Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Snehvide    23/05/2021    3 recensioni
Lo sguardo rimbalza sul pavimento, poi sulla la fiamma immobile del lume sul comodino, sulla grande borsa di tela scura che la caposquadra Hange, in pigiama e giacca da camera, ha trascinato con sé prima di abbandonare il suo alloggio e seguirlo.
Su qualunque cosa non siano le labbra di Marco, così costanti nel gracidare quei suoni sconnessi da un lato e poi dall’altro del cuscino che oramai, Jean dubita seriamente siano in grado di formulare qualcosa di concreto.
Di spalle, su di un ritaglio del letto, Hange assorbe quelle parole con la stessa concentrazione di chi tenta di decriptare dei messaggi nascosti, per poi annunciare, contro ogni aspettativa, un insulso ‘è la febbre, Jean’
Già. È la febbre. E anche una valanga di tante altre cose, o meglio, di non-cose – come ad esempio il suo non-più braccio , il suo non-più occhio, il suo non-più-Dio-solo-sa-cosa.
Grazie tante.
[What-if: Alive!Marco] [Jean/Marco] [Hurt/Comfort a manetta]
Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hanji Zoe, Jean Kirshtein, Marco Bodt
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Never forget we were built to last

“Fa così—” si interrompe, perché è venuta fuori talmente male che Jean non riesce a proseguire.
Ingoia un bolo amaro, ci riprova: “Fa così da tutta la notte—”
Lo sguardo rimbalza sul pavimento, poi sulla la fiamma immobile del lume sul comodino, sulla grande borsa di tela scura che la caposquadra Hange, in pigiama e giacca da camera, ha trascinato con sé prima di abbandonare il suo alloggio e seguirlo.
Su qualunque cosa non siano le labbra di Marco, così costanti nel gracidare quei suoni sconnessi da un lato e poi dall’altro del cuscino che oramai, Jean dubita seriamente siano in grado di formulare qualcosa di concreto.

Di spalle, su di un ritaglio del letto, Hange assorbe quelle parole con la stessa concentrazione di chi tenta di decriptare dei messaggi nascosti, per poi annunciare, contro ogni aspettativa, un insulso ‘è la febbre, Jean’.

Già. È la febbre. E anche una valanga di tante altre cose, o meglio, di non-cose – come ad esempio il suo non-più braccio, il suo non-più occhio, il suo non-più-Dio-solo-sa-cosa. Grazie tante.

“È disidratato, è per questo che delira—” aggiunge ancora, e Jean la vede, mentre inforca le dita tra i capelli di Marco e li pettina all’indietro; la scruta quando tra sussurri e gentilezze, materna lascia che le nocche scivolino su quel viso ricoperto di bende, come se fosse la prima a farlo; come se lui non avesse passato la notte lì, al suo capezzale, a fare la medesima cosa, senza risolvere proprio nulla, e cazzo – cazzo.

È mai possibile che Marco non possa avere niente di meglio?

“Potrebbe dargli—dargli qualcosa?” balbetta, in un mix di vergogna e disperazione.

Hange non risponde. “Sei riuscito a fargli bere dell’acqua questa notte?”

Jean scuote la testa, lei non ne sembra stupita. La cosa lo spaventa.

“Non va bene, deve bere—” sospira.

“Ci ho provato, ma ha iniziato subito a tossire—” e a piangere, e a gridare il suo nome.
Dio, quante volte ha urlato il suo nome? Di sicuro, più di tutti i modi in cui aveva tentato di fargli sentire la sua presenza lì. Ma sono dettagli che Jean tiene per sé.

Hange sospira ancora, poi cambia espressione ed intonazione.

“Marco? Riesci a sentirmi?”

Se l’ennesima mancata risposta a quel richiamo non gli avesse fatto salire il solito conato di bile in gola, a Jean verrebbe quasi da ridere per la pretesa.
E si sorprende davvero quando, per ragioni comprensibili solo a lei, la caposquadra sembra captare il contatto che cercava. Raddrizza la schiena, mugola quasi di gioia.

“Ascoltami,” sorride, la voce morbida con cui parla è una valida alternativa alle carezze elargite sino a pochi secondi prima “Adesso ti toglierò le bende dal viso e darò un’occhiata alle suture. Potrebbe fare un po’ male, ma farò piano—”

Inizia ancora prima di terminare la frase. Si ferma pochi secondi dopo, quando qualcosa la fa esitare.

