Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: Per_Aspera_Ad_Astra    24/05/2021    2 recensioni
Sono passati esattamente dieci anni dall'ultima battaglia nella città de Il Cairo. Niente sembra minare la tranquillità della famiglia Joestar. Niente fino ad ora.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dio Brando, Enrico Pucci, Giorno Giovanna, Josuke Higashikata, Jotaro Kujo
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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ANGOLO CHIACCHIERE#1: Sono presenti TANTISSIMI spoiler in questo piccolo bimbo di capitolo. 
Spoiler presenti:  Parte 6 "Stone Ocean"
<3 
 





Chapter seven 

Requiem aeternam




 

«Per la quinta volta vieni qui, ti siedi, mi guardi e non dici una sola parola» la montatura sagomata color ossa di tartaruga rifletteva sulle lenti la luce battente del sole che, dalla finestra aperta, entrava liberamente illuminando calda l’intero mobilio antico. Le dita lunghe, diafane si mossero per pizzicare l’asta vicino l’orecchio destro lasciando che i capelli racchiusi in quella acconciatura si liberassero coprendo metà viso.
La donna, seduta comodamente sulla poltroncina di pelle in stile barocco, sospirò socchiudendo le palpebre. Non disse nulla per una manciata di interminabili minuti. Il canto dei pettirossi sui pioppi americani riecheggiavano nella stanza dalla porta chiusa. Una distesa di libri copriva l’intera parete, si affacciavano nomi come Hegel, Dostoevskij, Tolstoj ridondanti in quei tomi accuratamente decorati da dorati arzigogoli, ma anche romanzi più leggeri come le storie per bambini targate Grimm. La scrivania ottocentesca svettava imponente nell’angolo dove la luce del sole batteva diretta illuminando la superficie estremamente liscia e lucida, fascicoli plastificati e carte disposte disordinatamente che davano un’aria più vissuta.
Per un giorno alla settimana, per cinque settimane, era rimasto a fissare ogni minuzioso dettaglio della stanza: dalla disposizione del libri in ordine alfabetico, le cornici lucide e leggermente corrose dal tempo raffiguranti facce sorridenti e smorfie divertenti, attestati in bella mostra su pareti nude  bianche. Ad ognuno di essi aveva cercato di imporre loro una storia che si legasse al contesto, magari, per esempio, il bambino ridente nella fotografia agganciato con un braccio ad un uomo anziano dall’ aria bonaria, doveva essere stato trascinato lì con la forza permettendo alla madre contenta di sfoggiare una fotografia che non lo ritraesse costantemente triste o annoiato; le lauree e gli attestati accuratamente posti sulle pareti bianche rappresentavano la voglia insita di mostrarsi, far credere di essere riuscita a superare i propri problemi di alcolismo, quelli del marito violento solo perché una cartaccia le aveva dato il diritto di sentirsi superiore. Di riuscire a consolare i problemi degli altri annebbiando i suoi.
O forse, chi lo sa, stava dando una visione troppo pessimistica della vita di quella donna, probabilmente dopo anni di studio aveva voluto dedicare la propria conoscenza per aiutare gli altri.
Banale.
La volta in cui fu lui a sospirare abbassandosi sul capo il cappellino nero dalla visiera corta, la psicologa ruppe il silenzio con un colpo di tosse costringendolo a unire gli sguardi. Ci riuscì per pochi secondi, ma ci riuscì.
«Jotaro, intuisco quanto sia difficile per te essere qui. Ho conosciuto diversi ragazzi come te in questa stanza. Chi aveva solamente bisogno di sfogarsi, chi si sentiva tradito da una generazione troppo pretenziosa o chi, solamente, si sentiva abbandonato. Tutti però sono venuti di loro spontanea volontà. Per questo credo di capire quanto per te sia difficile adesso» accuratamente il ciuffo castano morbidamente caduto su metà viso, venne ricacciato dietro l’orecchio piccolo ed ornato da due minuscoli cerchi dorati sul lobo penzolante. Gli occhi di una sfumatura simile al cioccolato cercarono di perlustrare ed andare a fondo oltre le iridi glaciali, la smorfia corrucciata e le mani strette in pugni posati sulle gambe, ma niente, assolutamente niente, riusciva a pescare in quel mare inesplorato; oltre ad occhiatacce e grugniti, le sedute terminavano sempre con un pugno di yen gettati sul tavolo, facendola sentire una puttana ed un forte rumore seguito dallo sbattere della porta. Niente di più. E, ciclicamente, la settimana seguente se lo ritrovava davanti, seduto con le sue due gambe lunghe ed incrociate, stretto in quella divisa scolastica.
Non mancava mai alle sedute, però.
Nonostante stesse in silenzio come un pesce rosso, immobile come una statua, ogni volta che varcava la soglia dello studio lui era pronto ad aspettarla quasi con uno sguardo di rimprovero qualora tardasse di qualche minuto. Che fosse questo l’inizio della sua terapia? Era assolutamente plausibile trovare sollievo, quasi sicurezza, nel ripetere costantemente un’azione, una routine diventandone una ecolalia rassicurante: vederla entrare, sedersi, raccontare di sé e della sua vita, accennare a persone sconosciute sedute su quello stesso divano blaterando dei loro problemi e poi andare via a cuor leggero.
