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Autore: __aris__    19/05/2021    1 recensioni
Sono trascorsi cinque secoli da quando la Faglia è stata distrutta. In questi secoli Alina Starkof ha esplorato il mondo in lungo e in largo imparando a fare i conti con la solitudine dell’eternità, almeno fino a quando visitando un museo dedicato ai Grisha non stravolgerà l’unica certezza che l’ha accompagna da molto tempo: la sua sarà una vita infinitamente solitaria.
You live in a single moment. I live in a thousand.
Cosa può significare per Alina e l'Oscuro rincontrarsi in un mondo dove la tecnologia ha reso possibile a molti cose che un tempo erano riservate ai Grisha? Un mondo dove la distinzione tra Grisha e persone comuni è molto più sfumata del passato.
Questa storia è ispirata alla canzone Somewhere Only We Know di Lilly Allen.
Potrei fare più riferimenti alla serie Netflix che ai libri, questo dettaglio è in fase di decisione.
I commenti e le impressioni dei lettori sono sempre molto graditi dalla presente autrice.
Genere: Angst, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alina Starkov, Darkling
Note: Movieverse, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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È passato quasi un secolo dall’ultima volta che Alina è stata a Ravka, da quanto tempo non torni a Os Alta nemmeno lo sa. Almeno due o tre secoli.
Ha viaggiato per tutto il continente e ovunque il vero mare l’abbia potuta portare. Ha incontrato migliaia di persone e vissuto centinaia di vite, imparato tantissime lingue e assaggiato sapori di ogni tipo. Ma più gli anni si sono accumulati e più ha iniziato a sentirsi come un ospite eterna dell’umanità, qualcuno che guarda le vite degli altri ma non può mai vivere davvero la propria perché troppo lunga.
E più l’eternità diventava pesante più iniziava a capire lui, la sua solitudine e la sua disperazione.
Ricordava il giorno in cui gli aveva detto che non sarebbe mai diventata come lui, e ricordava che la sua reazione l’aveva mandata su tutte le furie. Ma dopo tanti secoli lo capiva più di quanto non volesse ammettere, e ogni giorno mentre si guardava allo specchio immaginando rughe che non sarebbero mai arrivate si chiedeva se anche lui, molto tempo prima, avesse avuto i suoi stessi pensieri.
Forse era proprio per lui che aveva deciso di tornare a Os Alta.
Non al Piccolo Palazzo, perché non poteva più evocare il Sole.
Non al Piccolo Palazzo, perché sarebbe stato troppo vicino a lui.
Non al Piccolo Palazzo, perché era il suo palazzo.
Le basta vedere le alte mura quando va a lavorare per placare il senso di mancanza che la disturba.
Mancanza di una vita vera, di qualcuno con cui condividerla o semplicemente di qualcuno che capisse quanto l’eternità in solitudine possa compromettere la sanità mentale di chiunque. Inclusa una Santa.
C’era stato qualcuno che avrebbe potuto capirla, ma ormai era diventato cenere da molti secoli. Alina sospira pesantemente, sa che lui non le lasciò altra scelta, eppure vorrebbe che fosse finita diversamente.
Dal giornale scopre che c’è un museo sull’arte Grisha. Immagina si tratti di una raccolta di kefte polverose, di invenzioni dei Fabrikator ed altri manufatti, reliquie di un passato lontano dove la Piccola Scienza era superiore alla scienza.
Ormai sono lontani i giorni in cui i Grisha avevano bisogno di alte mura difensive e cappotti antiproiettile. Oggi c’è un solo esercito e i Grisha non sono costretti a farne parte, ma possono scegliere se e come impiegare i loro doni. Ma i Grisha ricordano di quando la società era diversa ed il museo serve a mantenere viva la memoria di quanto sia stato difficile diventare normali cittadini di Ravka.
Alina decide di andarci un giorno dopo il lavoro, prima che facesse buio.
Il museo si trovava in un quartiere vicino al Piccolo Palazzo, nella parte della città era riservata ai palazzi dei nobili o dei generali. Alina alza gli occhi ed è sicura che dai piani superiori ci sia una bella vista delle sue alte mura, forse si possono perfino intravedere i giardini dal tetto. Il palazzo doveva essere appartenuto a qualche nobile o a un funzionario di alto rango perché gli interni sono molto lussuosi, dai pavimenti in marmo agli stucchi sui soffitti.
