Alièno.
Tutto sommato non era così male. Un po’ duro di comprendonio, ma era una brava
persona (persona?).
«Mikitaka! Riesci a fare quella cosa col gelato…? Anzi, aspetta! Dei pancake, ecco!
Ci faresti dei pancake?» chiese Josuke con un sorriso a trentadue denti.
L’interpellato frugò nella propria borsa ed estrasse un piatto fumante della
pietanza richiesta con l’aggiunta dello sciroppo d’acero. Entrambi sorrisero.
Davvero strana quell’amicizia.
Bèllo.
Mentre Polnareff gli dimostrava il proprio affetto piantandogli una sonora
pacca sulla schiena, Kakyoin si sentiva la persona più fortunata del mondo. Quello
che provava era così bello che non riuscì a spiccicare parola.
«Guarda che così lo rompi» sentì grugnire Jotaro.
Vi voglio bene, ragazzi.
Campàre.
«Quanto aveva quel tizio che hai rapinato?»
«Bazzecole, soltanto venti sterline».
Speedwagon imprecò e sputò per terra. Non mangiava da tre giorni, ma faceva lo
stesso perché tanto nessuno pensava ai disgraziati di Ogre Street.
Un cane smunto passò per caso e li osservò con lo sguardo disperato di chi era
destinato a morire di stenti.
Ecco, lui era esattamente così: un randagio al quale nessuno avrebbe porto una
mano.
Davvéro.
«Da-davvero?!» esclamò Suzie Q rossa in viso.
«Davvero!» Joseph le prese le mani e se le portò al petto «Sposiamoci adesso,
da soli, io e te! Vuoi?».
La ragazza rimase interdetta. Il cuore le batteva così forte che si sentiva
quasi svenire.
«Sì, sì, lo voglio! Adesso! Immediatamente! Voglio che tutti mi chiamino la
signora Joestar!».
Gli gettò le braccia al collo e gli scoccò un bacio inaspettato sulle labbra. Non
poteva essere più felice.
Episòdio
Era consuetudine di ogni genitore rispondere a quella domanda, prima o poi.
Era un episodio abbastanza consueto durante il corso della vita di un adulto.
Di conseguenza, Jotaro scacciò le avvisaglie dell’imbarazzo e prese un libro
illustrato dalla sua biblioteca personale, poi sollevò la figlioletta in
braccio e se la mise seduta sulle ginocchia.
«Allora, Jolyne, guarda queste figure» iniziò a spiegare «come avrai intuito,
sia i bambini che i cetacei nascono dall’unione di una mamma e di un papà…».
Fiorètto.
«Che cosa sei?».
L’omino grigio non rispose, si limitò anzi a osservarlo coi suoi grandi occhi
azzurri, l’unica parte del volto a essere visibile.
«Siamo amici?» gli chiese di nuovo il bimbetto girandogli attorno. La mano
destra impugnava una spada sottile e flessibile. Chiunque avrebbe potuto
ritenerlo una minaccia, ma per qualche strana ragione sentiva che quel piccolo
cavaliere argentato era parte di lui, e questo non se lo spiegava.
«Ti ordino di… di posare a terra la tua arma!» esclamò il bimbo.
Lo strano omino obbedì.
«Mon dieu».
Giòco.
«Obbligo o verità?» gli domandò Mista con
fare sornione.
«Verità» rispose prontamente Abbacchio. Figuriamoci se lo avessero costretto a
ballare la Macarena in mutande come quello scemo di Narancia.
«È vero che ti piace qualcuno?»
«No che non è vero, chi te le dice certe stronzate?».
Tu stesso. Te le dici tu stesso, Leone.
Quel gioco gli aveva sempre fatto schifo.
Humus.
Si disse che quel pezzo di giardino era il
punto perfetto. Voleva che l’arbusto crescesse sano e forte.
Si armò di vanga e iniziò a scavare. L’alberello che gli aveva donato sua
madre, anzi, che lei aveva regalato a loro in segno di riconoscenza, sarebbe
diventato il ciliegio più bello dell’intero vicinato. La vita che si rifaceva
sulla morte.
Sarebbe stato bello pensarci serenamente, se non avesse fatto così male.
Incòlume.
«Come sta il ragazzino?»
«Ha fatto un bel volo, ma sta bene. Credo sia stata la baby sitter ad aver
avuto la prontezza di lanciarlo dalla finestra… Povera ragazza, che brutta
fine».
L’unico superstite della strage di casa Sugimoto strinse a sé il suo ultimo
capolavoro, un foglio stropicciato sul quale aveva disegnato un campo di
adonidi gialle. Voleva farlo vedere a Reimi, ma non sapeva perché lo avesse
buttato fuori dalla sua cameretta in quel modo. Forse l’aveva fatta arrabbiare.
Una donna dai modi gentili si avvicinò a lui. Un distintivo le penzolava dal collo.
Gli pose una mano sulla spalla e gli domandò:
«Tu sei Rohan, giusto?».
Livóre.
Li guardava e li odiava.
Li odiava con ogni centimetro del proprio corpo, li odiava talmente tanto che se
un giorno li avesse trovati uccisi da un ladro o per colpa di una malattia non
avrebbe versato nemmeno una lacrima. Non sapeva se odiare più il suo finto
padre o quello che marciva sotto terra.
