Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: macabromantic    20/05/2021    3 recensioni
[ SPOILER ALERT: Stardust Crusaders / Stone Ocean / Diamond is Unbreakable || TW: ptsd / depression / flashbacks ]
[ Jotaro Kujo x Kakyoin Noriaki ]
...
Kakyoin aveva camminato fino alla stazione di Shibuya immerso nei propri pensieri. Arrivato al grande incrocio nel quale si snodavano numerose strade del quartiere alzò lo sguardo verso il semaforo.
Fu in quel momento che lo vide.
Alto, immensamente alto, sarebbe stato impossibile non riconoscerlo anche in mezzo a tutta quella gente. Sebbene fosse di un bianco smagliante, illuminato dai colori al neon che si mescolavano in piazza fra i toni del turchese e bluette, Kakyoin avrebbe riconosciuto quel cappello dovunque. Un cappotto lungo fino a terra, una pesante catena che scivolava dal lato sinistro del petto. Una sigaretta accesa tra i denti, la mano sinistra vicino alle labbra, quella destra infilata in tasca, una grossa busta di carta che pendeva dal polso.
Jotaro Kujo si trovava dall’altro lato della strada, con la fronte corrugata e gli occhi fermi sulle strisce pedonali. Quando il semaforo scattò dal rosso al verde, Jotaro sollevò lo sguardo e in quell’istante incontrò gli occhi di Kakyoin.
Il cuore gli si fermò nel petto, la sigaretta gli cadde dalle mani.
...
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Jolyne Kujo, Joseph Joestar, Jotaro Kujo, Noriaki Kakyoin
Note: Lemon, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 09

L’importanza di essere onesto


 
 
Kakyoin uscì dall’ospedale in un giorno di sole. L’aria era pungente eppure piacevole sotto il calore che baciava le guance di chi guardava il cielo. Si rimise in carreggiata con le cure che aveva interrotto prima dell’anno nuovo, decise di chiamare la dottoressa Shizuka per dirle che avrebbe provato volentieri il percorso con il suo collega, lei aveva risposto con entusiasmo. Non le aveva raccontato di quanto era accaduto dopo la loro ultima seduta, pensò che parlarne per telefono non fosse il caso. Due settimane passarono in fretta, presto arrivò la notte del mercoledì antecedente all’appuntamento con Jotaro.
«Non è un appuntamento,» disse d’un tratto Kakyoin con la fronte contratta e la schiena sporta in avanti, il pennello a punta tonda numero dieci che picchiettava toni di verde attorno a Death 13. Nel cuore della notte, nel suo silenzioso appartamento, la sola risposta che ottenne fu il miagolio annoiato di Fuji. Si girò a guardarlo: stava comodamente disteso sulla spalliera del divano, mille bozzetti e tubetti di colori abbandonati sui cuscini.
«E comunque non ho intenzione di andarci,» aggiunse Kakyoin annuendo con fermezza mentre intingeva il pennello sul verde acido nel bicchiere di plastica stretto nella mano sinistra. Si allungò di nuovo verso il dipinto, lo schizzo a matita appeso all’angolo sinistro della tela con del nastro adesivo. Di nuovo sentì Fuji miagolare rumorosamente.
«È inutile che provi a farmi cambiare idea.»
Se avesse potuto farlo, Fuji avrebbe sospirato facendo ruotare gli occhi al cielo. Invece si limitò ad allungare le zampe davanti, gli artigli che si aggrappavano per un istante alla stoffa del bracciolo mentre la coda si srotolava lenta. Kakyoin dovette di nuovo mettersi dritto nel suo sgabello di legno, quella notte avvertiva dei dolori alla parte bassa della schiena che non ne volevano sapere di calmarsi. Fuji fece un balzo silenzioso giù dal divano, con la testa andò a strofinarsi su una caviglia di Kakyoin. Allora lui abbassò lo sguardo, con il medio spinse sul naso la montatura sottile degli occhiali che indossava per guardare da vicino.
«Ah, sei passato alle maniere forti?», gli disse mentre allungava la gamba nel tentativo di farlo spostare, ma il gatto era irremovibile. Kakyoin sospirò e gli occhi tornarono sul parco-giochi della morte. «Senti, neanch’io pensavo che Jotaro si ricordasse tutte quelle cose su di me, alcune cose praticamente non le so nemmeno io. Mi sembra assurdo che dopo dieci anni si ricordi quei dettagli, mentre io...»
Fuji miagolò alzando il muso verso Kakyoin, lui lo guardò. Si era messo seduto e la coda incorniciava le zampette posteriori; l’ennesimo sospiro si levò dai suoi polmoni.
«...io ho davvero la sensazione di non conoscerlo.»
Un velo di tristezza s’impadronì del ragazzo. Si impose di cacciarla via scuotendo il capo, gli occhi seri mentre tornava a dipingere. I muscoli della schiena continuavano a dolere. Si costrinse a ignorarli sgranchendo le scapole in piccoli movimenti circolari.
«Oh, ma insomma! Non lo conosco proprio. So quattro cose in croce su di lui e per di più sono cose infelici. Cioè, “infelici.” Va beh, d’accordo, infelici per me. Voglio dire, ha una moglie e una figlia. Dai. Il resto sono solo... cose romanzate. Tipo l’amore per le stelle.»
Fuji miagolò e a Kakyoin suonò come un rimprovero, così lo puntò con il pennello, il collo allungato verso di lui.
«Intanto non usare quel tono con me,» ma il micio sembrava ignorarlo mentre si leccava la zampa destra e se la passava sull’orecchio. «Il fatto che stia divorziando non vuol dire proprio niente.»
Di nuovo la tristezza s’impadronì della sua voce, sul finire della frase. Le spalle si fecero curve sotto il dolore nelle vertebre artificiali. Lasciò andare le braccia posandole sulle ginocchia, gli utensili ancora stretti in mano, e un sospiro uscì silente dalle sue narici mentre chiudeva gli occhi.