“Jean,” bisbiglia.
Un cenno della mano ne spiega le intenzioni: “aiutami, sistemiamogli meglio questi cuscini sotto al collo, dobbiamo cercare di muoverlo meno possibile—”

E nel rivederlo lì, Jean scivola di nuovo in quell’abisso da cui la figura di Hange lo aveva temporaneamente schermato; in quell’inferno di carne, fuoco e dolore in cui Marco è rinchiuso, e dalla quale nessuno dei suoi sforzi è riuscito a salvarlo.

“Faccio piano, piano. Sono brava con queste cose, dico sul serio—” lo rassicura ancora, perché quando va sfiorare le bende, il respiro di Marco è già mutato, le sue frasi confuse hanno assunto tonalità differenti, un ritmo più veloce, e poi c’è quella cosa, che cazzo. Cazzo.
Comincia a farlo di nuovo.
Comincia a chiudere quel viso in una morsa così stretta, così sofferta, che Jean proprio non ce la fa.
Non ce la fa ad andare di nuovo lì, a quell’ospedale di merda, a quelle urla strazianti, a quel—

“Ehi—”

La mano di Hange scende sul suo polso, e Jean si accorge che le immagini che sta rivivendo sono solo ricordi dipinti dietro le palpebre che ha stretto.

“Ho davvero bisogno del tuo aiuto.”

Ed è seria. Seria come non l’aveva mai vista prima.
Hange piega il collo, indica Marco con un cenno degli occhi, e Jean ha paura.

“Potrei farlo da sola, ma soffrirebbe più di quanto non farebbe se mi aiutassi. Per cui, aiutami Jean—"

E quell’implorazione, è più di quanto Jean riesce a tollerare.
Annuisce, tira un respiro profondo, e sentendosi terribilmente stupido per aver anche solo esitato, lo fa.
Si avvicina, insinua piano un braccio sotto il collo di Marco, sotto quell’ammasso di sudore, umido e tremante che si ritrova, e lo sistema sui cuscini così come gli viene indicato. Si sforza di non far caso al brusio dei denti che battono all’unisono sotto l’unica guancia integra che ha deciso di accarezzare, si sforza di non sentire né i lamenti né i momenti in cui Marco perde il respiro, per poi ritrovarlo secondi dopo, al ‘va tutto bene’ successivo.
Hange sfila le garze con lentezza, ed è davvero brava come aveva detto.
Lo fa con garbo, e con una delicatezza di cui Jean non la credeva capace.
E’ brava, certo, ma non abbastanza da non farlo urlare in agonia (o almeno, quel verso gutturale strozzato in gola è quanto di più simile ad un urlo le sue corde vocali logorate possano permettersi) nel momento in cui le orrende suture vengono esposte e lei, forse con troppa impazienza, ne va a sondare i bordi.

Si scusa. Allontana le dita, lascia che Marco riprenda fiato e voglia di tornare ad avere qualcuno che lo tocchi di nuovo, prima di ricominciare con quello stillicidio, e davvero – Jean ha una fottuta voglia di sottrarlo a quella tortura, portarlo in un luogo in cui niente e nessuno possa fargli provare ancora dolore, ma sa anche che se esistesse qualcosa di simile entro le due mura rimaste, non lo troverebbe altrove se non lì dov’è.

“Lavorano dei cani, all’ospedale di Trost.”
È Hange a soffiare tra i denti, adesso. Questa volta, i polpastrelli ci vanno cauti sulle suture e Marco resiste.
Rigido e tremante, resiste. “—degli animali, dei macellai!”

“Immagino che lei avrebbe saputo fare di meglio—”

Suona un po’ sarcastico. Non sa neanche perché lo dica, in verità. Sente solo che deve dirlo, perché ha bisogno di dare aria alla bocca con qualcosa che non sia un’imprecazione.

“Oh sì,” risponde lei con prontezza, non coglie l’involontaria nota polemica - “molto meglio. Chiedilo a Miche, o a Erwin, se non ci credi—ho ricucito anche Levi, sai? A volte anche sul campo di battaglia, tra pezzi di giganti, cavalli impazziti, fiamme e fuoco—è stato interessante!"

Jean non ne è del tutto convinto, ma non ha neanche ragione di credere non sia così. Ad essere sinceri, non gli importa neanche granché in questo momento. Marco geme e cerca di ritirare il viso quando Hange sonda una parte della sutura, rossa come fuoco, e che di bello non ha proprio niente. E il fatto che lui, su indicazione, stia premendo le sue mani sulla fronte e sul mento affinché non riesca a sottrarsi a quel supplizio è sufficiente perché senta la vertigine svuotargli la testa.