In biglietteria c’è una ragazza Grisha che le sorride mentre le dice dove iniziano le esposizioni. Le Kefta non sono più in uso da …? Alina non saprebbe dirlo. Oggi indossano una semplice spilla che li contraddistingue come evocatori, spaccacuori, incendi o fabbrikator. Un semplice simbolo di appartenenza in una società integrata. Alina lo trova pratico, ma sa che a lui non piacerebbe per niente. Ma Ravka non è più in guerra, i Grisha non hanno nemici da cui difendersi e lui è cenere da secoli, quindi forse va bene così.
Alina segue le indicazioni e si trova davanti a una grande mappa di Ravka ai tempi della Faglia. Sulle pareti della stanza è scritta la storia della Faglia, del Grisha oscuro che la creò, dei mostri di oscurità che la popolavano e della Santa che la distrusse. Passa velocemente nella stanza successiva dove si trova una velasabbia in miniatura. Non è abbastanza grande da trasportare merci o persone, ma riempie quasi tutta la stanza, lasciando solo lo spazio necessario al passaggio dei visitatori. Si ferma dietro il cordone rosso lasciando che i ricordi della sua prima traversata riaffiorino alla mente: i chiamatempeste che gonfiavano le vele, i soldati e gli incendi pronti all’eventuale attacco e poi il rumore delle ali dei volcra, l’unico suono oltre il suo cuore in quel silenzio soffocante. Anche su queste pareti sono presenti descrizioni di come venivano affrontati i viaggi nella Faglia, ma Alina non le guarda nemmeno.
Le stanze successive spiegano come funzioni la magia dei Grisha, prima di raccontare la loro storia; come sono diventati una casta temuta e rispettata partendo dall’essere emarginati e perseguitati.
Sai perché il Piccolo Palazzo è dotato di mura? Perché per anni essere Grisha era una condanna a morte.
Alina deglutisce, era molto che quella frase non le tornava in mente. Quando la sentì la trovò alquanto irritante. Forse perché trovava tutta la situazione alquanto irritante o forse perché ancora non si sentiva una Grisha. Ma dopo cinque secoli la può capire di più e non riesce a vedere la sé stessa di allora come una bambina ingenua.
Adesso si ferma a leggere tutte le descrizioni sulle pareti e le didascalie degli oggetti esposti, ci sono poche persone oltre a lei e si può prendere tutto il tempo che desidera.
Il suo nome compare spesso, ma come potrebbe essere diversamente? Anche se nessuno sa che fu proprio Alexander Kirigan a creare la Faglia, il Piccolo Palazzo e la formazione del secondo esercito furono comunque opera sua. Senza di lui, forse, i Grisha sarebbero stati sterminati uno dopo l’altro. Non che questo basti per cancellare tutto il male che ha fatto, o il sangue che era disposto a versare, ma Alina gli può concedere di essere ricordato in un museo senza farsi prendere dalla rabbia.
Forse il tempo è davvero capace di guarire ogni ferita.
O forse, dopo tanto tempo, è capace di capire il suo punto di vista più di quanto vorrebbe.
Alina prosegue fino all’ultima sala, una lunga galleria dove sono esposte delle kefte divise in base ai Grisha che le avevano indossate: le uniformi di Corporalki e Etherealki erano esposte ai lati della galleria, mentre quelle dei Materialki in una lunga teca centrale. Sembra che tutti i visitatori del museo si siano radunati in quella sala; alcuni sono da soli e altri in piccoli capannelli di due o tre persone, ma tutti ammirano i ricami sulle kefte e si chiedono come sia possibile che cappotti all’apparenza tanto leggeri ed eleganti fossero antiproiettile.
Questo era uno dei pochi segreti che erano rimasti ai Grisha, per quanto ingegneri e scienziati ci si fossero scervellati sopra.
Le Kefte sono esposte in base all’anno di realizzazione, le prime risalgono alla creazione del secondo esercito e le ultime al momento in cui i due eserciti furono fusi in uno. I cambiamenti nei secoli non furono molti, principalmente nella forma dei ricami, ma gli altri visitatori si fermavano davanti a ogni kefta per osservarne ogni dettaglio. Alina le osserva tutte, come fanno gli altri visitatori, ma senza fermarsi lo stesso tempo davanti a ognuna, almeno fino a quando non vede l’ultima kefta.