«Se n’è andato quando gli avevo chiesto di restare.» Sentendo un altro miagolio di Fuji, Kakyoin roteò gli occhi al cielo. «Sì, ed è rimasto quando gli avevo chiesto di andarsene, lo so, grazie. Il punto è...»
Inclinò la testa per guardare il dipinto ormai ultimato, su cui mancavano soltanto i dettagli da aggiungere con la foglia d’oro.
«Il punto è che lo amo con tutto me stesso, ma non posso fidarmi di lui. Capisci?», domandò al gatto, che rispose con un miagolio. «Eh, lo so. Come faccio a sapere che non se ne andrà di nuovo? Non va bene.»
Kakyoin portò lo sguardo sull’orologio a muro nel corridoio, oltre la porta aperta del salotto. Segnava le quattro e quarantaquattro.
«Ancora è presto, però... dici che dovrei andare?», domandò sporgendosi verso Fuji. La sola risposta che ottenne fu un movimento della punta della coda, oscillante avanti e indietro. Kakyoin sorrise con tenerezza, gli occhi socchiusi e le labbra distese, poi sistemò di nuovo la montatura degli occhiali che gli scivolava dal viso. «Ma che puoi saperne, tu, che sei solo un micio da appartamento.»
E si allungò per fargli una carezza sulla testa. Fuji si strofinò contro la sua mano, gli occhi chiusi sottolineavano la voglia di coccole.
«Facciamo così: due miao sì, un miao no,» disse Kakyoin gesticolando con la mano che stringeva il pennello. «Fuji, secondo te dovrei andare all’appuntamento con Jotaro?»
Un miagolio più grande degli altri si accavallò su un altro, piccolo ma udibile, fatto un istante prima. Il micio concluse la sua risposta con uno sbadiglio, la zampa era tornata a pulire il muso.
Kakyoin sentì ogni particella del suo corpo farsi di marmo.
«...era un sì? Va beh, forse ho capito male,» si disse Kakyoin mentre tornava a dedicarsi a Death 13, ma Fuji lo chiamò con un miagolio più rauco degli altri.
«Senti, facciamo una cosa,» gli disse con stizza, «ora vado a prendere gli antidolorifici per la schiena. Se il dolore si placa entro un paio d’ore, ci vado. Altrimenti niente. Contento?»
Alla fine le medicine vennero prese e i dolori alla schiena si placarono. Il resto della tarda notte passò per Kakyoin in via irrequieta – non perché fosse raro che l’insonnia lo cogliesse nelle ore più buie del giorno, ma al contrario succedeva spesso che riuscisse a dormire soltanto per quel lasso di tempo concesso dall’effetto degli ansiolitici. Questa volta era diverso. Certo, in qualche modo riconosceva i sintomi dell’ansia, tra cui il battito accelerato e la sudorazione fredda della nuca, le dita delle mani ghiacciate e una serie di nodi nel ventre, ma aveva già preso la sua dose quotidiana di alprazolam e non poteva strafare. Insomma, quella notte il tempo sembrava andare avanti veloce e poi fermarsi per ore.
Sempre accompagnato dalla dolce figura di Fuji, Kakyoin aveva scelto di fare una doccia bollente nel tentativo di distendersi ora che il sole sorgeva. Un bagno caldo sarebbe stato più efficiente, ma da quando era accaduto l’incidente non aveva ancora avuto il coraggio di ricreare la situazione. La dottoressa Shizuka gli aveva detto che, per superare il trauma, una buona idea era quella di entrare dall’altro lato della vasca, magari aggiungere i sali e il sapone prima di immergersi. Insomma, cambiare lo schema. Ma ancora non se la sentiva.
Con un sospiro abbandonò il bagno, si recò in camera e spalancò le ante dell’armadio. Gli occhi passarono in rassegna su tutti i capi d’abbigliamento e nessuno sembrava andare bene. La cosa certa era la scelta del cappotto, ma c’era naturalmente bisogno di mettere qualcosa sotto. Dopo aver preso in considerazione una camicia di pesante cotone a righe colorate e una bianca con delle minuscole ciliegie stampate decise che non era il caso di presentarsi con un abbigliamento anche solo vagamente elegante. Lanciò le camicie sul letto, Fuji balzò sul materasso insieme a loro.
Dopo un’altra attenta analisi, finalmente Kakyoin scelse cosa indossare: un dolcevita color crema in cachemire sistemato dentro dei blue jeans a vita alta, questi ricadevano morbidi ed erano stretti in vita da una cintura in pelle nera e la fibbia dorata; alle caviglie l’orlo arrotolato distrattamente metteva in mostra la pelle candida e la linea delle scarpe nere. Si guardò allo specchio controllando che tutto andasse bene, torcendosi con il busto e stendendo le gambe dietro di sé, a destra e poi a sinistra. Quando si ritenne soddisfatto, domandò un’ulteriore conferma a Fuji.
«Che ne pensi?», chiese allargando le mani, i gomiti stretti al torace. Il gatto, comodamente appollaiato al centro del letto, rispose facendo oscillare la punta della coda da un lato all’altro. Kakyoin alzò gli occhi al cielo. «Sì, lo so che mi sto impegnando troppo, ma potresti almeno darmi una mano.»
Ultimi, ma non meno importanti, gli orecchini. Scelse di non indossare le ciliegie di sempre, optò invece per dei pendenti d’oro che scendevano da entrambi i lati dei lobi in due perline, anche loro in oro, le quali bilanciavano il peso delle sottili catenelle. I capelli bianchi, di quella lunghezza che raggiungeva ormai il centro delle spalle, li aveva raccolti in una morbida coda bassa; il ciuffo sempre libero a fare da cornice al viso. Infine aveva salutato Fuji con una carezza, nel suo piattino aveva versato una bustina di cibo per gatti e aveva chiuso la porta dell’appartamento alle proprie spalle cercando di non fare rumore. Per non farsi sentire da chi, poi, restava un mistero.
