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Autore: Saelde_und_Ehre    28/05/2021    6 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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XXIII.
Der dem Tod ins Angesicht schauen kann, der Soldat allein ist der freie Mann


L’aria era irrespirabile; pennacchi di fumo alti come torri precludevano la vista della linea nemica e s’insinuavano nei polmoni, procurando colpi di tosse che raschiavano la gola. Ferito al fianco da una scheggia, il maggiore avanzò barcollando in quella nebbia, mentre le mitragliatrici spazzavano i sacchi di sabbia e urla lancinanti facevano rassomigliare quella fossa a una bolgia infernale.
Raggiunse subito la figura familiare del capitano a una delle postazioni di tiro, e rimase per qualche istante insieme a lui dopo avergli trasmesso i propri ordini. Le tempeste di proiettili ripresero con rinnovata violenza, sibili e fischi precedettero la caduta di bombe e granate.
I due ufficiali si appiattirono contro le protezioni, sparando in sincronia contro le sagome nere che si avvicinavano, partorite dalla trincea come demoni da un abisso. Un polacco volse il fucile verso di lui; il maggiore riconobbe il volto stralunato del suo carceriere.
Il capitano gli si parò davanti con un balzo e sparò, ma il colpo partì prima ancora che il suo proiettile potesse abbattere il tiratore. Sussultò sotto l’impeto della pallottola, lasciò ricadere la sua arma e si accasciò privo di forze contro il ridotto, con una ferita al petto.
“Non era questo il piano.” Il maggiore crollò in ginocchio nel fango, incurante degli spari che fischiavano intorno a loro, e lo raccolse tra le braccia. “Perché l’hai fatto?”
“Il piano è saltato, non potevo aspettare,” mormorò. “Ho fatto solo il mio dovere, come ti avevo detto.”
“È sempre il tuo imperativo categorico?”
Dalle labbra insanguinate del capitano uscì una frase che suonava come un “mi dispiace, Hans, questa è una cosa che riguarda solo me”; poi il capo stremato ricadde sulla sua spalla, mentre la vita lo abbandonava in fiotti purpurei che gli macchiavano l’uniforme.
Le fiamme si alzarono fino a incendiare anche le nuvole, consumando gli alberi e le macerie del villaggio, e tutto il resto intorno a loro scomparve. Con un sospiro affranto, il maggiore levò lo sguardo verso il cielo color cinabro e rimase immobile, tra le braccia il corpo esanime del compagno come una specie di Pietà.

Una fitta di dolore, precisa come una pugnalata tra le costole, lo trapassò da parte a parte. Attraverso la vista annebbiata colse un basso soffitto in pietra, rischiarato da lumi asettici, e al suo orecchio giunsero i gemiti e i lamenti dei feriti ammassati sui lettini contro la parete. Nell’ambiente ristagnava l’odore di corpi sofferenti misto a quello della liscivia.
Quell’insieme di stimoli sensoriali lo sopraffece, come un supplizio che gli fece serrare le palpebre desiderando l’oblio: il dolore sovrastava ogni altra sensazione, come se il letto e le coperte fossero fatti di un filo spinato che a ogni minimo movimento si conficcava più a fondo nella sua carne.
Non sapeva da quanto tempo fosse in quello stato, né perché si trovasse lì. Provò a parlare, ma dalla sua bocca uscì soltanto un verso roco che si spense subito.
Un’altra stilettata di dolore, e la coscienza riprese a riaffiorare come dal fondo di uno stagno torbido, insieme ai primi frammenti di ricordi che si confondevano l’uno nell’altro: un androne in penombra, saturo del fumo degli spari, una pallottola che gli trapassava le costole. Due occhi celesti in un viso sconvolto che lo fissavano, cercando di tamponare l’emorragia mentre tutto si faceva indistinto, remoto, come una caligine insidiosa, e le sue membra assumevano la consistenza del piombo… poi, il buio.
Forse, mentre era incosciente, quegli occhi avevano continuato a fissarlo, ma il suo stordimento era tale che non ricordava neanche dei suoi sprazzi di lucidità, se mai vi fossero stati. Sapeva solo che lo avevano trasportato d’urgenza in un logoro ospedale da campo, dove lo avevano imbottito di morfina nonostante le sue proteste, e tra il sonno e il delirio gli era parso di continuare a vederli.