«Voglio darti un compito che possa essere più nelle tue corde» flettendo le gambe, facendo peso sui piedi e dandosi lo slancio con le mani ancorate ai braccioli, la dottoressa Melfi si alzò facendo qualche passo verso la scrivania ancora illuminata in quel pomeriggio estivo cosi caldo, si chinò in avanti e, facendo attenzione a non far cadere tutto il materiale dal tavolo, recuperò un quaderno ad anelli dalla copertina verde bosco porgendolo, poi, al diciassettenne ancora in silenzio ma con uno sguardo curioso. «E’ un semplice quaderno. Vuoto. Prova a scriverci sopra ogni volta che ne senti il bisogno. Sentimenti, pensieri, sogni ricorrenti o anche solo parole che illustrino il tuo stato d’animo,» continuò riprendendo posizione ed accavallando elegantemente le gambe fasciate da nere calze di nylon «puoi farlo in ogni momento della giornata. Puoi anche non farlo in realtà. Quando torni a casa posalo sulla scrivania e dimenticatene... vedrai che sarai tu a cercarlo. Se poi, te la sentirai, potremmo condividere insieme quello che hai scritto. Non dovrai mai parlarmi se questo può creare in te del malcontento. Lascia solo che ti aiuti, però.»
Quella racchia dai capelli corti aveva avuto ragione. Non aveva mai scritto cosi tanto in vita sua, neanche per una ricerca a scuola: arrivato a casa si era dimenticato persino di togliersi il cappello e la tunica scolastica, si era dileguato dalle pressanti domande della madre e, rinchiuso in camera, aveva iniziato a scrivere senza sosta tanto da sentire i tendini della mani dolere. Aveva scritto tutto. Con minuziosità chirurgica aveva scavato in ogni dettaglio lasciando che la punta della biro scorresse da sola,  tirando fuori  quella merda che si era depositata sulle spalle come un peso incombente, come un senso di pesantezza alla bocca dello stomaco cosi penetrante da fargli mancare l’aria. Solo il pianto lo liberò: lacrime calde, bollenti, silenziose, scesero sulle guance scavate arrivando sino alle labbra, sorpassando il mento e cadendo a piccole gocce sulla scrivania scura. Quella volta non cercò di opprimerlo stringendo il labbro inferiore, dando un pugno sonoro e doloroso al muro che aveva già provato quella rabbia incontenibile, oppure fumando una decina di sigarette.
Scrivo solo questa volta. Solo per questa volta, promesso.
La realtà non fu uguale. Le giornate a venire divennero nebulose, portate avanti per inerzia fino al momento della scrittura su quel preziosissimo quaderno che portava sempre con sé. Solo in quel momento riusciva a cacciare via i pensieri beandosi di secondi di vuoto, di pace, comparabili ad un orgasmo potente, deciso, viscerale prima di ripiombare nell’opprimente sensazione di errore. Quasi con fierezza portava il lavoro finito a quella donna dagli occhi dolci e comprensivi che in silenzio leggeva i suoi pensieri e, garbatamente senza commentarli, scriveva qualche appunto riprendendo, poi,  discorsi del tutto fuori dal gusto amaro del quaderno. Non lo rivolle mai indietro, le bastava leggerlo, annuire per un po’ e darlo di nuovo al legittimo proprietario che, quasi fosse una gemma preziosa, lo stringeva al petto coprendolo dagli occhi scrutatori.
L’intera vita del biologo marino Kujo Jotaro era scritta lì dentro.
Questa convinzione lo portò a cercare disperatamente il nome di quel ragazzo dai capelli rossi, il quale urlando il suo nome si era disintegrato con la stessa velocità con cui era sparito il ricordo lasciandolo, cosi, spaesato ed impaurito nella cabina galleggiante del traghetto verso Tokyo. Le grandi mani si erano spostate con bramosia alla ricerca di informazioni tra le pagine, sfogliandole veloci mentre le iridi chiare si spostavano computando ogni singola parola con la stessa velocità di una macchina.
Il primo giorno alla Kyodai riempieva una decina di pagine tra scarabocchi di insetti, ominidi traballanti su funi e frasi sconnesse riguardanti un professore dalla strana e goffa statura. E cosi era stato per i giorni successivi: un copricapo che lo aveva fatto sorridere; la sensazione euforica dopo il primo esame; la scomoda brandina per il suo abbondante metro e novanta; l’incontro alla caffetteria di una fantomatica Anne. Il quaderno, da lì in poi, si era riempito solo delle sue informazioni, di quel nome che scriveva con scrittura piccola e precisa anche durante sproloqui sulla propria vita; lo trovava nella barra di margine, tra un kanji ed un altro.
La frequenza della scrittura, dopo quell’incontro, divenne sempre più rada ed i pensieri si assottigliavano ad una sola frase. Sto bene, scriveva spesso. Una pagina era completamente riempita da questo.
Adesso sto bene.
Adesso sto bene.
Adesso sto bene.

Poi, il soggetto delle pagine, cambiò.