Era salito sul treno stringendosi nel cappotto che aveva scelto, la giornata era pungente e questo faceva pizzicare le cuciture delle sue cicatrici. Quella più fresca del polso sinistro a volte tirava, forse oggi lo avrebbe lasciato in pace almeno per il tempo d’azione degli antidolorifici. Cercava di tenerla nascosta, con le dita della mano destra tirò la manica candida del maglione e lo trattenne tra le falangi della mano corrispondente. Era ancora troppo viva e i suoi occhi non si sarebbero abituati facilmente alla sua presenza.
Sonnecchiando contro il finestrino, svegliandosi di soprassalto quando il vagone prendeva uno scossone, Kakyoin arrivò a Tokyo che era ancora troppo presto per l’appuntamento l’incontro con Jotaro. Torturando con una mano la cinghia della tracolla in cuoio che portava sempre con sé, Kakyoin raggiunse in una lenta passeggiata il luogo dell’incontro. Il cuore gli batteva nel petto con una forza martellante, nella pancia e nella schiena continuava ad avere la sensazione che i bordi della cicatrice potessero strapparsi da un momento all’altro. Era colpa del freddo, sì. Era il freddo e nulla più, una sensazione mentale. Ma continuava ad avanzare la convinzione che il vuoto avrebbe presto preso il posto delle sue viscere e prima di raggiungere l’imponente Sky Tree Kakyoin si dovette fermare. Sentiva in qualche modo di essere in pericolo, i rumori della città arrivavano ovattati nella sua mente. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo, non riusciva a spiegarsi perché stesse succedendo in quel momento.
Non è successo niente, non ha senso che accada ora, si disse mentre si portava una mano sulla fronte. Aveva iniziato a sudare, i respiri profondi gli davano la sensazione che l’aria non bastasse a tenerlo in vita. I passi delle persone attorno a lui avevano preso a scandirsi in maniera regolare, troppo regolare, come le lancette di un enorme orologio che rallentava il suo ritmo. Lo sentiva arrivare, Kakyoin sapeva che da un momento all’altro avrebbe sentito la risata di Dio e poi il pugno di The World che lo scaraventava contro una cisterna d’acqua gelida lasciandolo vuoto, solo. La dottoressa Shizuka gli aveva detto che un buon modo di ancorarsi alla realtà era quello di trovare qualcosa che interrompesse il flashback, come un odore o un sapore forte che non avessero nulla a che vedere con il ricordo. Aveva scoperto che un sapore che gli permettesse di tornare subito nel mondo reale era quello acre dei limoni.
«Sono a Tokyo,» si disse a bassa voce mentre deglutiva, gli occhi chiusi e il capo chino.
O forse nel deserto?
«No, sono a Tokyo. Sono quasi le dieci del mattino.»
O è notte fonda?
«Fa freddo.»
Anche quella notte faceva freddo.
«Ed ero solo.»
Sarai solo anche questa volta? Per quale motivo Jotaro dovrebbe venire? Ti ha abbandonato.
«No, questo non è vero.»
Non è venuto a cercarti.
«Non poteva saperlo.»
Sei solo.
«Kakyoin?»
«Ah!» S’irrigidì nella schiena, sobbalzò sentendo che qualcuno lo toccava su una spalla. Si voltò di scatto, pronto a difendersi con le mani sollevate in posizione di guardia vicino al viso. Ma il volto che incontrò fu quello – interdetto – di Jotaro Kujo. Un sospiro di sollievo gli sgonfiò il petto, le palpebre si chiusero lentamente mentre una mano si posava sullo sterno. «...sei tu.»
Jotaro aveva subito ritratto la mano vedendo come Kakyoin si fosse fatto rigido.
«Scusami, non volevo spaventarti.»
«No, non fa niente. Ero... con la testa altrove,» si sforzò di tirare fuori un sorriso convincente mentre il cuore ancora non aveva calmato il suo battito accelerato.
«Ti senti bene?», gli occhi di Jotaro erano contratti. «Sei un po’ pallido.»
«Ah...» Kakyoin abbassò lo sguardo, entrambe le mani si strinsero attorno alla cinghia della borsa. Sentiva le gambe farsi molli, la testa girare. «In effetti non...»
Non ebbe il tempo di concludere la frase poiché la vista si annebbiò, gli occhi rotearono all’interno delle orbite e tutto si spense. Cadde, ma la prontezza di Jotaro supportò il suo corpo esile.
«Kakyoin?», provò a chiamarlo e naturalmente non ottenne risposta. Mantenne la sua quiete glaciale mentre lo sollevava da terra, un braccio avvolto dietro le spalle e l’altro dietro la piega delle ginocchia. Nel viavai della gente qualcuno si voltò con curiosità verso quel colosso di due metri dal bizzarro cappotto bianco, qualcun altro si sforzò di ignorare quanto stava accadendo, qualcun altro notava il ragazzo privo di sensi e lanciava domande preoccupate, le quali restavano senza risposta.
 
Kakyoin spalancò gli occhi. Sbatté più volte le palpebre, dentro di esse l’espressione sorpresa di chi pensava di essere a casa propria. Invece era disteso su quella che sembrava essere una fredda panchina di marmo, attorno a sé non c’era il proprio appartamento ma una piazza colma di gente.
«Ah, si è svegliato!», disse una ragazza che non aveva mai visto e che sorrideva di un sorriso sollevato. Accanto a lei c’era Jotaro, seduto sul bordo della panchina, il quale si limitò a un sospiro che gli sgonfiò le spalle. «Allora io vado.»
«Sì, grazie per l’aiuto.»
«Che cosa...?», provò a dire Kakyoin e si accorse di avere la bocca impastata. Strinse gli occhi, li riaprì sforzandosi di mettere bene a fuoco; la luce del giorno era troppo forte e lo pizzicava nelle pupille.
