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Autore: Lodd Fantasy Factory    25/05/2021    0 recensioni
Non ho tempo per le introduzioni. Devo raccontare questa storia, e voglio farlo il prima possibile. Prima che qualcosa mi possa fermare... prima che loro... sono dietro ogni angolo. Sono nella mia casa... cancelleranno tutto. Persino me...
Genere: Dark, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Enrico e Philipp Lloyd

 

 

 

Il fuoco si propagò dall’involucro tra le mani del Widjigò, investendolo e proseguendo sino al salice alle sue spalle; la creatura non ebbe neanche il tempo di ponderare una reazione: rimase travolta e tramortita dalla potenza del fosforo, il quale sciolse la sua pelle e ne consumò i tentacoli.

Una lingua di fiamme, propagatasi sino all’alcova di Enrico, arse all’istante le creature che avevano tentato di sbranargli il volto. Ma se da un lato aveva contribuito a liberarlo dalle radici che lo avvolgevano, che si ritrassero per evitare che le fiamme risalissero da esse sino al salice, dall’altra il calore lambì anche il suo corpo. Sentì un bruciore incredibile allo stesso occhio che era stato morso: le ciglia, il sopracciglio e un buona parte dei capelli attorno all’orecchio destro erano svaniti, e la pelle presentava rughe da scottatura.

Enrico rotolò sul pavimento roccioso, irregolare, credendo di dover spegnere le fiamme, ma quella sensazione di tremendo calore non lo avrebbe abbandonato. Quando ritornò in sé, aveva la vista annebbiata, sfocata: cieco per metà. Tuttavia, gioì nel vedere il fuoco arrampicarsi sul salice, e l’entità nell’ambra contorcersi per il terrore, scuotendo le ali nel disperato tentativo di allontanare le fiamme, sortendo invece l’effetto contrario, alimentandole.

Terrore: era esattamente ciò che Enrico vide in quella folle agitazione.

“Anche gli Antichi hanno paura di qualcosa!” il suo commento esplose come un grido di liberazione.

Il male che si annidava in quella grotta però non era ancora stato sconfitto, ed Enrico pagò la sua distrazione: una delle teste gli avvolse le gambe e, con una forza spropositata, lo tirò su come un sacco di patate. A vedersi, era fisicamente impossibile quel gesto!

Da quella prospettiva, Enrico notò come tutte le estensioni di Màlk-ar-Sùm si stessero impegnando per limitare i danni, letteralmente sacrificandosi per arginare le fiamme. Alcuni di quegli esseri rosicchiarono l’albero per farne staccare delle parti, altre disperdevano i loro fetidi liquami, talvolta alimentando il fuoco. I versi dell’entità contenuta nell’ambra si fecero impazienti, feroci.

“Zhùt! Vile indiano!” ruggì Lloyd, e la sua voce suonò come il verso agghiacciante di un gufo. Aveva il volto sciolto per metà e il corpo devastato dagli effetti del fosforo. Nessun essere mortale sarebbe sopravvissuto a qualcosa di simile!

Si sollevò sospinto da un’energia tetra, e raggiunse Enrico, famelico.

“Rituale o meno, riavrò ciò che è mio!”

“Questa storia è iniziata col tuo sangue. È dovrà concludersi allo stesso modo!” rispose il giovane, scagliandogli qualcosa contro, ma che l’entità evitò senza difficoltà.

“Hai fallito, ragazzo. Come il vecchio. Come gli altri prima di te.”

Fu in quel momento, però, che il Widjigò notò qualcosa di strano in ciò che aveva abbandonato le mani di Enrico per affondare dritto al centro della testa che lo teneva prigioniero: la pietra di Zhùt, spaccata per metà. Nonostante avesse rispettato il suo avversario quasi un secolo, Philipp non aveva considerato nel giusto modo le ultime parole del vecchio Sciamano: “le nostre famiglie dovevano essere unite nel fallimento.” Mi piace immaginare che quella frase continuò a tormentargli i pensieri sino alla fine.

Enrico sbatté a terra, fratturandosi il braccio sinistro e spaccandosi il sopracciglio sopra l’occhio ormai opaco, bianco, ma da quale ancora gli riusciva di vedere l’entità davanti a sé, come una sorta di alone di luce rossa. Un secondo alone, azzurrognolo entrò poi nel suo campo visivo, in alto, slanciato in un lungo balzo.

Philipp Lloyd lo notò solo all’ultimo: nel caos generato dalle fiamme, una ragazza era riuscita a sgusciare all’interno della grotta, aprendosi un varco sino alla sala del rituale e, spiccando un lungo balzo, si era lanciata dagli spalti verso l’entità trattenuta solo da un fatale frammento d’ambra; tretta in entrambe le mani, metà della pietra di Zhùt. Solo un diretto erede dello Sciamano avrebbe saputo fare qualcosa di simile, ed anche quell’ultimo dubbio su Enrico era stato fugato.