“Ma in tutta onestà,” continua ancora la scienziata, senza scostare l’attenzione dal punto che sta esaminando “chi non avrebbe saputo fare meglio di questo scempio?”

Hange abbandona il mento di Marco dopo avergli mostrato i punti, a suo dire, più deludenti, prima di piegarsi verso la grossa borsa ai suoi piedi e rimestare al suo interno alla ricerca di qualcosa.

“Comunque, orrende per quanto siano, reggeranno. E non sembrano infette, il che è certamente un bene,”

“Non—non sono infette?”
Se c’è qualcosa in grado di restituire un barlume di gioia in Jean in questo momento, è proprio una notizia simile.

“Così sembrerebbe,” Hange poggia sul grembo quanto raccolto, poi si ferma a studiare ancora per qualche secondo le vecchie lenzuola intrise di sudore, unguenti medici e chissà quale altra schifezza in cui Marco è avvolto dalla vita in giù, come fosse in un enorme sudario.
Si china, il palmo della mano destra interroga la fronte adesso scoperta dell’insolito paziente, prima di raccogliere il panno dal bacile sul comodino, strizzarlo e tamponare per un po’ il collo e le tempie.
Un gesto troppo improvviso per essere del tutto spontaneo. Jean non sa se è la caposquadra ad essere un libro aperto o se è lui ad aver affinato certe doti deduttive, tuttavia, non si sbaglia: è il suo modo di chiedere preventivamente scusa per ciò che sta per annunciare.

“Ma questo non spiega la febbre così alta, Marco. Devo controllare anche le suture della spalla e del torace non lo siano—”

Jean rabbrividisce. Quelle ferite sono le peggiori, Jean lo sa. E Dio, se vorrebbe davvero abbracciarlo, o baciarlo, quando Hange, dopo aver aggiunto e sistemato un’altra serie di cuscini in posizioni strategiche, gli chiede, ancora una volta, di aiutarla a tenerlo in posizione.

Quando, con pazienza, comincia a rimuovere le garze sporche ad una ad una, Jean non sa davvero cosa fare. La verità è che ha a malapena idea di dove poterlo toccare senza strappargli dei gemiti peggiori di quelli che cascano dalle sue labbra mentre Hange porta avanti il suo lavoro, e davvero – non sa cosa fare.
Poi però succede.
Due dita livide e dalle unghie quasi del tutto scomparse, si protendono sino a sfiorare la mano che Jean gli ha  poggiato sul volto, ed è un contatto che Jean non si aspetta – lo coglie impreparato.
È impreparato a Marco che punta il suo unico occhio verso di lui, arrossato ma, dopo tanto tempo, lucido, e lo agguanta. Si aggrappa. Gli chiede aiuto.
E non sa davvero cosa fare, e soprattutto, come fare.
Si limita a scendere sulla sua testa, a chinarsi sui suoi capelli scuri ormai impiastrati di qualsiasi cosa, e sperare che baciando quella palpebra che si chiude sotto il peso delle sue labbra, le lacrime possano confondersi con quelle di Marco, che sono piccole e per lo più incastrate tra le ciglia, e non hanno neppure la forza di scivolargli lungo il viso.

“Queste mi piacciono molto meno, invece—”

E c’è qualcosa di spaventoso in quella frase. Qualcosa di orrendo in quel sospiro che Hange emette a labbra serrate in una linea dritta e severa.
Ha la forza di un gigante raccapricciante, forse il più raccapricciante tra tutti, che si scaglia di colpo di fronte a sé e non lascia via di scampo.
Incauto, Jean solleva di colpo la testa, dimentico di qualsiasi cosa.

Le ferite del petto sono infette, e forse lo sono anche quelle del moncone.
Lo capisce anche senza che qualcuno lo annunci.
 
“Cosa—” ancora quel cazzo di nodo in gola; ancora quella merda. “—cosa significa questo?”

Hange non sente la domanda; sfila gli occhiali, si massaggia le palpebre per un paio di secondi prima di inforcarli di nuovo, poi, ancora a occhi chiusi, sbuffa.
Li riapre solo quando cambia posizione; come sentisse il bisogno di osservare quel disastro che ha di fronte da un’altra prospettiva.
Se prima il fatto che Hange avesse rinunciato ad esaminare le labbra delle suture era sembrata una fortuna, adesso Jean non ne è più tanto convinto.