«Sei svenuto,» spiegò Jotaro con una nota di gentilezza in quella sua voce sempre ferma. «La ragazza di prima si è offerta di tenerti le gambe sollevate.»
Le sopracciglia di Kakyoin si contrassero, si passò una mano sulla faccia con la stessa sonorità di uno schiaffo.
«...ma perché mi devono sempre succedere queste cose,» mormorò a occhi chiusi e intanto sentiva il viso tingersi di calore, la punta delle orecchie bruciava.
«Più che altro non mi aspettavo di farti questo effetto.»
Kakyoin fece ruotare gli occhi al cielo con forza, eppure il barlume di una risata accese l’istinto di dare una spinta sulla spalla di Jotaro. Fossero stati altri tempi, quella spinta ci sarebbe stata. Lo avrebbe chiamato “stupido” e avrebbe fatto un commento sulla simpatia di JoJo, invece si trattenne. Anzi, scosse il capo abbassando lo sguardo, la risatina si trasformò rapidamente in sorriso di velata malinconia e i ricordi di quel viaggio lontano sfumarono prima che potessero arrecare altri danni. Jotaro, che aveva sorriso a sua volta, socchiuse le iridi sotto la visiera mentre si alzava.
«Ce la fai a metterti in piedi?»
Kakyoin annuì, poi si aiutò con entrambe le braccia per sollevare la schiena. Un giramento di testa lo costrinse a stringere gli occhi, una fitta si attanagliò tra le vertebre meccaniche e lo stomaco sintetico. Jotaro si piegò verso di lui per aiutarlo ad alzarsi, una mano si poggiò con delicatezza sulla sua spalla, ma Kakyoin si ritrasse come fosse stato percosso da una scarica elettrica.
«Faccio da solo, davvero. Mi serve solo un momento.»
Jotaro allora si ritirò senza aggiungere nulla. Kakyoin, dopo essere finalmente riuscito a mettere i piedi per terra, si alzò con calma. Sentiva i muscoli delle gambe rigidi, la parte bassa della schiena lampeggiava di fitte nonostante l’effetto dei medicinali.
«Dovresti mangiare qualcosa.»
La voce di Jotaro lo richiamò all’attenzione mentre con entrambe le mani stendeva le pieghe del cappotto, poi l’indice della mano destra sistemò una ciocca di bianchissimi capelli dietro l’orecchio.
«No, grazie. Non credo sia stato un calo di zuccheri.»
«Dovresti almeno bere un po’ d’acqua.»
«Ora che ci penso,» e mentre lo diceva s’inumidiva le labbra con la punta della lingua. «Sai se qui vicino ci sono posti che fanno limonata?»
Jotaro si raddrizzò nella sua schiena, un bagliore di sorpresa passò per un istante ad accendere le sue iridi blu.
«Non ne sono sicuro, ma credo che all’interno della Sky ci sia qualche punto ristoro dove poter chiedere.»
«Potremmo provare.» La voce di Kakyoin era di nuovo gentile e sulle sue labbra c’era anche la curva leggera di un sorriso. Così Jotaro annuì, affiancò Kakyoin mantenendo una certa distanza ed entrambi entrarono nel grattacielo.
La grande hall del palazzo pullulava di vita, numerosissime erano le persone prese dalle proprie faccende, che fossero di svago, personali o di lavoro. Il chiacchiericcio riempiva la struttura che si slanciava verso l’alto con il suo assetto architettonico futuristico. Kakyoin si guardava intorno con cautela perché sentiva ancora la testa leggera e le gambe pesanti, attento a non venire colto alla sprovvista da un altro mancamento. La sua attenzione, dapprima portata sulla bella presenza di piante da interni che illuminavano l’area, venne catturata da un gruppetto di bambini che correva con del gelato in mano.
«Sicuramente non lontano da qui ci dev’essere un bar,» mormorò tra sé guardando i bambini allontanarsi, felici della loro fredda colazione. Un sorriso storto si appropriò delle labbra di Kakyoin, il quale si ritrovò a pensare che non faceva mai abbastanza freddo per il gelato. Dopo una manciata di secondi, però, si rese conto di non aver ricevuto nessuna risposta da Jotaro. Si voltò alla propria sinistra, ma non c’era.
«Jotaro?», provò a chiamarlo mentre si voltava a destra. Di lui nessuna traccia. Con gli occhi contratti, smarrito, Kakyoin si guardò intorno finché non individuò il suo cappotto bianco. Un sospiro di sollievo gli svuotò i polmoni.
Lo aveva trovato a qualche metro di distanza, di spalle al bancone di un locale piccino che dava direttamente nella hall del grattacielo. Approfittò della distanza che c’era tra loro per guardare i dettagli della sua nuca che si mescolava ai tessuti del cappello, la linea netta del cappotto che si allargava nelle spalle ampie e si stringeva poi sui fianchi conferendogli uno slancio in altezza. Incrociò le braccia al petto, inclinò di pochi gradi il capo verso sinistra così come avevano fatto le labbra e intanto Jotaro si sporgeva con il viso per parlare alla ragazza in divisa dietro il banco. Quel movimento lieve gli permise di vedere parte del suo volto, lo sguardo di un azzurro che nei bordi tendeva all’acquamarina. Fu una frazione di secondo quella in cui Kakyoin si trovò a pensare che, in fondo, degli occhi del genere si abbinavano bene al mare sebbene li avesse sempre immaginati a viaggiare tra le stelle. Pensò che, alla fine, ci troviamo sempre a idealizzare le persone che incontriamo nella nostra vita, non importa quanto a fondo le conosciamo, ci sarà sempre qualcosa di loro che non sarà reale se non per la nostra personale percezione. Pensò a quante volte si era trovato da solo, nel buio della notte, a lasciare che i ricordi tracciassero il loro decorso finché il sonno non aveva la meglio, e quante erano state le volte in cui si era mentalmente lasciato annegare in quello sguardo di cui non riusciva mai a decifrare le emozioni.
«Ho trovato la limonata.»