Ciò che Enrico e Zhùt avevano tralasciato nel loro piano, era il fatto che Màlk-ar-Sùm fosse pieno di risorse: l’albero reagì in risposta a quel balzo, allungando un ramo e impalando la ragazza a pochi centimetri dal suo obiettivo: la trapassò da parte a parte, imbrattando di sangue quel vestito scuro, tipico dei seguaci di Anduin; altri suoi confratelli e consorelle erano morti all’esterno per consentirle di arrivare sino a quel punto. Un rivolo di vermiglio le abbandonò le labbra in un gemito disperato. Eppure, la donna non diede segni di volersi arrendere.

L’ala dell’entità sferzò sul viso della ragazza più volte, in un moto di rabbia, aprendole diversi squarci sulla guance, attraverso i quali era possibile vedere la dentatura. Il sangue colò copioso, e il terrore riempì i suoi giovani occhi azzurri.

Enrico vide tutti i suoi sforzi sfumare, così come era toccato a Zhùt nella visione che aveva avuto di quel lontano Settembre. Fu la disperazione a farlo muovere, seppur debilitato: scattò verso la pietra, e scartò poi di lato l’attacco di Philipp, arrivandogli vicino; ma non fu abbastanza rapido, perché le mezze fauci del Wedjugò si avventarono sul suo collo.

Enrico rimase paralizzato per un secondo, certo di veder la vita sfumargli davanti agli occhi. Tuttavia, non avvertì alcun dolore. Avvertì l’odore putrido della creatura misto a quello tossico del fosforo che l’aveva mutilata, e percepì quelle gocce di linfa oscura colargli sul viso, quasi fossero una specie di carezza.

“Hai detto bene, figliolo. Tutto per questo momento. Ti ho atteso così a lungo…”, disse Philipp Lloyd, e la sua voce suono per un breve istante umana, esattamente come Enrico l’aveva sempre immaginata: calda, rilassata, la voce di un uomo che aveva vissuto troppo anni nell’oscurità. Infine, aggiunse: “Inizia col mio sangue. Termina con esso. Grazie…”

L’albero venne scosso dalla rabbia dell’entità, che vide la sua prima estensione ribellarsi alla volontà di Màlk-ar-Sùm, così come era stato progettato sin dall’inizio. Quel gesto favorì la ragazza impalata, che si trovò per una frazione di secondo più vicina al suo obiettivo e, nonostante le sferzate del mostro, non perse occasione di affondare la pietra in quel ventre mostruoso con un ultimo grido disperato. L’entità martoriò il corpo della giovane con le sue ali e gli artigli, sinché il corpo non precipitò ai piedi di Philipp Lloyd, portandosi dietro la mezza pietra di Zhùt: un cono putrido venne vomitato fuori dal cuore pulsante dell’albero, acido, tale da consumare quel che restava della giovane, cancellandone l’esistenza fisica, ma il suo ricordo avrebbe perdurato in eterno.

Enricò affondò solo allora la pietra al centro del ventre del Wedjigò, dove sapeva che avrebbe trovato il cuore. Il suo grido stridulo fu agghiacciante.

La grotta tremò.

 

 

Quella notte, la città fu scossa da un rapido e tremendo terremoto.

Poi, vi fu il boato incredibile nel cuore della notte: le restrizioni imposte dal coprifuoco fecero in modo che nessuno fosse in transito sul ponte dei suicidi, che crollò su se stesso, nascondendo in eterno le grotte al di sotto e gli orribili segreti celati al loro interno. Si sollevò un polverone che inghiottì l’intera città.

 

 

 

Mi salvai solo grazie ai dolori che mi spinsero a raggiungere l’ospedale più vicino, nel cuore della notte, poco prima del terremoto. Vidi i palazzi tremare attorno a me, e udii il crollo della vecchia casa di Enrico. La abbandonai perché ero certa che lui non avrebbe più fatto ritorno. In cuor mio, sentii quella verità nel profondo della mia anima.

Alle prime luci dell’alba raggiunsi l’ospedale, dove mi avrebbero trattenuto per diversi giorni. Utilizzai il terremoto come scusante per le mie condizioni. Ricevetti tutta l’assistenza possibile. Non avrei più avuto un braccio, ma ciò che mi diede più il tormento fu il fatto che molti che avevo conosciuto non vi sarebbero più stati nella mia vita.

Ero sola. Ma quello era il prezzo da pagare per la salvezza del mondo.

Nessuno dei cittadini sarebbe mai venuto a conoscenza dei veri fatti di quella notte, e non ci sarebbero stati funerali d’onore per gli uomini e le donne che avevano dato la loro vita per difendere l’umanità dal caos di un’entità venuta da altri mondi.

Tutto sarebbe rimasto nell’oblio.

L’umanità non era ancora pronta per conoscere quella verità.

Forse non lo sarà mai.

   
 
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