E adesso dove si trovava? Quanto tempo era passato? E lui, il capitano, dov’era?
Avrebbero dovuto unire le loro forze, ma quella maledetta pallottola, di cui continuava ad avvertire il morso nella carne come se vi fosse ancora conficcata, aveva completamente stravolto i suoi piani.
Spossato, chiuse gli occhi e sprofondò di nuovo nel deliquio.

Cumuli di nubi basse e gonfie di pioggia preannunciavano un volo di breve durata. Le ali dei Messerschmitt fendevano quella barriera come se fosse un portale verso un’altra dimensione, quella in cui regnava l’inferno di fuoco e fiamme che dilaniava i dintorni di Varsavia. Tutt’intorno, i campi erano una grottesca distesa di terra nuda, arata dai proiettili, tappezzata di zone ancora verdi che spiccavano come toppe sulle ferite del paesaggio.
“Obiettivo individuato,” giunse asciutto il comando attraverso la radio. Colonne di camion rifornimenti continuavano ad affluire alla città, nel disperato tentativo di offrire soccorso agli ultimi nuclei che ancora resistevano.
Manfred von Kleist manovrò e ridusse la velocità, scendendo di quota per raggiungere l’obiettivo, a un’altitudine irrisoria e pericolosa per un aereo da caccia. Volando così basso, con la coda dell’occhio riusciva a scorgere i cumuli di macerie da cui spuntavano travi e tegole, interi quartieri rasi al suolo in cui i civili si muovevano furtivi come topi.
Una volta allineatosi con la colonna di mezzi, sparò, cabrò e si allontanò per riguadagnare altitudine. Uno dei camion colpiti si rovesciò come un giocattolo e gli altri accelerarono e sbandarono, tamponandosi a vicenda per sfuggire alle raffiche piovute dall’alto.
Gli altri caccia fecero altrettanto, uno dopo l’altro, e in breve del convoglio non restò che una fila di ferraglie ammaccate che eruttavano fumo. Manfred esalò un sospiro: le missioni di attacco al suolo rientravano in quel tipo di lavoro sporco necessario ma per nulla gradito.
“Si torna alla base,” comunicò, senza entusiasmo.
Con la stessa sincronia della picchiata, i Messerschmitt ripresero il volo lungo la via del ritorno. Passarono un paio di minuti, poi la voce del sottotenente Weber si sovrappose alla vibrazione dell’aereo. “Ho visto delle artiglierie là sul crinale, stanno picchiando sulle postazioni dei nostri fanti.”
A von Kleist venne in mente suo fratello Friedrich, del quale non aveva notizie da giorni: non gli era sfuggita l’aura di ineluttabilità che lo tormentava, come se presagisse qualcosa di infausto. Da quel che ne sapeva, il suo battaglione poteva già trovarsi nei paraggi, e un po’ di supporto aereo alle truppe di terra avrebbe senz’altro alleggerito il loro lavoro. “Franz, andiamo a vedere. Gli altri proseguano, noi vi raggiungiamo tra poco.”
Virò invertendo la rotta, seguito dal gregario. L’orizzonte si andava colorando di una luminosità fosforescente, e le nuvole sempre più dense lasciavano piccole goccioline di umidità sui finestrini e sulle ali dei caccia. Dalla sommità di una collinetta, grossi pezzi d’artiglieria rigurgitavano proiettili che spaccavano la piana sottostante, sollevando geyser di terra e alberi divelti. Vista dall’alto, quella devastazione era uno spettacolo che lasciava al tempo stesso attoniti e sconvolti.
Von Kleist fu il primo a eseguire la manovra: individuò un cannone e gli puntò contro le mitragliatrici per farlo tacere; Weber lo imitò subito dopo. Cabravano per sottrarsi al tiro, risalivano, poi tornavano indietro e scendevano di nuovo in picchiata sull’obiettivo, neutralizzandolo prima che riuscisse a sparare.
Uno di essi puntò Manfred, che dovette derapare per evitare un tiro alto; il proiettile rimbalzò sulla sua ala ma senza scalfirla.