Perso nella propria riflessione, Kakyoin non si era accorto di aver lasciato il proprio sguardo ad annebbiarsi tra i suoni della mente, e intanto Jotaro era tornato.
«Ah– sì, ho visto,» disse mentre prendeva un bicchiere e si avvicinava la cannuccia alle labbra. Ne bevve un sorso, il sapore acre del limone e la punta di sale arrivarono scoppiettanti tra le papille gustative, tanto che prima di parlare dovette strizzare tra loro le labbra. «Certo, potevi avvisarmi che ti stavi allontanando.»
«L’ho fatto,» rispose Jotaro con il sopracciglio sinistro che si inarcava di un millimetro mentre quello destro si contraeva verso il ponte del naso, «ma non mi hai risposto.»
Una vampata di calore tinse di rosso il viso candido di Kakyoin, il quale si rifugiò dallo sguardo di Jotaro voltandosi nella direzione opposta, pronto a cercare un nuovo argomento in cui evadere.
«Ah, guarda! Quel bambino ha un palloncino a forma di medusa!», esclamò indicando con la mano libera quel bizzarro palloncino dai tentacoli di cartapesta. «Che buffo,» aggiunse rilassando le spalle e un altro sorso di limonata lo aiutò a restare con i piedi per terra. «Può essere che ci sia l’acquario qui vicino?»
«Ma pensa te.» Quelle parole punsero il cuore di Kakyoin come succedeva tutte le volte in cui Jotaro le aveva pronunciate in mezzo al deserto, tra gli scherzi con il resto della squadra e le notti trascorse insieme. «Così ti sei rovinato la sorpresa.»
Le sopracciglia di Kakyoin si arcuarono, non pensava fosse quello il posto in cui lo avrebbe portato Jotaro quel giorno. Certo, in realtà si era imposto di non fantasticare su quello che sarebbe potuto succedere perché dentro di sé continuava a insistere su come non si trattasse di un appuntamento.
Nonostante il cuore avesse preso a battere con forza dopo un capitombolo tra le coste, sebbene i dolori alla schiena si stessero diramando fino alla giuntura delle gambe, Kakyoin rimase composto nella sua figura mentre si faceva accompagnare verso la meta che Jotaro aveva scelto per loro.
Il Sumida Aquarium si trovava al quinto piano della maestosa Sky Tree di Tokyo ed era talmente tanto ampio da espandersi anche per il piano superiore. Una volta attraversata la soglia dell’acquario si veniva immersi da un’atmosfera del tutto diversa rispetto a quella dei negozi che lo affiancavano. La luce si faceva soffusa e le chiacchiere della gente meno invasive. Kakyoin, meravigliato dalla bellezza con cui le luci soffuse illuminavano il percorso libero, si perse subito nella prima ampia vasca che, con i brillanti colori del mare, si mescolava all’atmosfera della terraferma.
«Questo acquario ospita duecentosessanta specie marine e ricrea in maniera fedele possibile la condizione ambientale delle isole Ogasawara,» iniziò Jotaro dopo un po’. Kakyoin si voltò a guardarlo, sorpreso di vedere l’ombra di un sorriso sulle sue labbra.
«Davvero?»
L’altro annuì. «È anche un acquario che segue il principio filosofico secondo cui il mare è la culla della vita, di conseguenza c’è una grande libertà di movimento al suo interno. Non esiste una direzione prestabilita verso cui andare, ma ci si muove seguendo la corrente. Quindi: dove vuoi andare?»
«Oh...!» Kakyoin stava ascoltando la voce di Jotaro con talmente tanta attenzione da trovarsi spiazzato alla sua domanda. Gli occhi si spostarono in avanti, dove le ombre dei visitatori formavano banchi simili a quelli dei pesci che si muovevano dietro il vetro delle proprie vasche, ognuno verso una direzione diversa. «Lì, andiamo da quel lato,» disse dopo un po’ indicando un percorso dalle luci aranciate che si apriva verso destra.
Jotaro annuì, bevve un sorso di limonata mentre imboccava la strada.
La prima, immensa vasca che si presentò sotto i loro occhi proponeva un’immensa varietà di pesci e coloratissimi coralli. Kakyoin si fermò a guardare prima di tutto sul fondo e la sua attenzione venne catturata da una stella marina a sette braccia, di un arancione vivo e striature bianche a raggiera.
«Sapevi che le stelle marine non sono pesci?»
«Ah, no?»
«No, fanno parte della famiglia degli echinodermi, come i ricci, perché non hanno le branchie né le pinne.»
«E allora come fanno a muoversi e a respirare?»
«Per muoversi, sotto ogni braccio sono munite di una serie di pedicelli che permettono loro di camminare, mentre per la respirazione sono dotate di un sistema di canali acquiferi, infatti è fondamentale che rimangano sempre immerse in acqua marina altrimenti soffocherebbero.»
Kakyoin annuì una volta appresa quell’informazione, poi tornò a guardare verso la stella – che non era un pesce – e si accorse che questa si era spostata di qualche passo verso la profondità della vasca. Ripresero a camminare.
«Guarda, quella invece è la vasca delle pastinache.»
«...delle cosa?»
«...delle razze.»
«Ah!», esclamò Kakyoin allungando la vocale, le sopracciglia inarcate, prima di lasciarsi andare a una risatina. «Ma parla potabile, allora!»
Risero entrambi, seppure a bassa voce per non infastidire gli altri visitatori – o i pesci, chissà. Mentre si avvicinavano alla vasca aperta, Kakyoin notò con una punta di piacere come Jotaro sembrasse sciolto nel camminare tra i colori di quel luogo, riusciva a immaginare la sua disinvoltura data alla quotidianità spesa in un posto del genere.
«Le razze, insieme a tutti i batoidei, sono pesci cartilaginei. Ne esistono più di seicento specie, pensa che ne esiste persino una specie elettrica.»
«Che figo.»
«Già. E pensa che sono parenti strette degli squali.»
«Degli squali?»