Guardare intensamente l’orologio stretto al polso sperando che la lancetta andasse avanti più in fretta possibile. Aveva sperato che Star Platinum fosse in grado di comandare le leggi del tempo e dello spazio, non solo di fermarlo come era stato possibile fare contro The World. La possibilità di comandare il passato e renderlo migliore per far funzionare meglio il futuro. Una sorta di gomma per cancellare tutti gli errori fatti.
«Kujo. Kujo Jotaro. Può entrare, la aspettano.»
Una voce leggera, delicata, da sembrare riprodotta dal proprio cervello, echeggiò dietro di lui attirando la sua attenzione: una giovane infermiera stretta in quella divisa bianca e rossa lo guardava con occhi contenti e luminosi racchiusi in quel viso paffuto che la mascherina non riusciva a contenere. Con la destra tenne aperta una delle ante a ventola incitandolo ad entrare nella sala dietro di lei illuminata da enormi vetrate che davano sulla sala neonatale.
Sento di svenire.
Credo di morire.
Voglio sparire.

Dovette stringere la mano su una delle sedie che formavano una lunga panca d’attesa per non ritrovarsi a terra con le gambe molli. I passi in avanti li fece aiutandosi quasi fossero un bastone e, quando il sostegno venne  mancare, utilizzò il braccio dell’infermiera che non ritirò la presa. Rimase al suo posto, senza toccarlo, senza domandargli nulla. Rimase lì, al suo fianco immobile per dagli tempo. Tutto quel tempo che fino a quel momento aveva perso, quel tempo che era trascorso troppo velocemente rendendolo uomo, quel tempo, che ora, avrebbe voluto fermare.
Il corridoio lungo si diramava in molteplici stanze dalla porta a vetri abilmente coperti da tendine a soffietto, anch’esse bianche, migliorandone la privacy; tutte erano nominate con dei numeri e delle lettere accanto le quali, probabilmente, identificavano il tipo di degenza.
Quella dove si fermarono era la centoventotto NICU.
La zona intorno a loro sembrava essere deserta nonostante le luci interne alle stanze ed i suoni dei macchinari facessero intendere il contrario; persino parlare veniva difficile. Il soffitto bianco, illuminato da plafoniere tubolari rifletteva sulle mattonelle di resina lucide che distorcevano le ombre delle due persone davanti alla porta. Nel completo silenzio, con una forza di volontà a lui sconosciuta, afferrò la maniglia di acciaio gelida e la spinse verso il basso riuscendo a vedere cosa ci fosse nella stanza.
Sento di svenire.
Credo di morire.
Voglio sparire.

Le iridi di un particolarissimo verde chiaro si mossero per l’intero perimetro bianco ed asettico constatando come, nella stanza, fossero presenti due postazioni ma solamente una fosse occupata. Le macchine producevano suoni cadenzati ma leggeri concedendo una sorta di silenzio artificiale scandito solo dai respiri ritmati dell’uomo; la luce artefatta dalle sfumature violacee e bluastre si univano a quella naturale soffusa dalle stesse tendine bianche che coprivano i vetri della porta, adesso chiusa dietro le spalle possenti e grandi dell’uomo che pochi mesi prima aveva compiuto ventidue anni.
Si, era un moccioso. Se lo ripeteva in testa spesso anche lui.
A breve avrebbe terminato il primo ciclo dell’università: grazie ai voti molto alti sarebbe riuscito a prendere una borsa di studio, sarebbe entrato nel ramo specialistico che più lo intrigava, avrebbe dedicato anima e corpo a ricerche e documentazioni per un dottorato e finalmente, dopo anni e anni di sacrifici, sarebbe diventato ciò che più amava. O almeno questo era stato il suo progetto di vita fino a nove mesi prima.
Lui, di amore, non ci aveva mai capito un emerito tubo. In realtà, nessuna emozione oltre la rabbia e la violenza era riuscito a materializzare, o meglio, a far venir fuori da quella espressione che costantemente corrucciata manteneva il viso. Per un certo periodo di tempo aveva persino pensato di essere asessuato, o qualsiasi altra cosa lo portasse a non avere nessun contatto fisico con nessun essere vivente, nonostante gli anni dell’adolescenza si facessero sentire: neanche gli ormoni di quell’età parvero smuoverlo. Poi, d’improvviso, una sola parola, un solo sorriso, un solo gesto gentile ed il cuore gli era scoppiato in petto, i muscoli diventarono morbidissima pasta e la testa andò completamente tra le nuvole. Non era passato giorno, da quel fantomatico incontro alla caffetteria dell’università, senza incontrarla per chiacchierare di futili conversazioni o scambiarsi importanti appunti. In realtà, aveva capito dopo notti e notti insonne, gli sarebbe bastato vederla ogni giorno della sua inutile ed incostante vita per sentirsi – paradossalmente – felice senza volere altro. Il giorno stesso della celebrazione dei laureandi, volle renderla partecipe di quei sentimenti buttando via quelle parole in un flusso di pensieri, tanto da seccargli la bocca e la lingua conscio di dover salire, poco dopo, sul quell’enorme palco e ringraziare timidamente chi fosse venuto per incoraggiarlo. E lei non obiettò nell’ascoltare la sua posizione. Lo fermò con un bacio.
Il suo primo bacio.
Il suo primo ed intenso bacio.
Da quel momento in poi il quaderno, il suo unico e solo amico e confidente, era stato messo da parte per coltivare quel sentimento nuovo e fiammeggiante nelle ossa; passavano ore tra le lenzuola fresche di bucato tra risolini e carezze, tra i banchi colmi di libri durante gli esami più difficili, tra i cuscini del primo divano che si erano potuti permettere nella loro nuova casa in Florida.
Cosa era successo in quel lasso di tempo?
Perché il tempo continuava a giocare con la sua vita?
Sento di svenire.
Credo di morire.
Voglio sparire.