“Ho finito le munizioni!” comunicò Franz attraverso la radio.
Von Kleist controllò il contatore: un’altra raffica e anche il suo nastro si sarebbe svuotato. C’erano ancora due pezzi da campagna ancora attivi, ma la pioggia s’infittiva, riducendo la visibilità e le condizioni di volo. “Anch’io… quasi.”
“Torniamo indietro, altrimenti ci sfracelliamo da qualche parte con tutto l’aereo,” constatò Franz. Seguito da Manfred, che aveva acconsentito tacitamente, risalì di quota e riportò l’aeroplano alla velocità di crociera. “Mi sa che il Vecchio avrà da ridire per questa nostra sortita.”
“Come sempre.” La pioggia batteva incessante sul vetro della capottina, e l’unico rumore che Manfred riusciva a sentire era un ronzio indistinto in cui lo scroscio dell’acqua si mescolava al ronzio del motore. Un fulmine spaccò in due il cielo come un colpo d’ascia. “Andiamo, vecchio mio,” sussurrò, rivolto all’aereo che s’inclinava leggermente tra correnti opposte. “Tieni duro e tra poco saremo di nuovo alla base.”

La pista di decollo era diventata una palude intrisa di fango molle, dove la luce della luna disegnava linee irregolari sui solchi lasciati dalle ruote degli aerei.
Nonostante la brezza autunnale che increspava il telo della tenda e scuoteva le cime degli alberi intorno all’accampamento, Manfred von Kleist rimase a fissare quel paesaggio spettrale. Quando rientrò, Franz era disteso sulla branda a leggere con interesse un manuale che pesava almeno due chili. Si affacciò per sbirciarlo: era il suo solito tomo di entomologia, con tanto di illustrazioni di formiche, scarafaggi e altri insetti colorati dalle forme strane.
“Sono riuscito a suscitarti un po’ di curiosità?”
“In realtà non mi piacciono gli insetti, preferisco gli uccelli. Le aquile, ad esempio: maestose, fiere, ma anche letali. Non hanno paura di niente e sfidano le vette fino ad arrivare ad altezze impensabili, un po’ come noi… oppure i rettili: da piccolo mi piaceva catturare le lucertole in giardino, pensavo che sarebbero cresciute fino a diventare draghi. Mi sarebbe tanto piaciuto cavalcare un drago.”
“E di queste che ne pensi?” Franz gli mostrò due pagine occupate da illustrazioni di farfalle, riprodotte nei minimi dettagli: avevano macchie variopinte sulle ali che sembravano intagliate nella carta, come preziose e delicate decorazioni. Più avanti, c’erano falene ricoperte di soffice pelo, con grandi occhi e antenne come pettini a forma di foglia.
“Queste sono belle, soprattutto questa. Sembra che abbia degli occhi dipinti sulle ali.”
“È una bellezza che dura poco e appassisce in fretta. Sai che alcune falene hanno un’apertura alare grossa quanto questo libro? Alcune arrivano a…”
Manfred continuò a sfogliare con aria distratta, fino ad arrivare a un insetto il cui muso sembrava sbozzato nel legno da un artista maldestro. Lo indicò e si mise a ridere, interrompendo la disquisizione dell’amico. “Questo sembra il colonnello von dem Bach-Zelewski quando deve lamentarsi con qualcuno!”
Weber gli tolse il libro. “Questo è un…”
“Insectus zelewski,” lo interruppe Manfred, con enfasi. “Guarda, è identico a lui!”
“Almeno il colonnello non uccide i suoi simili per poi mangiarseli,” obiettò Franz. “Il massimo che può fare è lamentarsi del tempo o di qualche aviere coi capelli in disordine.”
Von Kleist si lasciò ricadere sulla sua branda, ravviandosi le ciocche bionde. “L’ha fatto anche stasera.”
“Per cosa?”
“Ero appena atterrato, coi capelli ancora sudati e schiacciati dalla cuffia, e mi ha ripreso con la scusa della scriminatura. Ma il vero motivo era la missione di oggi.”
“Per la pioggia o per la deviazione inaspettata?” chiese Franz.
“Per entrambe, ovviamente.” Manfred roteò gli occhi con aria teatrale. “Secondo te?”
