuote il capo. «Col cazzo. Gliel’ho chiesto un paio di volte, ma niente da fare.»
«Cosa volevano quei tizi da lui?» Infilo le mani nelle tasche dei pantaloni e ostento una tranquillità che non mi appartiene affatto.
«Hanno saputo che è gay, qualcosa del genere. E lo sai com’è Roddy: non sa tenere la bocca chiusa. Non lo sto criticando, cazzo, sono così anch’io.»
«Siete tutti così nei Faith No More» interviene Trevor in tono ironico.
«Tranne me» commenta Puffy, il quale nel frattempo si è accostato a sua volta a noi.
«Non vantarti troppo, anche tu hai i tuoi momenti» lo rimbecca Bill.
«Chi se ne fotte? Quindi hanno saputo che gli piace il cazzo, e allora? Qual è il problema? Mica la gente va da loro a disturbarli perché gli piace la figa» sbotto indignato.
«Certo, ma se ti piace quella è normale, almeno secondo loro» fa notare Bill.
«Okay, quindi le ha prese.»
«E le ha anche date, non preoccuparti. Ha provato a difendersi, ma l’altro era un armadio a quattro ante. Però se la caverà» mi rassicura ancora il bassista.
In questo momento Bill sembra il più tranquillo fra noi, anche se so perfettamente che è ancora più bravo di me a ostentare sicurezza e calma.
Annuisco e torno a sedermi, cercando in tutti i modi di rilassarmi.
Eppure so che non starò tranquillo finché non vedrò con i miei occhi che Roddy è vivo.
Non mi lascerà.


Non appena un uomo sulla trentina in camice bianco si avvicina a noi, balzo in piedi e gli vado incontro senza esitare neanche per un istante.
«Lei sa dirmi qualcosa su Roddy Bottum?» chiedo. La mia voce risulta isterica, anche se ho provato a calibrarla.
Il dottore mi scruta con i suoi occhi verde smeraldo e fa un passo indietro. «Si calmi. Lei chi è?»
«Scusi, però…»
Sento la mano di qualcuno posarsi sulla mia schiena e intravedo Bill con la coda dell’occhio. «Dottore, lui è un carissimo amico di Roddy. È molto preoccupato, proprio come tutti noi.»
Serro le labbra ed evito di mollare un pugno al bassista: detesto chi risponde al mio posto e chi mi tratta come fossi un cazzo di ritardato, ma non è proprio il momento di perdere il controllo.
«Capisco. Sta bene, lo terremo sotto osservazione per un paio di giorni per assicurarci che le costole fratturate non abbiano lesionato qualche organo. Siamo certi di no, dalle ecografie sembra tutto a posto, ma è meglio averne la conferma.»
«Voglio vederlo» affermo con determinazione.
«Possiamo?» aggiunge Bill.
«Sta riposando, gli abbiamo somministrato qualcosa per aiutarlo a rilassarsi e per sentire meno dolore mentre lo medicavamo» spiega il medico. «Però, vedete… dovreste denunciare chi l’ha ridotto così. Potrebbe non fermarsi a una singola aggressione.»
«Ho detto che voglio vederlo» ripeto, ignorando completamente le sue parole.
Lui affila lo sguardo e indurisce i lineamenti spigolosi del volto. «Signore, la invito a calmarsi, altrimenti non le permetterò di avvicinarsi al paziente.»
«Lei non…»
«Patton» mi ammonisce Bill con un ringhio basso.
Faccio per voltarmi nella sua direzione e prenderlo a cazzotti, ma proprio in quel momento un’altra voce attira la mia attenzione.
«Mike, amico.»
È Trevor. Si avvicina a me e mi afferra gentilmente per il braccio, prendendomi per un attimo da parte. Mi fissa intensamente negli occhi e tiene le mani sulle mie spalle. «Respira. Calmati, andiamo.»
Faccio come mi dice, non so perché gli do ascolto, ma lui è l’unico che sa sempre come prendermi e come farmi stare meglio con piccoli e semplici gesti.
«Okay, sono calmo. Ma voglio vederlo.»
Trevor continua a fissare le iridi nocciola nelle mie. «Cazzo, ci tieni a lui» mormora.