«Sì, per via dello scheletro fatto interamente di cartilagine, come negli squali.»
«Non lo sapevo proprio.»
Sporgendosi oltre il bordo della vasca non era difficile vedere nuvolette di sabbia spostarsi tra le ampie chiazze d’acqua e sotto di esse usciva sempre uno di quegli affascinanti esemplari. Kakyoin sorrise, per un attimo ebbe la tentazione di allungare le dita verso la superficie dell’acqua e sfiorare la schiena di una razza, ma si trattenne. Ripresero, poi, la loro passeggiata.
«Dottor Kujo, buongiorno.» A salutarlo con il cenno di una flessione del busto era un giovane vestito interamente di nero eccetto che per un camice bianco da laboratorio. Jotaro si limitò a rispondere con il cenno della mano che stringeva la limonata.
«Ah, ma quindi lavori qui?»
«Anche.» Kakyoin annuì, dopo una breve pausa Jotaro ricominciò a parlare: «Non è la mia occupazione principale, ma mi capita di dare una mano o di fare da supervisore per alcune vasche.»
«Dev’essere molto bello.»
Questa volta fu Jotaro ad annuire. «Anche se preferisco le immersioni per il controllo dei fondali marini. È tutta un’altra cosa. Il buio è profondo e il silenzio pullula di forza vitale.»
«Sì, lo...» In un flash come di fotografia gli affollarono la mente le immagini dello scontro avvenuto con High Priestess nelle profondità del Mar Rosso. Una fitta lancinante si appropriò delle vertebre meccaniche. Strinse gli occhi e le dita attorno al bicchiere di limonata, serrò le mascelle prima di berne un sorso. «Lo posso immaginare.»
«Va tutto bene?»
«Sì, è solo un po’ di mal di schiena, credo sia colpa dello svenimento di prima...»
«Vuoi fare una pausa? Possiamo sederci.»
«Sì, magari sì, grazie.»
Continuando il percorso, i nostri eroi raggiunsero l’ampia sala con la vasca delle meduse. I vetri che contenevano questi magici esemplari dalle rilucenze turchesi erano alti fino al tetto, la luce soffusa era talmente tanto suggestiva da ricordare i bagliori delle stelle. Al centro della grande sala vi erano tre panche di legno senza spalliera, tutte e tre libere poiché al mattino c’era meno affluenza di visitatori. Fu Jotaro a scegliere di sedersi alla panchina centrale, ma non prima di far accomodare Kakyoin.
Si sedette al suo fianco continuando a mantenere una dignitosa distanza. Finora avevano camminato stando vicini, ma mai abbastanza per potersi sfiorare.
«Sono bellissime,» bisbigliò Kakyoin perdendosi tra i luccicori dei tentacoli. Pensò che sarebbe stato bello dipingere un’immagine del genere, rendere immortale l’eterno movimento dell’acqua e il volteggiare delle luci per renderlo un cielo infinito.
«La bioluminescenza è dovuta agli organi interni, non tutte le meduse hanno questa particolarità. Però esiste una specie, la nutricula Turritopsis, che è stata soprannominata “immortale.”»
Non ebbe il tempo, Kakyoin, di immaginare anche i propri organi interni farsi luminescenti poiché quella parola gli diede un sussulto del cuore. Certe volte aveva la sensazione che Jotaro riuscisse a intrufolarsi tra i suoi pensieri per leggerne le parole chiave.
«E lo è davvero?»
«Sì. Il ciclo vitale delle meduse si divide in fase stazionaria, ossia la genesi e il primo sviluppo in polipi stazionari, e la fase mobile, quella in cui diventano le meduse che comunemente vediamo alla riva. Praticamente, al contrario di altre meduse, lei ha la capacità di tornare alla fase stazionaria nei momenti di stress.»
«Ah, la medusa resiliente,» commentò Kakyoin con una risatina prima di bere l’ultimo sorso della sua limonata e poggiare il bicchiere per terra, vicino ai propri piedi. Anche Jotaro rise, a bassa voce, scuotendo il capo.
Ci furono degli istanti di silenzio, momenti in cui gli occhi di entrambi scivolavano a guardare le costellazioni che si creavano tra i tentacoli. Un dolore al cuore sgonfiò le spalle di Kakyoin quando ripensò a quella volta in cui, sotto il calore delle stelle e il vento del deserto, dopo avere appreso dalle labbra di Jotaro il mito di Castore e Polluce, avevano fatto l’amore. Si pizzicò il labbro inferiore con i denti pur di non sospirare, per fortuna la voce di Jotaro spezzò il silenzio.
«Questo è il punto preferito di Jolyne.» L’attenzione di Kakyoin si spostò sul profilo di Jotaro. Le rilucenze delle meduse mettevano in mostra la linea dritta del naso e quella morbida delle labbra, le minuscole ombre dei pori della pelle facevano risaltare la ruvidità della barba rasata. «Il suo gioco preferito è cercare quella più piccola di tutte.»
Allora Kakyoin tornò a guardare oltre il vetro.
«Sembra un gioco difficile.»
«Sì, infatti vince sempre lei.»
Una risatina si alzò dalle labbra di Kakyoin. «Non hai mai barato? Non ci credo.»
«Te lo giuro.»
«Guarda, lì ce n’è una piccola.»
Gli occhi di Jotaro si aguzzarono verso il punto indicato dal dito affusolato dell’altro. Un sorrisetto di scherno piegò le sue labbra nell’angolo sinistro.
«Quella è più piccola,» disse poi indicandone un’altra a una ventina di centimetri più in basso.
«Bugiardo, guarda, quella è più piccola,» ribadì Kakyoin ma la mano andò a indicare dal lato opposto, sporgendosi come poteva nella nuova direzione in cui aveva trovato una medusa di piccolissime dimensioni spingersi tra i tentacoli delle altre.
«Hai ragione, quella è davvero piccola.»
«Non sei molto bravo in questo gioco.»