«Jo,» un sospiro stanco uscì dalle labbra piene e carnose della giovane seduta sul lettino dalle sponde alte e resistenti. «vieni qui.»
Anne gli rivolse un sorriso reale, forse l’unico che aveva visto in vita sua oltre a quelli pieni di pietà della madre e di tutta la casata Joestar-Kujo, e come era solita fare, con il solo sguardo era riuscita a frenare quel moto di agitazione che aveva visto crescere nel corpo del compagno già boccheggiante sull’uscio della porta. Fece qualche passo in avanti, scoprendo solo in quel momento, che tra le braccia di lei, in quel fagottino di coperte era nascosta una bellissima bambina.
Diavolo, si, era meravigliosa.
«Prendila. Prendila in braccio, Jojo.»
Il profilo paffuto, delicato e roseo della piccola si univa alle guance leggermente più rosse, la pelle poco più ruvida a causa dello sforzo dovuto dal parto. Gli occhi chiusi ed il respiro leggero le davano un’aria angelica: lui, con quelle manacce grosse, sporche con cui aveva stretto vite e senza pietà le aveva spezzate, l’avrebbe contaminata, rotta e questo non se lo poteva permettere. Quella creaturina appena nata non doveva subire la sua presenza.
Anne, però, non la pensava cosi. «Mi fido di te. Prendila» gli disse ancora mentre, allungando le braccia, fece leggermente leva lasciando che il piccolo batuffolino potesse essere protetto dalle braccia forti, potenti e grandi del padre.
E’ bellissima. Mia figlia è bellissima.
Tutto quel sentimento di paura, frustrazione e instabilità scomparve in un istante alla sola vista di quel nasino tondeggiante, delle manine piccole e rugose e di quelle labbra a forma di cuore socchiuse per far trapassare un sospiro leggerissimo.
«È nostra figlia,» ripeté come autoconvinzione «è nostra figlia ed è bellissima.» le calde parole si mischiarono al vibrare leggero del pianto che rimase intrappolato tra le lunghe ciglia nere ma, in quel momento, non se ne sarebbe curato. «Benvenuta al mondo, Jolyne. Benvenuta al mondo, piccola mia
 