Di fronte a chiunque altro avrei negato con tutte le mie forze, avrei portato fuori qualsiasi scusa pur di giustificare il mio comportamento, ma con lui è diverso: lui mi legge dentro, mi capisce, mi esamina senza che io possa sottrarmi – e, in realtà, non voglio sottrarmi.
Avere qualcuno con cui condividere una simile sintonia è pazzesco e non capita a tutti.
Così mi limito a tacere, conscio che questo rappresenta una conferma per il mio amico.
«È una bella cosa» mormora intenerito.
«Non cominciare a farmi una sviolinata, Trev…» borbotto.
«Dico solo che è bello. È un dato di fatto, non una sviolinata.»
Sospiro per l’ennesima volta e scuoto la testa. «E se…» Deglutisco e distolgo lo sguardo. «E se lui fosse morto?»
«Il problema non si pone» replica con ovvietà.
«Ma se fosse successo?» Faccio un passo indietro e mi appoggio con la schiena alla parete.
Trevor mi lascia andare e rimane in piedi di fronte a me.
«Io come avrei fatto?» domando più a me stesso che a lui.
Il mio amico non risponde, perché sa che non c’è niente da dire; mi conosce ed è consapevole che questo è il mio modo di sfogare tutti i pensieri negativi che ho formulato da quando Bill mi ha chiamato qualche ora fa.
«Sarei impazzito» considero, portandomi una mano al mento. «Letteralmente impazzito. Sì, impazzirei senza di lui.»
Trevor non smette di fissarmi, ma nei suoi occhi non c’è traccia di rimprovero o di inquietudine; è soltanto qui per me, mi ascolta e mi legge nell’anima senza giudicarmi.
Anche se non è da me ammettere candidamente cose come queste.
«Non ce la farei. Ho immaginato una vita senza Roddy ed è stato un vero schifo. Una merda totale.»
A interrompere il mio delirio ci pensa Puffy che, comparso dietro la spalla di Trevor, si schiarisce la gola e mi sorride appena. «Se vuoi vederlo, hanno detto che possiamo.»
Scatto subito in avanti e, oltrepassati i due ragazzi di fronte a me, seguo Bill a passo svelto lungo il corridoio.


Roddy sembra stordito, ma è sveglio.
Il primo ad avvicinarsi è Bill, e il suo atteggiamento si fa talmente apprensivo da farmi quasi tenerezza.
La verità è che tra quei tre c’è da sempre un legame speciale, sono le basi solide dei Faith No More e riescono a trasportare anche al di fuori della band questo loro rapporto.
È per questo che Roddy non può morire: non è vero che potrebbe arrivare un tastierista qualunque a rimpiazzarlo, lui è insostituibile.
Rimango per qualche secondo sulla soglia e lo osservo: è sdraiato sul letto, circondato di bianco. Lenzuola, mura, tende, pavimento. Tutto è asettico e fastidiosamente luminoso.
Penso ironicamente che Roddy somigli a una specie di angioletto che fluttua in paradiso e mi sfugge un sorriso.
Trevor, al mio fianco, se ne accorge e mi dà un colpetto sul braccio. «Tutto bene?»
«Certo.»
Guardandolo meglio, mi accorgo che ha un dito della mano sinistra steccato e fasciato ed è tumefatto in diversi punti del viso. Per fortuna non sembra aver riportato danni al naso.
Bill è chino su di lui e gli parla, cerca di scherzare e gli lascia una breve carezza sulla guancia. Anche Puffy si accosta al letto e gli picchietta sulla spalla, sorridendogli per infondergli tranquillità.
«Vai» sussurra Trevor.
A chiunque altro avrei fatto notare che non ho bisogno che mi si dica cosa fare e quando farlo, ma lui ha capito che in questo momento ho bisogno di un pizzico di coraggio in più.
Perché ho una paura fottuta e maledetta. Ho paura che Roddy non voglia vedermi o che la mia presenza non sia gradita; ho paura di dire la cosa sbagliata, di compiere un gesto inopportuno e di agire come il solito Mike Patton.
Quello che è una testa di cazzo e non perde mai occasione di dimostrarlo.
Eppure le mie gambe si muovono e in pochi passi entro nel suo campo visivo.
Roddy sgrana gli occhi, evidentemente sorpreso. «Mike?»
«Ehi, che hai combinato?» esordisco, tentando di mantenere i nervi saldi e di controllare i battiti impazziti del mio cuore.
