Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: Green Star 90    27/05/2021    3 recensioni
Nòtte.
A Giorno l’assenza di luce gli faceva tornare in mente le volte in cui restava da solo con l’unica compagnia della solitudine. Quando ci pensava lo sconforto prendeva il sopravvento e l’angoscia del vuoto tornava a schernirlo con rinnovata cattiveria.
Si portò una mano al petto: il ciondolo a forma di tiretto gli ricordò che, nonostante il suo precedente possessore non fosse più lì, non aveva più nulla da temere.
***
Una raccolta di ventuno drabble sulle vicende dei primi sei Joestar. Ventuno parole per ventuno mini-racconti.
Buona lettura.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Sorpresa
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Jojo in Heaven'
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L'alfabero della mente

Alièno.
Tutto sommato non era così male. Un po’ duro di comprendonio, ma era una brava persona (persona?).
«Mikitaka! Riesci a fare quella cosa col gelato…? Anzi, aspetta! Dei pancake, ecco! Ci faresti dei pancake?» chiese Josuke con un sorriso a trentadue denti.
L’interpellato frugò nella propria borsa ed estrasse un piatto fumante della pietanza richiesta con l’aggiunta dello sciroppo d’acero. Entrambi sorrisero.
Davvero strana quell’amicizia.

Bèllo.
Mentre Polnareff gli dimostrava il proprio affetto piantandogli una sonora pacca sulla schiena, Kakyoin si sentiva la persona più fortunata del mondo. Quello che provava era così bello che non riuscì a spiccicare parola.
«Guarda che così lo rompi» sentì grugnire Jotaro.
Vi voglio bene, ragazzi.

Campàre.
«Quanto aveva quel tizio che hai rapinato?»
«Bazzecole, soltanto venti sterline».
Speedwagon imprecò e sputò per terra. Non mangiava da tre giorni, ma faceva lo stesso perché tanto nessuno pensava ai disgraziati di Ogre Street.
Un cane smunto passò per caso e li osservò con lo sguardo disperato di chi era destinato a morire di stenti.
Ecco, lui era esattamente così: un randagio al quale nessuno avrebbe porto una mano.

Davvéro.
«Da-davvero?!» esclamò Suzie Q rossa in viso.
«Davvero!» Joseph le prese le mani e se le portò al petto «Sposiamoci adesso, da soli, io e te! Vuoi?».
La ragazza rimase interdetta. Il cuore le batteva così forte che si sentiva quasi svenire.
«Sì, sì, lo voglio! Adesso! Immediatamente! Voglio che tutti mi chiamino la signora Joestar!».
Gli gettò le braccia al collo e gli scoccò un bacio inaspettato sulle labbra. Non poteva essere più felice.

Episòdio
Era consuetudine di ogni genitore rispondere a quella domanda, prima o poi. Era un episodio abbastanza consueto durante il corso della vita di un adulto. Di conseguenza, Jotaro scacciò le avvisaglie dell’imbarazzo e prese un libro illustrato dalla sua biblioteca personale, poi sollevò la figlioletta in braccio e se la mise seduta sulle ginocchia.
«Allora, Jolyne, guarda queste figure» iniziò a spiegare «come avrai intuito, sia i bambini che i cetacei nascono dall’unione di una mamma e di un papà…».

Fiorètto.
«Che cosa sei?».
L’omino grigio non rispose, si limitò anzi a osservarlo coi suoi grandi occhi azzurri, l’unica parte del volto a essere visibile.
«Siamo amici?» gli chiese di nuovo il bimbetto girandogli attorno. La mano destra impugnava una spada sottile e flessibile. Chiunque avrebbe potuto ritenerlo una minaccia, ma per qualche strana ragione sentiva che quel piccolo cavaliere argentato era parte di lui, e questo non se lo spiegava.
«Ti ordino di… di posare a terra la tua arma!» esclamò il bimbo.
Lo strano omino obbedì.
«Mon dieu».

Giòco.
«Obbligo o verità?» gli domandò Mista con fare sornione.
«Verità» rispose prontamente Abbacchio. Figuriamoci se lo avessero costretto a ballare la Macarena in mutande come quello scemo di Narancia.
«È vero che ti piace qualcuno?»
«No che non è vero, chi te le dice certe stronzate?».
Tu stesso. Te le dici tu stesso, Leone.
Quel gioco gli aveva sempre fatto schifo.

Humus.
Si disse che quel pezzo di giardino era il punto perfetto. Voleva che l’arbusto crescesse sano e forte.
Si armò di vanga e iniziò a scavare. L’alberello che gli aveva donato sua madre, anzi, che lei aveva regalato a loro in segno di riconoscenza, sarebbe diventato il ciliegio più bello dell’intero vicinato. La vita che si rifaceva sulla morte.
Sarebbe stato bello pensarci serenamente, se non avesse fatto così male.

Incòlume.
«Come sta il ragazzino?»
«Ha fatto un bel volo, ma sta bene. Credo sia stata la baby sitter ad aver avuto la prontezza di lanciarlo dalla finestra… Povera ragazza, che brutta fine».
L’unico superstite della strage di casa Sugimoto strinse a sé il suo ultimo capolavoro, un foglio stropicciato sul quale aveva disegnato un campo di adonidi gialle. Voleva farlo vedere a Reimi, ma non sapeva perché lo avesse buttato fuori dalla sua cameretta in quel modo. Forse l’aveva fatta arrabbiare.
Una donna dai modi gentili si avvicinò a lui. Un distintivo le penzolava dal collo. Gli pose una mano sulla spalla e gli domandò:
«Tu sei Rohan, giusto?».