«No, decisamente.» Dopo una risata leggera, Jotaro tornò serio. «Sai, Jolyne è nata prematura di quasi quattro settimane. Io non c’ero.» Per un attimo i suoi occhi andarono sul viso attento di Kakyoin, ma tornarono presto sulle meduse. «Ero in Australia per una spedizione da tirocinante, non ci aspettavamo che nascesse così presto. Quando l’ho vista la prima volta era... davvero piccola. Era da sola, nell’incubatrice. C’era questa stanza scura e una sola luce arancione che la illuminava, dormiva a pancia ingiù, incredibile quanto fosse piccola. Anche lei è nata con la voglia dei Joestar sulla spalla.»
«Davvero?» Kakyoin lo ascoltava con gli occhi socchiusi e le spalle curve in avanti, le braccia poggiate sulle ginocchia.
«Sì, vicino la spalla sinistra.» Sospirò, abbassò lo sguardo. «Spero sempre che dei Joestar abbia preso solo quello.»
Non era la prima volta che Kakyoin si trovava a dovere cercare il significato velato tra le parole di Jotaro, ma questa volta era chiaro che si riferisse alla speranza che la bambina non sviluppasse nessun potere stand.
«Che ne sai, magari è scaltra come tuo nonno, oppure gentile come tua madre. O magari è entrambi, sarebbero belle cose.»
Jotaro annuì.
«Sì, hai ragione.» Trafficando tra le tasche del cappotto, Jotaro prese una sigaretta e la infilò dietro l’orecchio sinistro. «Temo che mia moglie non me la farà vedere più. La vedo già molto poco a causa del lavoro, ma con questa storia del divorzio sono sicuro che lei farà di tutto per non farmela vedere.»
Kakyoin si raddrizzò nella schiena, per un momento abbassò lo sguardo.
«Jotaro... sono sicuro che troverete dei compromessi che vadano bene per entrambi, non sarebbe corretto toglierti la possibilità di vedere Jolyne.»
«Non conosci Ariana.»
«Ma sono sicuro che abbia un cuore.»
È vero, non la conosceva, ma in qualche modo riusciva a immaginarla. Non tanto fisicamente, quanto su un livello emozionale. Riusciva a vedere una donna sola, in qualche modo stanca per avere sposato un uomo assente e cresciuto una bambina con il grande sforzo che la maternità comporta. In qualche modo la vedeva un po’ come Harumi, una madre affettuosa e sempre presente per la propria bambina.
«Non voglio diventare come mio padre.» Le parole di Jotaro furono improvvise, le palpebre di Kakyoin sbatterono rapide un paio di volte. «Temo che possa in qualche modo rifiutarmi. Adesso le piace venire con me in questi posti, ma quando crescerà non le piaceranno più.»
«Jotaro, ma perché dici così?»
Jotaro scosse il capo. «È una sensazione che non so spiegare, ma forse è proprio colpa di mio padre. Lui è sempre stato poco presente, ha sempre viaggiato grazie alla sua musica innovativa. Mia madre, poi, lo ha sempre incoraggiato a seguire la sua carriera, cosa che invece Ariana non capisce appieno come da bambino io non la capivo su mio padre. Ha iniziato ad essere sempre meno presente, ha iniziato a saltare i compleanni, poi il natale e alla fine non lo abbiamo visto più. In questo momento non sono nemmeno sicuro di dove si trovi, l’ultima volta che abbiamo avuto sue notizie è stato con una cartolina dall’Europa.»
Kakyoin lo ascoltò in silenzio, ogni parola era graffiata nella voce di Jotaro come da mille ferite accumulate nel corso degli anni. Dopo una lunga pausa, dopo essersi sistemato una ciocca di capelli dietro l’orecchio, i suoi occhi striati di glicine tornarono su di lui e, insieme ad essi, le dita leggere della mano sinistra lo sfiorarono su una spalla.
«Sei ancora in tempo per non diventare come tuo padre.» Sentendosi toccare, Jotaro si voltò a guardarlo – nei suoi occhi c’era un bagliore che veniva risaltato dal brillare delle meduse. Kakyoin sorrideva con la gentilezza che era tipica del suo animo bianco. «Jolyne è ancora una bambina e tu sei giovane ma hai addosso l’esperienza che hai, conosci le meccaniche di situazioni come questa e sai che ci sono degli errori che non vanno fatti. Puoi ancora migliorarti, puoi ancora passare un sacco di tempo con lei quando sei in città. Anzi, ti invito a venire insieme a lei alla mia mostra.»
Un respiro profondo svuotò i polmoni di Jotaro, le spalle si abbassarono di un paio di centimetri.
«La vedo crescere così in fretta che a volte ho l’impressione che il tempo si velocizzi.»
Kakyoin ridacchiò non senza un velo d’imbarazzo, i suoi occhi tornarono verso le meduse mentre la mano si allontanava solo adesso dalla spalla di Jotaro.
«Guarda, non mi dire niente.» Dopo un breve silenzio, Kakyoin aggiunse: «E poi, scusami, perché non vai a trovare tuo padre insieme a lei? Sono sicuro che faresti felici entrambi.»
Jotaro lo guardava con le sopracciglia contratte, l’aria interrogativa messa in evidenza dalle labbra schiuse di pochi millimetri.
«Sì, insomma... hai detto che probabilmente si trova in Europa, no? Se la cartolina era in busta, ci deve essere anche l’indirizzo.»
La naturalezza con cui Kakyoin poneva le soluzioni ai problemi di Jotaro era talmente confortante da portare scompiglio nel petto di quest’ultimo. Il modo in cui il suo profilo si rivolgeva alle meduse, i bagliori freddi del blu che creavano scintille vive tra i suoi capelli bianchissimi e le cicatrici rosate, la quiete dei suoi occhi lilla portava in Jotaro un senso di pace che aveva conosciuto solo nelle notti bollenti del deserto.