A ben guardarlo, ha un evidente taglio sul labbro inferiore ed è conciato parecchio male, eppure sono così sollevato in questo momento che vorrei mettermi a gridare di gioia.
Sta bene, è vivo, mi ha riconosciuto e non sembra infastidito da me.
«Volevo provare nuove emozioni e ho deciso di farmi pestare, cazzo» replica con voce roca. È sempre il solito Roddy, quel ragazzo ironico e divertente che conosco e che non sopporterei di perdere.
Mi lascio scappare una risata e noto che anche Trevor si è avvicinato.
«Trevor, che sorpresa! Come stai?» lo saluta Roddy, regalandogli un piccolo sorriso.
È un sorriso doloroso, ma è la cosa più bella che ci sia in questa fottuta stanza.
Avverto chiaramente un peso lasciare il mio petto e anche le mie labbra si tirano automaticamente verso l’alto.
«Portatemi qualcosa da mangiare, ho una fame allucinante!» esclama Roddy, per poi esibirsi in una smorfia di dolore. «Fottute costole, ci impiegheranno una vita a guarire, queste troie!»
«Non lamentarti, almeno sei vivo. Patton pensava che fossi morto» ironizza Bill.
Lo fisso in cagnesco, so che prima o poi lo gonfierò di botte.
«Addirittura?»
«Eccome, dovevi vedere come…»
«Gould» grugnisco.
«Okay, okay, adesso io e Billy ti portiamo da mangiare!» interviene Puffy, afferrando il bassista per un braccio e trascinandolo con sé verso la porta.
Nel farlo mi passano a fianco, così ne approfitto per mollare un pugno sul braccio del bassista. «Attento a come parli» lo minaccio.
Lui mi liquida con un’occhiata sprezzante e lascia la stanza insieme a Puffy.
Trevor mi sfiora la spalla per attirare il mio sguardo.
Ci scambiamo un’occhiata, poi lui si dilegua a sua volta e richiude piano la porta, lasciando me e Roddy da soli.
Non gliel’avrei mai chiesto esplicitamente, eppure l’ha capito da solo.
Ho bisogno di tranquillizzarmi, così faccio il giro del letto e mi lascio cadere sull’unica sedia presente nella stanza.
Roddy mi segue con lo sguardo e mi sorride lievemente. «Pensavi davvero che fossi morto?» mi chiede.
«Beh, sai com’è…»
Allunga il braccio destro verso di me, ma si blocca e il suo viso viene attraversato dall’ennesima smorfia di dolore.
Così mi sporgo in avanti e prendo la sua mano tra le mie, scrutandolo attentamente nelle iridi blu notte. «Fa un male fottuto, eh?»
«Puoi scommetterci. Quel tipo dev’essere un lottatore o qualcosa del genere, non c’era partita…»
Stringo più forte la presa. «Adesso non possono più toccarti, tranquillo» mi sento dire, e mi pare quasi impossibile che sia stato proprio io a pronunciare parole simili.
«Non mi aspettavo che saresti venuto a trovarmi» ammette Roddy con una punta di ironia.
«Neanche io. Ma quando Bill mi ha chiamato…» Mi interrompo, incapace di andare avanti.
«Eri preoccupato per me?»
Vorrei tanto scostare gli occhi dai suoi, ma allo stesso tempo non ne ho il coraggio: ho rischiato di perderlo e di non poterli vedere mai più, perciò adesso voglio soltanto godermeli.
Anche se questo significa essere un libro aperto per lui.
«Certo. Mi sarei preoccupato anche per quello stronzo di Gould» minimizzo, ma non suono convincente neanche alle mie stesse orecchie.
Roddy se ne accorge e mi regala un altro piccolo sorriso. «Ma non così» sussurra.
Mi rendo conto che ha perfettamente ragione: per quanto io voglia bene a tutti i ragazzi, la mia reazione a quest’evento mi ha fatto capire che non è vero che tutti siamo utili, nessuno è indispensabile.
Roddy è indispensabile per i Faith No More.
Roddy è indispensabile per me.
Tenendo ancora la sua mano tra le mie, mi chino a lasciare un lieve bacio sul dorso, gli occhi ancora immersi in quelli del tastierista.
«Già. Non così» mormoro.