“Caposquadra Hange—”

“Reggeranno,” esordisce improvvisa, in risposta ad una domanda che Jean non aveva posto. “Sta’ tranquillo, i punti reggeranno,”

Si alza di scatto, come si fosse all’improvviso ricordata di un impegno.
Prima di allontanarsi, ravviva l’acqua della pezzuola sulla fronte di Marco. Visti i precedenti, Jean trema.

“E’ un unguento disinfettante,” dice metodica, consegnandogli ciò che minuti prima aveva raccolto dalla sua borsa “lavati bene le mani, poi applicane una striscia lungo tutte le suture. Fa’ attenzione, mi raccomando. Lo lasceremo deporre per un po’, e al mio ritorno, faremo un nuovo bendaggio—"

“Al suo ritorno?”

Hange è già sullo stipite della porta, il suo sguardo è quello di chi ha appena fallito nell’intento di camuffare qualcosa. Confessa.

“Marco ha bisogno di medicine che non sono sicura di avere. Devo andare a recuperarle all’infermeria del quartier generale, o al limite, prepararle – ma in quest’ultimo caso, ci vorrà del tempo.”

E dal modo in cui i suoi occhi sono corsi a ricercare la figura di Marco, abbandonato boccheggiante su quel letto, Jean capisce che è proprio quello il problema: Il tempo.

Ripensa a quella notte, a tutte le volte in cui si era detto di aspettare ancora, di attendere il suono delle campane, di non disturbare il sonno dei superiori, – prima di mandare al diavolo qualsiasi maledetto buon proposito, e correre a bussare caposquadra Hange con il respiro rotto e le mani tremanti, in un punto imprecisato di un’alba che non aveva sentito arrivare.
E sente la colpa divorargli le viscere.
Sente che Marco è in quelle condizioni anche per colpa sua, e per quanto si sforzi, non c’è niente che riesce a trovare nella sua mente in grado di provargli il contrario.

“Jean—”

Il fatto che Hange abbia sentito il bisogno di mettere un freno alla sua urgenza dovrebbe dirla lunga.

“Avanti, non fare quella faccia!” sorride, ma è un sorriso tutto sbagliato. “Marco starà bene, lo faremo stare bene insieme – stai tranquillo!” trilla ancora, ma non è molto convincente. Forse, non ci crede neanche lei.

Due lacrime, che Jean non sapeva neanche di avere, abbandonano il suo viso precipitando giù silenti e discrete. Hange gli permette ancora di aggrapparsi al suo sorriso incerto, e Jean gliene è più riconoscente di quanto dia a vedere.
La scienziata gli rammenta un’altra volta dell’unguento, di provare ancora a farlo bere, di stare tranquillo, di aspettare il suo imminente ritorno senza alcun timore– tutte cose alla quale Jean annuisce distratto e nervoso, e che solo lo scatto della maniglia – un suono modesto, ma che alle sue orecchie giunge come lo scoppio di un cannone – riesce a mettere fine.

 

(fine prima parte)

 

Note:

Eeeeeeehhhh ho scritto una cosa. Una cosa sulla mia nuova ossessione, dunque perdonate l’eventuale OOC-ness dei personaggi, ma è la mia fic esordio in questo fandom,

Tecnicamente, vorrebbe condensare in uno i prompt ricevuti settimana fa per una challenge del gruppo Hurt/Comfort , ma in pratica, l'idea vera e propria per questa fic mi è venuta l’altro ieri, in un profondo momento di noia. E così, l'ho partorita per Joy che tanto ama Jean e Marco  (e Jean/Marco  ) e mi supporta (e sopporta ) durante le nostre chiacchieratine quotidiane.

NON è betata, l'ho scritta in pochissime ore e sfugge a qualsiasi mio principio e ordine morale e sociale, in quanto non mi sono neanche permessa né di rileggerla più volte, né di farla "riposare", come si fa come la pizza.
Di base, è una sfida contro il mio OCD X°D

Potete considerarla come una fic autonoma così come il primo capitolo di una long o di una serie, visto che sto scrivendo già il seguito (che potrebbe non essere come ve lo aspettate, ve lo dico😂)

Ovviamente, è un tripudio di angst e Hurt/Comfort. Non ha una grande trama.
Tenete presente che è una What-if che vuole Marco sopravvissuto al massacro di Trost.
Jean entra nel corpo di ricerca mentre Marco è in ospedale.

E' ambientata il giorno successivo alle dimissioni (affrettate) di quest'ultimo. Il titolo è preso da You Me at Six - Take on the World

   
 
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