Ancora, diciassette anni dopo, in quel lurido abitacolo di taxi newyorkese, gli occhi guardavano le linee guida di quel quaderno lievemente sgualcito ma pieno zeppo di parole. Non aveva tralasciato neanche un momento della propria vita ma, ancora non era riuscito a trovare niente sul ragazzo dai capelli rossi, sulla ferita che gli aveva squarciato l’addome e sul modo bizzarro con cui l’aveva redarguito.
Era certo di sapere chi fosse, di averlo conosciuto e di essere stato legato a lui in qualche modo.. ma perché tutto gli continuava a sfuggire?
Persino durante la discussione con la madre e la nonna Suzie Q, non era riuscito a far nulla, nulla aveva fatto per difendere Josuke e non farlo sentire completamente solo in quel marasma di emozioni, e di sensi di colpa che lo avevano travolto.
Era rimasto lì, in silenzio ed indirettamente aveva guardato la scena. Anche lui, senza volerlo, era stato complice di quella carneficina di sentimenti sparsi per terra lasciando, solo, il giovane a raccoglierli con fatica.
«Vuoi… vuoi venire con me per vedere ojiisan?» fu Josuke a cercare aiuto. Essere schietto, diretto e senza freni lo rendeva oggetto di invidia agli occhi di Kujo poiché lui, questo tipo di abilità non l’aveva mai posseduta neanche quando aveva provato nel farlo. Parlare gli veniva difficile cosi come esprimere un’emozione, condividere esperienze o semplicemente conversare. Non erano abilità di cui poteva vantare.
«Credo sia meglio tu vada da solo. Prenditi il tuo momento» ed un mano grande, calda di posò sulla spalla leggermente incurvata e sporgente. Unico tocco che si lasciava concedere: quell’abbraccio sul traghetto era stato fatto in una situazione in cui il tempo di calcolo, per prevedere qualsivoglia risultato, era stato minimo.
Doveva bastargli. Ed a Josuke, bastò.
Con un sorriso accennato lo vide sparire nel corridoio accompagnato da Holy, la quale, non aveva smesso di raccontare aneddoti passati e di sorriderci su, quasi da poter abbracciare il nuovo arrivato anche moralmente.
Come ci riusciva ogni volta, ancora non sapeva spiegarselo.
Probabilmente li stordiva con la sua intensa parlantina. Non c’era altra spiegazione.
Il vento leggero e fresco accarezzava il viso dalla carnagione tendente all’olivastro ma schiaritasi nel tempo, liscio e glabro ma dai grandi e profondi solchi sotto gli occhi scurendogli ancora di più lo sguardo contratto e torvo. Le labbra strette attorno al bastoncino di tabacco rimanevano carnose e modellate ma, anch’esse, parevano aver perso vitalità come l’intero corpo decisamene più asciutto rispetto alla massa muscolare posseduta da giovane.
L’età iniziava a  farsi sentire, non poteva negarlo. A diciassette anni avrebbe spaccato il mondo distruggendo tutto quello che gli si parava davanti con tutta quella energia che aveva in corpo; non riusciva a rimanere a digiuno di sigarette per più di due ore ma non era mai a corto di fiato; il colore degli occhi vibravano per quanto erano lucenti. Adesso, nonostante avesse toccato solamente i trenta, tutto pareva aver un peso enormemente diverso, pesando su di un corpo che non credeva più suo.
Anche ora, fumando quella terza sigaretta sentiva il respiro manca-
«PAPÁ!» non ebbe molto tempo per pensare, neanche per buttare via la sigaretta per cui si era sempre ripromesso di non fargliela vedere, che si era ritrovato agganciato al busto la piccola Jolyne con un sorriso smagliante dai diversi denti mancanti. I capelli scuri erano disordinatamente raccolti in una coda alta e dei ciuffi più chiari le ricadevano sul viso: quella piccola si muoveva cosi tanto che era difficile ritrovarla nella stessa maniera con cui l’aveva vista uscire di casa.
Con un gesto fulmineo aveva gettato via la sigaretta dal balconcino del piccolo patio e, flettendosi sulle ginocchia era riuscito ad arrivare alla sua altezza: fingere con lei era maledettamente semplice. Architettò uno dei suoi migliori sorrisi venendo travolto da quei baci umidi e stampati per tutta la guancia.
«Ti ho sempre detto che non mi piace quando urli.» cercò di rimproverarla nonostante sulle labbra fosse stampato un sorriso strabordante di gioia che dovette nascondere in un abbraccio. Non era cambiata di una virgola. I suoi capelli folti e leggermente crespi odoravano ancora di gelsomino misto a quello shampoo dal sapor di lavanda che la madre si ostinava a comprare.
«Lo sai che— lo sai che, » balbettò ancora fremente dall’eccitazione saltellando su posto mentre strattonava senza sosta il cappotto bianco del padre «la maestra mi ha premiato dopo che le ho fatto vedere il disegno della farfalla? Quella tutta colorata che abbiamo fatto insieme!»
«Avrebbe dovuto premiarti per quello del delfino»
«È nello zaino! » continuò a zampettare contenta lasciando che l’uomo potesse rimettersi in piedi ed osservarla dall’alto «Aspetta qui che lo prendo!» e cosi come era entrata, come un tornado in piena tempesta, era sparita lasciando la felpa e la bambola, lanciate alla vista del padre, per terra.
Lei, invece, era rimasta in disparte ad aspettare che i due potessero nuovamente riabbracciarsi dopo tutto quel tempo separati. Quietamente si era avvicinata facendo passi stretti e continui sorpassando l’uscio della porta finestra ma, mantenendo le distanza adatte all’uomo che da anni ormai, non riusciva a riconoscere più.
«Hey»
Silenzio.
«So bene cosa pensavi di questa nostra visita. Probabilmente non ho ragionato molto, ma Jolyne fremeva ed ero a corto di scuse questa volta. Poi, tua madre è stata cosi gentile da prenotare, per noi, una camera d’albergo e—»
«Potevi semplicemente dire “mi sei mancato tantissimo Jotaro”» le parole soffiate arrivarono alle orecchie di Anne che, sorpresa, non poté omettere una smorfia di meraviglia trasformandola, qualche secondo dopo, in un sorriso divertito dovendolo nascondere per non risultare troppo rossa in viso. Abbassò il capo facendo schioccare la lingua al palato e, nello stesso momento, spostò lo sguardo altrove mantenendo le mani in tasca.