Rimaniamo a guardarci per qualche altro istante, finché la stanza non viene nuovamente invasa dalla rumorosa presenza di Bill. Seguito da Puffy, il bassista comincia a blaterare sul fatto che il medico gli abbia categoricamente vietato di fargli mangiare cibi troppo grassi; così gli deposita in grembo uno scarno sandwich dall’aspetto ben poco invitante.
Io lascio andare la mano di Roddy e incrocio le braccia al petto, osservando il tramezzino con fare scettico. «Se ha lo stesso sapore del fottuto caffè che ho preso prima, ti consiglierei di non mangiarlo» commento.
«Ho così tanta fame che potrei mandare giù anche un braccio di Puffy!» scherza il tastierista, afferrando il sandwich con la mano destra.
«Ehi, perché il mio braccio? Mangia quello di Bill, ha più carne!» Il batterista sghignazza e dà di gomito all’altro.
«Non è così male, dai» farfuglia Roddy, finendo il suo spuntino in pochi bocconi.
«I tuoi amici si sono dimenticati di portarti un po’ d’acqua» interviene Trevor, passandogli una bottiglietta stappata. «Tieni, devi avere sete» aggiunge. Non mi ero neanche accorto che fosse rientrato anche lui nella camera.
«Trevor, grazie!» Roddy gli sorride grato e sorseggia un po’ d’acqua.
Sbadiglio e mi allungo meglio sulla sedia. «Bene, gente, sloggiate. Qui vogliamo dormire!» esclamo, portando le mani dietro la nuca e socchiudendo le palpebre.
Tutti mi guardano straniti.
«Che cazzo vi prende?»
«Andiamo a casa» mi suggerisce Trevor.
«Andate. Io sono talmente stanco che non riesco più ad alzarmi da qui» ribatto.
«Mike, non…»
Sbuffo. «Che palle, voglio restare, okay?»
I ragazzi ammutoliscono, ma continuano a scambiarsi occhiate e a lanciare sguardi straniti nella mia direzione.
«Non ce n’è bisogno, sto bene» mi rassicura Roddy.
«Anch’io sto bene qui. Non ti darò fastidio e se russo puoi prendermi a pugni» lo liquido, stiracchiandomi appena.
«Sei completamente fulminato, ne sono sempre più convinto» esala Bill, passandosi una mano sulla fronte. «Dobbiamo fidarci a lasciarti qui con Roddy?»
«Sono troppo stanco anche per prenderti a cazzotti, ma guardati le spalle nei prossimi giorni» biascico.
«Sto già tremando» ironizza il bassista. «Okay, allora io e Puffy andiamo. Se questo stronzo ti molesta, chiama gli infermieri, l’FBI o chi cazzo ti pare.»
«Non mancherò!»
Trevor ci saluta con un cenno del capo e li segue fuori dalla stanza; sta per uscire quando si volta e incrocia il mio sguardo, mantenendo il contatto visivo per un po’ prima di sparire oltre la soglia.
Non so cos’ha letto nei miei occhi, ma so che ha capito anche quello che io stesso non riesco a comprendere di me stesso.
Tra noi è così e basta.


Siamo nuovamente soli.
Non ho poi così tanto sonno, più che altro mi sento fisicamente e mentalmente stanco. Sfinito come non mi capita neanche durante i tour più intensi.
Provare tante emozioni tutte insieme e cercare di categorizzarle è stato più complesso di quanto pensassi; il punto è che non ho avuto il tempo per rendermene conto, mi sono semplicemente ritrovato in mezzo a tutto questo casino e l’ho affrontato a modo mio.
E questo mi ha destabilizzato parecchio.
«Perché sei rimasto?»
La domanda di Roddy mi coglie alla sprovvista. Pensavo che stesse già dormendo, ma forse tra i due è il meno provato, a discapito di tutti i lividi e le ammaccature che ricoprono il suo corpo.
Schiudo le palpebre e lo metto faticosamente a fuoco. «Per farti compagnia. E perché non riesco neanche a camminare. Dovrei pisciare, ma la trattengo.»
Lo vedo sorridere lievemente e scuotere appena il capo. «Io sto bene, davvero. Non ho bisogno di compagnia.»
Lo fisso e non riesco a trattenermi, come se ormai tutto l’autocontrollo che ho ostentato nelle ore scorse si fosse dissolto insieme all’ansia e all’agitazione. «Sono io che ne ho bisogno.»
Cala il silenzio.