Sarebbe sopravvissuto a loro. Alla loro ricchezza, alla loro bontà stucchevole,
alla miseria che gli aveva impedito di tenere in mano un libro.
Se solo sua madre fosse stata ancora con lui.
Mòrbido.
Jolyne gli dormiva accanto, la testa
poggiata sulla spalla di Anasui. Per un attino pensò di scostarle un ciuffo di
capelli per accarezzare quella pelle liscia che lo faceva impazzire, ma aveva una
paura boia di scatenare le ire di Jotaro, quindi si contenne. Per quanto fosse
possibile.
Qualcos’altro, invece, stava indurendosi.
Accavallò le gambe e deglutì una generosa quantità di saliva.
Nòtte.
A Giorno l’assenza di luce gli faceva
tornare in mente le volte in cui restava da solo con l’unica compagnia della
solitudine. Quando ci pensava lo sconforto prendeva il sopravvento e l’angoscia
del vuoto tornava a schernirlo con rinnovata cattiveria.
Si portò una mano al petto: il ciondolo a forma di tiretto gli ricordò che,
nonostante il suo precedente possessore non fosse più lì, non aveva più nulla
da temere.
Ònere.
Ogni volta che guardava il volto di
quella che per lui era la sua impassibile e glaciale madre putativa, si
domandava quanto fosse pesante il macigno interiore che si portava sulle
spalle. Conoscendola, non si sarebbe mai permesso di porle un tale quesito. Così
come non avrebbe mai espresso la propria ammirazione quando la vedeva con
indosso la pietra rossa dell’Aja.
Pensàta.
«Ta-da!».
Trish trattenne una risata. Guido aveva avuto l’idea più stupida e romantica
che gli fosse passata per la testa.
«Ho trovato questo costume rosa a forma di coniglio e ti ho pensata, mi sta
bene?»
«Sei un deficiente!»
«Ma sono il tuo deficiente!».
Quàsi.
C’erano quasi.
“Voltatevi dopo aver letto quest’incisione…”.
Mancava poco, presto ce l’avrebbero fatta e Abdul avrebbe offerto la cena
ai suoi amici.
“e morirete”.
Era solo questione di tempo.
Ma allora perché le fiamme non reagivano?
All’improvviso lo vide, e l’istinto agì di conseguenza:
«Polnareff, Iggy! State attenti!».
Reiètto.
Jonathan guardava il suo fratello
adottivo ridere e scherzare coi garzoni che un tempo lo avevano preso in giro e
avvertì le gote farsi di fuoco. Si sentiva un fallito per quello che gli stava
accadendo.
Poi udì abbaiare. Era Danny che gli correva incontro.
Si inginocchiò per ricambiare l’affetto dell’unica anima che lo capisse. Almeno
lui, ne era sicuro, non lo avrebbe abbandonato.
Sàlvo.
Aprì gli occhi.
«Ehi, Josuke!».
A chiamarlo Era Okuyasu. Lo avevano ricoverato in ospedale perché quella testa
di cazzo riusciva a guarire tutti tranne sé stesso.
«Sono… vivo?»
«Ma certo che sei vivo, razza di scemo! Sei uno scemo!».
Sentendo quello che considerava suo fratello piangere trattenne a stento un
groppo alla gola.
«Non farlo mai più, razza di deficiente! Hai capito? Non ti permettere di
lasciarmi da solo!»
«Ha!» biascicò abbozzando un sorriso «Tanto quando moriremo ci seppelliranno
insieme».
Quello che sarebbe diventato l’amico di una vita rise.
Tòmo.
Joseph passò in rassegna lo studio vuoto di
un chiromante che non avrebbe più esercitato la professione.
La libreria ben ordinata sfoggiava una bella collezione di volumi pregiati
scritti in svariate lingue.
Ne afferrò uno a caso, era greco antico.
Il legittimo proprietario non lo avrebbe più sfogliato.
Ùrlo.
Urlava e nessuno la sentiva.
Il dolore divenne così indicibile che a un certo punto smise di emettere qualsiasi
suono. Infine l’assalitore le sputò in faccia e le premette il collo con le sue
due mani destre.
A terra, nel fango, la sua amica giaceva svenuta.
Vèra.
Infine, il sacerdote diede il permesso
allo sposo di baciare la sposa. Ed Erina non poteva chiedere altro.
Finché morte non li avesse separati, avrebbe condiviso gioie e sventure del
marito in qualunque circostanza, circondati dall’affetto degli amici più cari e
benedetti da una nuova vita in arrivo.
Era tutto perfetto.
Zàgara.
«Fugo, cos’è questo?»
«È una zagara, il fiore dell’arancia».
Erano zagare, i fiori che decoravano la
tomba della famiglia Ghirga. Glieli aveva portati quel pusillanime dell’ex
amico del defunto più giovane.
Si asciugò gli occhi con la manica della giacca. Era il due novembre
duemilauno.
Sarò onesta, mi fa un po' paura interfacciarmi per la prima volta con questa sezione in qualità di autrice, soprattutto dopo quasi tre anni dalla mia ultima pubblicazione. A ogni modo, ringrazio chiunque sia giunto/a fino a qui, se queste mini-storie vi sono piaciute sappiate che vi è una raccolta di one-shot in cantiere, ma non intendo rivelare altro. :V
Saluti e ancora grazie a chiunque abbia avuto la pazienza di leggere,
Green Star.