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Autore: Vella    24/05/2021    2 recensioni
Aurora fa cose, incontra, non esplora, cerca di trovare appigli. Là dove è possibile. Squarci di esperienze che costruiscono un'esistenza, dove le scelte si adoperano tra la miriade di possibilità e le parole si condensano per amor di vivere. Aurora guarda, ascolta, parla, ma cosa sente?
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il capitombolo di anime morte che si aggiravano lontane dal parco

Quanta negligente attesa immetteva Aurora su quella panchina poco lontana da casa. Era convinta che se avesse aspettato il giusto necessario, ce l’avrebbe fatta a fuoriuscire senza portarsi appresso un capitombolo di anime morte che soggiacevano sul suo stomaco.
Era un dramma star seduta lì, eppure non c’era tanto di nuovo nella distesa di erba che a poche centinaia di metri si dilatava da lei. Un prato conforme, ch’era un parco. Il suo cellulare squillava di tanto in tanto con strani suoni. Forse non erano strani perché li aveva scelti lei ad un volume abbastanza basso cosicché, se per caso li avesse sentiti, avrebbe potuto far finta di niente. E niente era la sensazione che si appiccicava sul gomito insieme a un moscerino. Nero. Un bambino le andò incontro e le ammiccò un sorrisino pregevole. Lei non se lo lasciò scappare, perché il sorriso di un bambino non si può dimenticare e non puoi girarti da un’altra parte quando certi occhi, che non sanno ancora distogliere e impoverire uno sguardo, ti sbrodolano addosso senza parole.
Non sapeva mai cosa un genitore si aspettasse che facesse quando un figlio rompeva i confini delle buone maniere. Lei, Aurora, si imbarazzava un po’. Finiva di aggiustarsi i capelli dietro le orecchie e di sporsi con aria giocosa, però poi se ne accorgeva. Sì. Che l’aria giocosa non sapeva farla quando finiva col pensarci troppo e che al riflesso dell’imbarazzo, si aggiungeva una pausa dalla vita che non poteva più cogliere. Insomma, quel bambino l’aveva distratta.
“eh!” troppo piccolo per esprimer parole, ma certo era che se di parole ancora non conosceva, allora il pensiero sapeva di limpidità, manchevole di congetture sputate un po’ tra i denti e un po’ sui social. Quanto tempo parliamo senza fermarci? Aurora ci stava pensando mentre il padre li guardava a pochi passi da loro con quell’aria divertita di chi è genitore, ed è piuttosto felice, stanco però di essere tutto il resto.
“Ciao piccolo!” e quando salutava un bambino, Aurora non avrebbe più continuato. Sarebbe arrossita. No, senza sarebbe, è arrossita. Si alza. Sorride al padre. Forse c’è una madre da qualche parte che non riesce a scorgere mentre un’auto passa a tutta velocità e lei, di riflesso, mette una mano sulla testa del piccolo, ma è una mossa stupida che se analizzata, la farebbe vergognare. In fondo, se il bambino si fosse suicidato, quella mano non avrebbe avuto alcun senso.
Proprio come non aveva più senso che lei stesse ancora lì, vicino a quella panchina. Poco più in là c’era un parco e, mentre sentiva il padre dirlo al bambino (“Piccolo andiamo al parco su, dammi la manina”(forse non aveva usato la parola piccolo. forse lo aveva chiamato per nome. Sì, sicuramente lo aveva chiamato per nome.)), lei era già lontana.
Lontano con la mente, avrebbe potuto fare un post. Stava su una di quelle montagne, dove i paesaggi ti spezzano il fiato ma poi te lo restituiscono. In fondo la bellezza vuole donare qualcosa e lei ne sentiva quel bisogno. Invece aveva quel parco a pochi metri, non c’erano grandi paesaggi a donarle un po’ di vitalità. Ma era capace, dio mio, di cogliere l’istante negli istanti? Non aveva idea di come i pensieri si conformassero. Voleva romperli mentre passeggiava in un’altra direzione, via da quel parco, via da quel verde ch’era circondato di asfalto e dal grigiore primaverile. Chi lo aveva detto che la primavera son colori? Se ti guardi attorno, e non fiorisci, quei colori non ti si appiccicano addosso come il niente. L’adesivo che sta dietro le cose belle si perde con una facilità che ti fa proprio incazzare.
La storia di Aurora che incontra il bambino e si alza, e svolta un angolo per non guardarsi le spalle, per non guardarsi manco avanti, dove le punte dei piedi si strofinano con dolore attorno la stoffa della scarpa, è una storia triste.
Poi tornò a casa, che non distava molto, ma dove almeno la panchina non la vedeva più e le scale si prefiguravano lunghe, insensatamente lunghe. Pesanti non più, perché le anime morte nello stomaco la supportavano mentre saliva i gradini. Una o dieci volte. Contava, ma non sempre.
   
 
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