Che brutto vizio le aveva insegnato.
«Dickhead» pronunciò con il suo marcato accento americano e, senza che l’altro potesse replicare, avanzò passi tali da spezzare la distanza e serrarla con un bacio sottile, schioccato ma che fece rimanere sulle labbra di Jotaro quel sapore che non sentiva più da tempo.
Jolyne, rientrata in scena, aveva mostrato contenta il disegno ancora in bianco e nero rappresentante uno scarabocchio ben formato dalle sembianze di un delfino. Qualunque fosse il gene responsabile, era certo non avesse preso da lui: se non fosse stato per Star Platinum le uniche cose capace di rappresentare su di un foglio bianco comprendevano delle linee e dei pallini. E sinceramente, prima di capire quanto il disegno fosse utile, gli era bastato. Jolyne, invece, non era mai contenta dei propri limiti.
Era pronta a spingersi continuamente oltre, a provare strade nuove e ammettere lo sbaglio qualora lo avesse commesso: nell’albo dei suoi dieci anni, poteva dire fermamente, aveva vissuto con molta più risolutezza e decisione della propria intera vita.
Non contenta del lavoro svolto, si era ritirata nuovamente all’interno dell’appartamento rovesciando l’astuccio rosa zeppo di brillantini, facendo fuoriuscire l’enorme quantità di colori sul tappeto scegliendo quelli che l’avrebbero aiutata a migliorare il disegno.
Jotaro, spiata la situazione all’interno, aveva afferrato la seconda sigaretta che aveva nascosto dietro l’orecchio portandola tra le labbra per accenderla con un movimento veloce delle dita  contro l’accendino.
«Dovresti smettere di fumare.»
«Me lo dici ogni volta che mi vedi accenderne una.»
«Significa che è una cosa che voglio che tu faccia.»
Silenzio.
«Come… come è andato il viaggio?»
Silenzio. Ancora. Jotaro era troppo impegnato ad ignorare le sue domande e fumare la sigaretta per poterle rispondere.
«Vuoi ignorarmi perché sai già dove voglio andare a parare.»
«Mhm.»
«Jo, almeno ascoltami.»
In silenzio voltò gli occhi verso di lei facendole capire che forse non l’avrebbe ignorata ancora, almeno per quel momento.
«Tra un mese e mezzo saranno dodici anni che ci conosciamo. In realtà, sono dodici anni che devo pagarti la parcella della tintoria.. strano non me la chiedesti la prima sera che siamo usciti.»
«Non continuare.» lapidario la fermò.
«Jo, non mi hai fatto neanche inizia—» tentennò incerta spostando il peso del corpo esile su di un piede, andando leggermente in avanti, sperando in qualche modo di azzerare la distanza che costantemente Jotaro si imponeva di mantenere.
«Appunto,» continuò abbassandosi la visiera del cappello sul viso «non voglio sentire altro perché so già dove vuoi andare a parare ed io non voglio ascoltarlo»
Gli occhi verde smeraldo non si alzarono mai sulla figura davanti a lui portandoli a guardare le punte dei grattacieli, i piccolissimi puntini che dall’alto di quel luogo potevano ammirare. Solitamente, o almeno prima che qualcosa in lui gli facesse mollare l’ancora, non riusciva a intrattenere un discorso senza guardare negli occhi l’interlocutore: sapeva bene, infatti, di riuscire a studiarli nel minore dei dettagli e anche, di intimorirli. Con lei, però, questa tecnica, non aveva mai funzionato.
«Inizierai ad intortarmi la pillola amara spiegandomi quanto bene siamo stati insieme, quanto siamo cresciuti e quanto ci siamo formati. Mi parlerai di cose che sai bene ne sia consapevole ma che, nonostante questo, io non abbia fatto in modo di cambiarle. Mi parlerai di troppi cambiamenti nella tua vita che prima potevi accettare ma che ora, non ne sei più disposta a fare. » le parole uscirono velocemente, sradicando ed abbattendo ogni muro creatasi tra di loro ma, la calma che contraddistingueva l’uomo rimaneva lì presente lasciandolo parlare in modo scandito e preciso; era come una magia – o forse prestigio – il modo in cui riusciva a combinare il suo essere calmo e pacato con l’emozione ridondante della rabbia presente negli occhi
«Nel momento in cui le tue labbra la pronunceranno, questa tua idea si concretizzerà ed io sarò costretto ad accettarla. E no, non voglio assolutamente» gracchiò rauco sentendo la gola bruciare « Pensi che non abbia visto i documenti per il divorzio che avevi preparato? Che non senta come ogni sera, nelle poche volte in cui possiamo dormire nello stesso letto, fai in modo che Jolyne si metta tra di noi azzerando qualsiasi contatto? Se te ne avessi parlato tu saresti stata costretta a dirmelo e ne avremmo dovuto parlare.» la piena ammissione di Jotaro e la sua solita schiettezza lasciò interdetta la donna davanti a lui con le mani strette forti in due pugni lasciati cadere vicino ai fianchi. Come il biologo, anche Anne non era solita mostrarsi in eccessivi sbalzi umorali, ma dopo quel discorso le era praticamente impossibile non lasciarsi andare. Trattenne il respiro sperando di fermare la contrazione involontaria del diaframma che la colpiva, spesso, durante i suoi picchi di ansia ed agitazione: avrebbe voluto spiegargli tutto e fargli capire come realmente andavano le cose ma, nuovamente, Jotaro la fermò «Mi prenderò carico dell’amore che tu in questo momento non puoi darmi. Lo farò io per entrambi.»
Amore.
Tutto l’amore che poteva donare era stato calpestato dall’unica persona ad essere stata in grado di guardarlo oltre il proprio aspetto, passare oltre ad un atteggiamento ostico ed oppositivo.
Lo stesso amore che, adesso, era assente negli occhi della salvatrice.
Se perfino Lei avesse perso le speranze a lui restava solo un’ eternità di inesistenza.
Pensò a quello sentendo la stretta feroce sul polso una volta sorpassata per rientrare dentro e capire cosa, realmente, la piccola stesse combinando: quella stessa presa cosi forte che solo a lei era concessa. Un altro si sarebbe ritrovato con in naso sanguinante ed un braccio contuso.
«Lasciami.»
«Se avessi voluto farlo, lo avrei fatto da tempo.» aggiunse solo lasciando la presa ma sfiorò le dita grandi e ruvide, e queste, stranamente, rimasero lì in quel contatto che tanto avevano aspettato.