Non so neanche perché l’ho detto, o forse sì.
E se l’avessi perso per un motivo tanto stupido?
«Perché se tu ora fossi morto, io qui non ci farei un cazzo. Invece sei vivo, quindi devo stare con te» aggiungo, come se cercassi maldestramente di giustificarmi.
Eppure non funziona: la mia voce non suona credibile neanche alle mie stesse orecchie.
Figurarsi a quelle di Roddy.
«Davvero ti importa così tanto? Sei ubriaco o strafatto per caso?» tenta di sdrammatizzare il tastierista.
«No.» Scuoto il capo e mi sporgo nuovamente in avanti, afferrando saldamente la sua mano tra le mie. «Sono serio.»
Ci guardiamo negli occhi e rimaniamo in silenzio per un po’. Mi sento stranissimo, un po’ imbarazzato e impacciato, ma è esattamente qui e così che voglio essere.
Anche se suona bizzarro e probabilmente domani mi rimangerò ogni cosa.
Oppure potrebbe anche non succedere, perché è vero che l’adrenalina mi ha sempre giocato brutti scherzi, ma ormai quella sensazione sembra quasi un ricordo lontano e non avverto alcuna traccia di pentimento all’interno del mio cuore.
«Non mi hai mai parlato così. Non ti ho mai visto così» mormora Roddy, una punta di commozione nella voce.
«Nemmeno io. Eppure sei qui, in un letto d’ospedale e hai rischiato di morire. È giorno di novità» replico con un filo d’ironia.
«Non esageriamo, non ho rischiato di morire» minimizza.
Lo scruto meglio negli occhi e li trovo sereni. «Forse ho avuto più paura io di te» ammetto con un pizzico di imbarazzo.
«Mi sa di sì.» Ride piano e mi tira appena per la mano.
Lo lascio andare e trascino la sedia ancora più vicino, per poi tornare a cercare i suoi occhi e a sfiorargli il dorso della mano. «Allora posso restare?»
«E da quando Mike Patton ha bisogno del permesso di qualcuno per fare ciò che gli pare?» mi sbeffeggia.
Annuisco. «Infatti era una domanda retorica.»
Roddy solleva nuovamente la mano destra e sfiora lievemente la mia guancia. «Grazie.»
Appoggio le dita sulle sue e le trattengo contro la mia pelle, mantenendo il contatto visivo. Non rispondo, ho soltanto voglia di sentirlo vicino per rendermi conto che è realmente tutto a posto.
Sono un fottuto e ridicolo sentimentale, anche se non lo esterno quasi mai.
La stanchezza continua ad avvolgermi il corpo e ad appesantirmi le palpebre, ma mi sembra quasi un errore chiuderle.
E se quando mi risvegliassi, lui non ci fosse più?
Sto esagerando, lo so, ma ci sono volte in cui mi faccio prendere troppo dal panico e questo mi manda in pappa il cervello.
Non so come né quando, ma improvvisamente tutto diventa nero.


Mi risveglio piegato in avanti sulla sedia, la faccia schiacciata sul lenzuolo e la mano di Roddy tra i capelli.
Sento la schiena dolorante e mi sembra di essere più stanco di ieri.
Ho dormito in una posizione impossibile ed è un miracolo che io non sia caduto a terra.
Sospiro e mi sollevo piano, spostando le dita del tastierista con lentezza, cercando di non disturbarlo.
Ho bisogno di farmi un caffè e neanche il ricordo della brodaglia che ho bevuto la notte scorsa mi fa desistere da questo proposito.
Non so che ore sono, così faccio girare lo sguardo sulle pareti bianche e anonime della stanza in cerca di un orologio; ne trovo uno proprio sopra la cornice della porta e, se la batteria non è scarica, dovrebbero essere appena le otto del mattino.
Vengo colto da uno sbadiglio e cerco di sopprimerlo per non svegliare Roddy, ma lui sussulta appena e mugola qualcosa di incomprensibile.
«Mike?» biascica.
Torno a voltarmi nella sua direzione e lo guardo in viso. «Sono qui.»
«Ti vedo. Ma dove hai dormito?»
Mi stringo nelle spalle. «Proprio qui, su questa sedia. Con la faccia sul tuo letto.»
«Devi avere la schiena a pezzi» mormora dispiaciuto.
«Anche tu, amico» scherzo.