«Kakyoin,» la voce di Jotaro era accompagnata dalle sue falangi calde, lunghe verso le nocche di Kakyoin. Questi lo guardò e al contatto del dorso della mano con le dita dell’altro sentì un tremore simile a quello di una scarica elettrica. «Vieni con me.»
«Jotaro, no, non–» Non ricominciare, avrebbe voluto dire mentre si sfilava dal contatto con la sua mano e fuggiva i suoi occhi, ma la presa di Jotaro gli si avvolse ferma eppure delicata attorno alle dita. Kakyoin si voltò di scatto verso di lui, sorpreso da tanta audacia. Gli occhi di Jotaro erano seri, ombrosi nella piega delle sopracciglia.
«Non sono capace di farlo da solo.»
E lo pensava davvero. La soluzione era semplice e brillante, un po’ come erano anche le meduse sotto i loro occhi, eppure non l’aveva mai vista, mai raggiunta se non ora, se non grazie a lui.
«Jotaro, per favore...» Con quelle parole Kakyoin si alzò non senza una smorfia addolorata per il mal di schiena. Un sospiro uscì dalle narici di Jotaro, il quale allontanò lo sguardo e annuì alla sconfitta.
«Sembra che la tua schiena non sia migliorata.»
«No, affatto.»
«Posso accompagnarti alla stazione?»
Kakyoin annuì e così fecero. Passeggiarono silenziosamente fino alla stazione, pochi scambi di fredde parole e una sigaretta si inframezzarono ai lunghi silenzi che li tenevano distanti.
Raggiunsero il binario dopo una bisticciata leggera, nulla di grave, perché Jotaro aveva insistito per comprare il biglietto e attesero uno accanto all’altro che il treno arrivasse davanti a loro. L’aria fredda dell’inverno pizzicava il viso di Kakyoin, il quale si stringeva nel suo cappotto caldo. Il treno si fermò con il suo lento fischiare, i passeggeri iniziarono a scendere non appena le porte si aprirono.
«Allora immagino che ci vedremo quando sarà per la tua mostra.»
«Sì, suppongo di sì. È stata una bella mattina, comunque.»
«Tranne lo svenimento.»
«Tranne lo svenimento,» ribadì Kakyoin abbassando lo sguardo, una risata dolce a tingerlo sul naso.
«A presto, Kakyoin.»
«A presto, Jotaro.»
Si salutarono con un sorriso, senza toccarsi, reggendo a malapena lo sguardo di reciproco amore che si rivolgevano. Ma era davvero amore?, si domandava Kakyoin mentre, di spalle, si allontanava da Jotaro. Ripercorrendo rapidamente la mattina, il modo in cui Jotaro si era preso cura di lui tra lo svenimento e il mal di schiena, la spontaneità mai vista prima con cui si era aperto con lui lo fece riflettere sul fatto che quello, se non era amore, doveva in qualche modo avvicinarsi a quel sentimento.
Si fermò, si morse il labbro inferiore e si girò di nuovo verso Jotaro. Questi era lì, immobile nei suoi occhi glaciali che non lo avevano abbandonato. Prendendo il coraggio con entrambe le mani, a palme piene, Kakyoin percorse di nuovo la breve distanza che li separava e lo raggiunse.
«Hai dimenticato qualcosa?», domandò Jotaro sinceramente perplesso.
«Quando verrai alla mia mostra, chiedimi di nuovo se vorrò venire con te.»
Le sopracciglia di Jotaro si arcuarono, pochi millimetri mossero i suoi muscoli.
«D’accordo.»
«D’accordo.» Mordendosi di nuovo il labbro superiore, Kakyoin si alzò in punta di piedi e schioccò un bacio rapidissimo sulla bocca dell’altro. Jotaro non ebbe il tempo di reagire poiché l’altro era già fuggito dietro le porte del treno, appena in tempo prima che si chiudessero sotto il fischio dell’ultima chiamata.
Kakyoin era scappato tra i corridoi dei vagoni e si era buttato su un sedile coprendosi la faccia. Non aveva il coraggio di guardare fuori dal finestrino, ma allora perché non si era seduto dal lato del corridoio? O addirittura dal lato opposto? Avrebbe potuto farlo, invece aveva deciso di restare lì, con il cuore incastrato nello sterno e il viso che bruciava. Da dietro le proprie dita affusolate, con occhi enormi pieni di vergogna, spiò il biologo marino sul marciapiede. E Jotaro era lì, immobile, smarrito. Poi i suoi occhi si alzarono, incontrarono quelli di Kakyoin e assieme ad essi si alzò una mano. Kakyoin rispose al saluto con il cenno di una mano, poi il treno partì e i loro occhi furono gli ultimi a scollarsi.
Sono un idiota, si disse Kakyoin mentre cercava di seppellirsi nel colletto del maglioncino. Un idiota, un idiota, un idiota.
 
 

_________________________________________

 N.d.A.:


Fun fact – non così fun in realtà: il Sumida Aquarium è stato inaugurato nel 2012, ma le foto davano immagini talmente tanto belle e suggestive che era proprio un peccato non immaginare Jotaro e Kakyoin a muoversi in un ambiente del genere, quindi insomma, bello il potere della scrittura.

Bentornat* nelle note d'Autore!
Questo capitolo mi ha: stremata. Sul serio, che fatica riuscire a immergersi in questo momento cruciale per lo sviluppo della storia-- fra l'altro, vi avviso: siamo agli sgoccioli. O, meglio, siamo agli sgoccioli per questa prima parte della storia! Sì, perché ho intenzione di concludere Habibi per dare poi il via a un seguito impegnativo per me e più scorrevole/divertente per voi! Ma bando alle ciance, vi lascio dicendo che il capitolo di "Come una volta" è in cantiere e spero di riuscire a darvelo per il fine settimana, ma so che in caso contrario mi perdonerete.
Se aveste pareri, consigli o altro sono sempre qui per ascoltarvi.

Un bacio,

iysse ♥

 
   
 
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