«No! Non il verde chiaro, quello scuro, voglio il verde scuro!» sbottò come una cornacchia Jolyne puntando le mani sul tavolino basso cercando di allungarsi oltre la figura del padre che, imponentemente, si metteva tra lei ed i suoi preziosissimi pennarelli dalla punta grossa.
«Devo colorare prima questo prato,» disse lui con lo sguardo attento posato sui contorni precisi di quel disegno decisamente astratto che, ritraeva, un immenso prato verde ed una miriade di animali ovviamente lontani anni luce da quel habitat «tu che devi farci?» alzò lo sguardo notando le dita piccole e paffute tamburellare sulla stampa di un delfino dai colori sgargianti ed accesi «spero non sia per quello.»
«Ma dai, papà! Non lo devi vedere!» continuò a dire alzando la voce facendola diventare sempre più stridula mentre cercava di coprire con le braccia sottili e nude, il disegno che doveva essere – ovviamente – una sorpresa.
«I delfini sono grigi, Jolyne— » con le braccia conserte ed un aria saccente che poco gli si addiceva, Jotaro, avrebbe iniziato il suo consueto spiegone sull’importanza del colore grigio dei delfini, sulla loro mimetizzazione e su una miriade di concetti che la piccola Jolyne aveva sentito persino come ninnananna e, se non fosse stato per il brontolio del suo stomaco, li avrebbe sentiti ancora adesso.
Il gorgoglio continuò per alcuni secondi tanto da farle mettere due mani su di esso per coprirlo dalla vergogna ma, lo sguardo divertito del padre alla vista della scena, scacciarono quel rossore timido che era apparso sul viso.
«Ritieniti fortunata che la nonna ti abbia preparato la torta alle noci» le parole si unirono ai movimenti. Si alzò districando le gambe incrociate sotto il tavolino e, con un movimento delle ginocchia, si mise in piedi sui propri abbondanti metri d’altezza. «Colora bene il disegno.» cercò di redarguirla ma, il movimento della mano sul ciuffo scomposto dei capelli della bimba provocarono un effetto del tutto diverso.
Nonostante il completo silenzio dell’appartamento posto al cinquantesimo piano dell’immenso grattacielo, i passi di Jotaro risultarono inudibili sebbene la sua stazza ed i suoi movimenti non risultassero sempre molto delicati. La cucina, cosi come le altre stanze di cui aveva memoria, erano rimaste tali e quali ai suoi ricordi d’infanzia tanto che muoversi in quell’ambiente gli risultò facile: Holy aveva lasciato in bella vista la torta che aveva preparato con amore e che, molto probabilmente avrebbe voluto offrire lei alla piccola.
Se ne sarebbe fatta una ragione.
La grande mano destra afferrò l’impugnatura del coltello affilato intanto che la lama entrasse morbidamente nel ripieno della torta sprigionando un intenso odore di cannella e zucchero. Una noce pecan rotolò sull’alzatina di vetro e, in men che non si dica, finì tra le labbra  dell’uomo che non poté fare a meno di assaggiarla anche lui: quel dolce sapeva di casa, di tutti i ricordi in compagnia di una famiglia che ora vedeva persa e lontana.
Una tazza di caffè avrebbe aiutato a fargli digerire il boccone amaro che la mente stava iniziando a partorire.
«Ne gradiremo una anche io ed il mio collega»
Jotaro, di spalle alla porta, non si accorse subito dell’entrata dei due uomini ora posizionati entrambi uno vicino all’altro. In realtà non ebbe neanche molto tempo per razionalizzare i loro volti, i loro sguardi ed il modo in cui comodamente lo intrappolarono. Ci volle tempo prima che, voltandosi, riuscisse a capire che realmente quei due uomini avessero ben poco in comune con la Fondazione Speedwagon e che, molto probabilmente non avessero dato la men che minima attenzione al corpo morente di Joseph.
«Dio.» furono le uniche parole pronunciate prima che The World, scintillante nell’armatura dorata, venne evocato dietro il primo uomo dal viso completamente coperto di graffi e rughe azionando il suo potere. Tutto si fermò tranne per il portatore decisamente irriconoscibile dentro quel corpo non suo.
«Oi, oi, oi, oi…Jotaro » pronunciò scandendo ogni sillaba facendo rimbombare ogni passo nella stanza completamente immobile, consapevole che, il proprio interlocutore avrebbe ripreso presto conoscenza «le mie sentite condoglianze per il vecchio. Dovresti dare una controllata più approfondita la prossima volta che decidi di lasciarlo per tanto tempo da solo. Sai, non sai proprio di chi fidarti al giorno d’oggi—»
«Yamero» lo stridio gutturale parve rompere le corde vocali di Jotaro ancora immobile nella presa tempo/spaziale di The World ma ormai consapevole di conoscere benissimo chi avesse davanti; per un piccolissimo momento sperò di essere ricaduto nei suoi soliti momenti di trance dove una cantilena ecolalica lo avrebbe riportato alla realtà ma, il suo subconscio cosi profondamente legato ai ricordi, non avrebbe mai potuto formulare una rielaborazione del presente cosi capziosa.
Star Platinum si mosse alle sue spalle volteggiando come sott’acqua ma, sebbene il suo pugno fosse rimasto della stessa velocità di diversi anni prima, la precisione di The World di fermare il tempo parve migliorarsi. Jotaro, consapevole, ne ebbe paura e Dio, guardandone i risultati gongolò «Non pensarci neanche, verme. Ho passato tredici anni a meditare su questo momento e non sarà il tuo impotente guerriero maya a distruggere i miei piani,» l’uomo, nel parlare, pareva sgretolarsi ad ogni parola come se il tempo, per lui, invece di fermarsi, stesse andando più velocemente accelerando il processo di invecchiamento « hai distrutto completamente tutto quello che mi legava al corpo terreno obbligandomi ad una eternità di completo nulla. Tredici anni di sofferenza dove nessun corpo poteva ospitarmi, nessun essere umano che avesse la forza e la bontà d’animo paragonabili a Jonathan… e poi di nuovo tu. Tu e la tua famiglia che mi donate nuovamente una vita» lo Stand dorato appoggiò i piedi sul parquet di legno sostenendo il portatore decisamente affaticato da quella prova mentale ma, nonostante ciò, fosse ancora in grado di gettare veleno e godesse nel farlo «Joseph Joestar mi salva la vita per la seconda volta» ridacchiò mostrando i denti gialli e scheggiati sotto una bocca rugosa e screpolata «lui e suo figlio… come si chiama quel moccioso, Josuke? L’ultimo sei rimasto tu. Proprio per te sono qui, per pareggiare i conti che sono rimasti aperti per troppo tempo.»
Il tempo riprese a scorrere e lo Stand bluastro dai grandi e possenti muscoli definiti si scaraventò senza successo oltre le due figure ancora in piedi lasciando che, il portatore contraesse lo sguardo in una espressione tra il furioso ed il terrorizzato.
«Significa che questa volta dovrò riempirti di cazzotti.» si lasciò andare in quella retorica frase atta solo a prendere tempo per studiarne la situazione: Dio, dopo tredici anni dalla sua morte, era riapparso davanti ai propri occhi. Come nei peggiori dei suoi incubi tutto era ritornato da capo.
«I tuoi non ti hanno insegnato le buone maniere? Ad essere un gentiluomo? Lascia che ti presenti il mio amico… Enrico, presentati pure.»
Da dietro l’ombra dell’esile corpo martoriato dell’uomo che diceva di chiamarsi Dio, sgusciò un ragazzo dall’aria decisamente pulita in contrasto con la malvagità che negli occhi era possibile vedere. Non disse nulla. Evocò il suo Stand con la sibilante parola “Whitesnake
«E’ tempo, per te, di risanare i conti, Jotaro. Non ho intenzione di farti uccidere poiché sarebbe una perdita di tempo, ma solo di farti assaggiare la tua stessa pillola. Goditi un’eternità di completo nulla. » mormorò facendo dei passi in avanti avendo, nuovamente attivato The World ora capace di fermare il tempo per undici secondi «Ah! Quasi dimenticavo. Non preoccuparti per Jolyne, me ne occuperò io.»
Buio.
Poi la luce.
Poi di nuovo buio.