Si trova in una teca separata dalle altre che permetteva di vederla da ogni angolo. Non era porposa, rossa o blu, ma nera con ricami dorati.
Alina riconosce quella kefta, ricorda ancora quanto il tessuto fosse morbido e leggero.
L’aria all’improvviso le manca.
Il cuore martella nelle orecchie e ogni altro rumore scompare.
La testa inizia a girarle fino a quando qualcuno non le impedisce di cadere.
È un ragazzo con dai riccioli biondi e gli occhi nocciola dall’aspetto gentile. Sulla giacca porta una spilla viola con il simbolo dei Fabrikators. “Si sente bene?
Alina si impegna a sorridere mentre ritrova l’equilibrio sui suoi piedi. “Forse non avrei dovuto saltare il pranzo.”
Il ragazzo ricambia il sorriso. “Venga con me, si sieda.” Disse mettendo una mano dietro la schiena di Alina e conducendola nella caffetteria del museo. “Purtroppo non ci sono guaritori tra i miei colleghi, ma se ha bisogno di qualcosa dica pure.”
Un bicchiere d’acqua sarà sufficiente, grazie…” per un attimo Alina cerca il nome del ragazzo sul cartellino identificativo che porta al collo “Ivan.” Lo segue con lo sguardo mentre si avvicina al bancone per prenderle l’acqua e mentre aspetta studia l’ambiente. Il pavimento è di marmo bianco con venature verde giada, così lucido da riflettere il volto di Alina. Una parete è costituita da una vetrata dalla quale si può ammirare il giardino interno del palazzo ancora cosparso di neve. I tavolini sono una decina, tutti bianchi e rotondi circondati da quattro sedie bianche. Lampadari di cristallo di un’altra epoca sono appesi al soffitto. Quando Ivan torna, oltre all’acqua, porta anche qualche biscotto. “Sei davvero gentile.”
Si figuri! E poi il direttore mi darebbe una strigliata lunga fino a domani se sapesse che qualcuno è stato male durante il mio turno.” Dice mentre le porge una bottiglietta d’acqua e un bicchiere riempito fino a metà.
Questa volta la risata di Alina è sincera “Non dirò nulla a nessuno, ha la mia parola.” Si sforza di mangiare uno dei biscotti solo per rendere più credibile la storia del calo di zuccheri, ma in realtà sente un nodo allo stomaco. “Quella kefta nera … non sapevo che i Grosha usassero anche quel colore.”
Non di solito, ma sappiamo che ci furono due evocatori che usarono quel colore: l’Oscuro e l’Evocaluce. Crediamo che quella esposta appartenesse proprio ad Alina Starkof.”
Lentamente beve un sorso d’acqua e annuisce. “Come fa a dirlo?
Non lo dico io, è una supposizione del direttore del museo. È sorprendente quanto conosca la storia dei Grisha! Ha delle intuizioni quasi divinatorie. Se vuole glielo presento, è dall’altro lato del giardino che parla con il ministro della cultura, ma sono sicuro che se aspetta qualche minuto sarà felice di rispondere a tutte le sue domande.
Alina segue lo sguardo di Ivan oltre le piante innevate per vedere due uomini sotto un porticato illuminato: il primo, il ministro della cultura, è di corporatura molto robusta, con la faccia tonda come una cipolla e le gote rosse come i pomodori maturi. L’altro è più giovane, alto e con i capelli nerissimi. Alina si deve impegnare per non aggrapparsi al piccolo tavolo, riconoscerebbe il direttore anche se non fosse vestito di nero da capo a piedi. “No grazie, per me è ora di tornare a casa.” Dice tornando a guardare il volto di Ivan solo per correre meno rischi che anche lui la veda.
Il ragazzo si alza e aspetta che anche lei faccia lo stesso. “Come preferisce. Buon ritorno a casa.”
Grazie ancora Ivan.”
Appena l’aria fredda della sera le pizzica il volto, Alina sospira e guarda il cielo nero, illuminato solo dalle luci artificiali.
Lui è vivo.
e Alina non sa se come sentirsi al riguardo.





 
   
 
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