Ridacchia, poi si fa nuovamente serio e rifugge il mio sguardo, voltandosi verso la porta. «Senti…»
«Che succede?»
«Davvero, grazie. Ti ripagherò per questo, troverò il modo. Però non dovevi. Non voglio essere in debito con te» farfuglia.
«Ehi, ehi, guardami bene» lo incito, sfiorandogli la mano.
Lui si volge un po’ titubante e le nostre iridi si scontrano nuovamente.
«Non dovevo, infatti, ma volevo. Sono rimasto e basta. Avevo bisogno di sapere che stai bene. Che non saresti morto. A casa non sarei riuscito a dormire» spiego con calma.
Roddy sgrana gli occhi e rimane in silenzio a fissarmi.
«Non parliamone più. Tu stai bene, io sto bene. Tutto tornerà alla normalità, è perfetto» concludo.
Sorride e annuisce. «D’accordo.»
Mi metto in piedi a fatica e mi stiracchio, lasciando andare un lungo sospiro. «Vado a prendermi un caffè. Lo vuoi anche tu? Ti avverto che fa cagare.»
«Procurami qualcosa da mangiare.»
«Vedo cosa riesco a trovare» replico.
Faccio un passo, poi mi fermo e torno a chinarmi su di lui. Lo guardo negli occhi per alcuni istanti e lascio scivolare la mano sinistra sulla sua guancia.
E se quando tornassi lui non fosse più vivo?
Formulo questo pensiero nel momento esatto in cui il mio corpo decide di agire per conto proprio: appoggio le labbra sulla sua fronte e la bacio delicatamente, poi mi scosto e gli sorrido.
«Stammi bene, non fare scherzi.»
«Non vado da nessuna parte» sussurra.
Prima di lasciare la stanza, noto che le sue guance si sono leggermente imporporate e avverto la stessa sensazione sulle mie.
Non so cosa ho fatto, ma so che lo volevo e che mi piacerebbe ripetere quest’esperienza.
Perché Roddy è indispensabile per tutti, me compreso.
Adesso lo so.
Me ne sono accorto perché ho rischiato di perderlo davvero.
E se lui morisse?
Adesso so la risposta a questa domanda, appare talmente semplice e ovvia da farmi sentire dannatamente stupido per non averla afferrata prima.
Senza di lui, non ci sarei neanche io.
C’è solo un’altra persona che mi fa quest’effetto, quando penso a un’esistenza senza: Trevor.
Non so cosa questo significhi, ma so che è importante e che non sprecherò mai più il mio tempo lontano da loro.
Lontano da Trevor.
Lontano da Roddy.






§ § §

Questa storia nasce dal mio spasmodico bisogno di ficcare Mike nelle situazioni più assurde e immaginarmi come potrebbe reagire!
Ho dei problemi, sì, lo so XD però lui è uno dei personaggi più complessi che io mi sia mai ritrovata a gestire e, pur non appartenendomi, riesce a spronarmi a sperimentare un sacco di cose anche e soprattutto su di lui! :D
Do qualche nota esplicativa, anche se non c’è tantissimo da dire!
Ho fatto riferimento al monumentale telefono cellulare di Mike perché, essendo questa storia ambientata presumibilmente nel ’94, i famosi telefonini erano praticamente appena usciti sul mercato e non tutti ne avevano uno ^^
A quei tempi, visto che sia i Mr. Bungle che i Faith No More hanno fatto uscire un album nel ’95, ho immaginato che Mike si dividesse tra il lavoro in studio con entrambe le band!
Trevor è infatti il bassista storico dei Mr. Bungle, nonché colui che io considero come il soulmate (a livello affettivo e non in senso romantico, ovviamente) di Mike. Sono amici da sempre, cresciuti insieme e uniti anche professionalmente, perciò ho scelto lui come roccia per il cantante in quest’occasione un po’ particolare e difficile ^^
Per il resto… la Pattum è un po’ velata, dai, non mi sento di considerarla come coppia, almeno stavolta :D
Ultima notina: il titolo della storia è un verso tratto dal brano Separation Anxiety dei Faith No More!
E niente, fatemi sapere cosa pensate di quest’insieme di disagio e di come ho gestito Mike in mezzo a tutti questi eventi ansiogeni!
Grazie a chiunque sia giunto fin qui e alla prossima ♥
  
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