Mi chiamo Kujo Jotaro ho da poco compiuto diciassette anni…no, che sto dicendo.
Mi chiamo Kujo Jotaro ed ho trentadue anni, si.
Ho frequentato la Kayodai ed ho un dottorato in biologia marina. Sono sposato ed ho una figlia di nome Jolyne.
Mi chiamo Kujo Jotaro e credo di essere morto.









ANGOLO CHIACCHIERE#2:  Bentrovat*!
Sono super contenta di essere tornata dopo una settimana di fermo. Questo, come lo scorso capitolo, mi ha dato non poche difficoltà ma - nello stesso momento - credo di essere riuscita, in qualche modo, ad esprimere i primi indizi di questa storia intricata. Voglio dirvi subito che "Un'altra volta ancora" non avrà vita lunghissima: tra qualche capitolo potremmo chiudere questa breve lettura particolare della famiglia Joestar <3 Posso darvi - PERO' - un piccolo spoiler: ci sono delle ideucce per altri bei lavoretti che... potrebbero avere tematiche molto differenti * inserire risata malefica  *
Cosa dirvi a riguardo? Volevo pubblicare questo chap tempo prima ma, si lo so sono cattiva, sono sicura che per qualche tempo non pubblicherò il prossimo ancora in cantiere e.... si questo capitolo è proprio spezza trama! (cosi, per farvi rimanere un po' sulle spine)
So di non essere molto brava con i salti temporali e che molto spesso, per citare i flashback, si usa il corsivo ma per rendere la storia più fluida ho voluto """"""provare""""" in questo modo.
Spero davvero che possiate apprezzare questo capitolo e la storia come la sto apprezzando anche io mentre la scrivo e, rinnovo il ringraziamento, a tutti coloro che lasceranno un commento a riguardo e perderanno del tempo a leggerla <3
Buonanotte e buona lettura da letto <3 <3


SpeedMary
  
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