Livóre.
Li guardava e li odiava.
Li odiava con ogni centimetro del proprio corpo, li odiava talmente tanto che se un giorno li avesse trovati uccisi da un ladro o per colpa di una malattia non avrebbe versato nemmeno una lacrima. Non sapeva se odiare più il suo finto padre o quello che marciva sotto terra.
Sarebbe sopravvissuto a loro. Alla loro ricchezza, alla loro bontà stucchevole, alla miseria che gli aveva impedito di tenere in mano un libro.
Se solo sua madre fosse stata ancora con lui.

Mòrbido.
Jolyne gli dormiva accanto, la testa poggiata sulla spalla di Anasui. Per un attino pensò di scostarle un ciuffo di capelli per accarezzare quella pelle liscia che lo faceva impazzire, ma aveva una paura boia di scatenare le ire di Jotaro, quindi si contenne. Per quanto fosse possibile.
Qualcos’altro, invece, stava indurendosi.
Accavallò le gambe e deglutì una generosa quantità di saliva.

Nòtte.
A Giorno l’assenza di luce gli faceva tornare in mente le volte in cui restava da solo con l’unica compagnia della solitudine. Quando ci pensava lo sconforto prendeva il sopravvento e l’angoscia del vuoto tornava a schernirlo con rinnovata cattiveria.
Si portò una mano al petto: il ciondolo a forma di tiretto gli ricordò che, nonostante il suo precedente possessore non fosse più lì, non aveva più nulla da temere.

Ònere.
Ogni volta che guardava il volto di quella che per lui era la sua impassibile e glaciale madre putativa, si domandava quanto fosse pesante il macigno interiore che si portava sulle spalle. Conoscendola, non si sarebbe mai permesso di porle un tale quesito. Così come non avrebbe mai espresso la propria ammirazione quando la vedeva con indosso la pietra rossa dell’Aja.

Pensàta.
«Ta-da!».
Trish trattenne una risata. Guido aveva avuto l’idea più stupida e romantica che gli fosse passata per la testa.
«Ho trovato questo costume rosa a forma di coniglio e ti ho pensata, mi sta bene?»
«Sei un deficiente!»
«Ma sono il tuo deficiente!».

Quàsi.
C’erano quasi.
“Voltatevi dopo aver letto quest’incisione…”.
Mancava poco, presto ce l’avrebbero fatta e Abdul avrebbe offerto la cena ai suoi amici.
“e morirete”.
Era solo questione di tempo.
Ma allora perché le fiamme non reagivano?
All’improvviso lo vide, e l’istinto agì di conseguenza:
«Polnareff, Iggy! State attenti!».

Reiètto.
Jonathan guardava il suo fratello adottivo ridere e scherzare coi garzoni che un tempo lo avevano preso in giro e avvertì le gote farsi di fuoco. Si sentiva un fallito per quello che gli stava accadendo.
Poi udì abbaiare. Era Danny che gli correva incontro.
Si inginocchiò per ricambiare l’affetto dell’unica anima che lo capisse. Almeno lui, ne era sicuro, non lo avrebbe abbandonato.

Sàlvo.
Aprì gli occhi.
«Ehi, Josuke!».
A chiamarlo Era Okuyasu. Lo avevano ricoverato in ospedale perché quella testa di cazzo riusciva a guarire tutti tranne sé stesso.
«Sono… vivo?»
«Ma certo che sei vivo, razza di scemo! Sei uno scemo!».
Sentendo quello che considerava suo fratello piangere trattenne a stento un groppo alla gola.
«Non farlo mai più, razza di deficiente! Hai capito? Non ti permettere di lasciarmi da solo!»
«Ha!» biascicò abbozzando un sorriso «Tanto quando moriremo ci seppelliranno insieme».
Quello che sarebbe diventato l’amico di una vita rise.

Tòmo.
Joseph passò in rassegna lo studio vuoto di un chiromante che non avrebbe più esercitato la professione.
La libreria ben ordinata sfoggiava una bella collezione di volumi pregiati scritti in svariate lingue.
Ne afferrò uno a caso, era greco antico.
Il legittimo proprietario non lo avrebbe più sfogliato.

Ùrlo.
Urlava e nessuno la sentiva.
Il dolore divenne così indicibile che a un certo punto smise di emettere qualsiasi suono. Infine l’assalitore le sputò in faccia e le premette il collo con le sue due mani destre.
A terra, nel fango, la sua amica giaceva svenuta.

Vèra.
Infine, il sacerdote diede il permesso allo sposo di baciare la sposa. Ed Erina non poteva chiedere altro.
Finché morte non li avesse separati, avrebbe condiviso gioie e sventure del marito in qualunque circostanza, circondati dall’affetto degli amici più cari e benedetti da una nuova vita in arrivo.
Era tutto perfetto.

Zàgara.
«Fugo, cos’è questo?»
«È una zagara, il fiore dell’arancia».
Erano zagare, i fiori che decoravano la tomba della famiglia Ghirga. Glieli aveva portati quel pusillanime dell’ex amico del defunto più giovane.
Si asciugò gli occhi con la manica della giacca. Era il due novembre duemilauno.


***

Ovvero, prendi il dizionario, aprilo a caso e fallo diventare la tua fonte di prompt improvvisati.
Sarò onesta, mi fa un po' paura interfacciarmi per la prima volta con questa sezione in qualità di autrice, soprattutto dopo quasi tre anni dalla mia ultima pubblicazione. A ogni modo, ringrazio chiunque sia giunto/a fino a qui, se queste mini-storie vi sono piaciute sappiate che vi è una raccolta di one-shot in cantiere, ma non intendo rivelare altro. :V

Saluti e ancora grazie a chiunque abbia avuto la pazienza di leggere,
Green Star.





   
 
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