“Era prevedibile. Di sicuro non ha mai fatto voli di guerra prima d’ora.”
“No? E la croce di ferro di prima classe datata 1914?”
“Secondo me lo mandavano a fare voli di ricognizione sopra le trincee, anche se ha sempre desiderato pilotare aeroplani da caccia,” sentenziò Weber. “Ecco perché bada più alle piccolezze che alle opportunità militari… è fastidioso ma innocuo, come una mosca.”
Manfred annuì. “Sembra uno di quei burocrati con la faccia più incartapecorita della mummia di Tutankhamon. Ma se c’è da ripulire il terreno tanto meglio farlo per bene, no? Le missioni di attacco al suolo sono di una monotonia inaudita: una bella scossa ogni tanto è necessaria, altrimenti diventiamo tutti grigi e noiosi come lui.”
E poi, la fanteria ha bisogno di noi, pensò.
“Se ci dovesse capitare di rifarlo, la prossima volta ci conviene mantenere un basso profilo,” suggerì Franz. “Se ci comportiamo in maniera discreta, non si accorgerà di niente.”
Von Kleist calciò via gli stivali e piegò le braccia dietro la testa. “Com’è che si chiamava il tuo insetto? D’ora in poi sarà la nostra parola d’ordine. Toccata e fuga.”
Faticava ad ammetterlo, ma la verità era che era ancora preoccupato per suo fratello. Era sicuro che gli nascondesse qualcosa, anche se non sapeva ancora cosa.

Nell’edificio signorile semidiroccato, adibito a base per il comando di battaglione, c’erano libri antichi, un pianoforte a coda e liquori pregiati conservati in un mobiletto chiuso a chiave. Fotografie ingiallite dietro cornici polverose lo osservavano con le loro espressioni compassate, come per farsi beffe di lui. Terminato il rapporto per il colonnello, il capitano von Kleist scostò la sedia dalla scrivania facendola cigolare. Sulle prime, si mise a girare oziosamente un vecchio mappamondo, su cui apparivano ancora le terre dell’Impero Tedesco prima della disfatta, poi si avvicinò alla libreria e scorse i titoli con totale disinteresse per il loro contenuto: erano tutti trattati medici.
Con un sospiro, tirò di nuovo fuori dal bagaglio la vecchia copia di Nelle tempeste d’acciaio, che negli ultimi giorni aveva avuto poco tempo per continuare a leggere.
“Prima di separarci, voglio lasciarti questo,” gli aveva detto Hans, una volta scesi dal treno. “Però promettimi di trattarlo bene: l’ho comprato tanti anni fa a un mercatino e ci sono parecchio affezionato.”
Friedrich lo aveva guardato. “Il tuo libro preferito? Perché?”
“Sono sicuro che saprà farti lo stesso effetto che ha fatto a me, soprattutto se lo leggerai prima di andare in battaglia.”
Qualcuno bussò alla porta e il capitano sobbalzò; il libro gli cadde quasi dalle mani. Nella stanza, senza farsi annunciare, entrò Konrad, ancora armato come di ritorno dalla battaglia. “Ci siamo assicurati il controllo di tutta la zona, distruggendo anche un paio di nidi di mitragliatrici parecchio insidiosi. La resistenza nemica ha i giorni contati.”
A Friedrich non sfuggì la durezza nella sua voce; la pacata razionalità che lo caratterizzava era turbata dalla scintilla di un impeto silenzioso ma implacabile. “Anche a noi è andata bene: i polacchi hanno lasciato indietro le loro armi e parecchi prigionieri che si sono arresi subito, tra cui un ufficiale.”
L’altro si sedette, si slacciò l’elmetto e lo buttò per terra. “Come va la gamba?”
“Finché sto fermo non sento niente.”
La voce era distorta dalla sfumatura tipica delle bugie pronunciate di malavoglia: in realtà gli sembrava di avere un chiodo piantato nella ferita, ma dissimulava per non farsi spedire nelle retrovie, ad attendere un processo per insubordinazione mentre languiva in un letto.
Konrad, tuttavia, non vi prestò attenzione; forse era troppo stanco, o forse, semplicemente, non aveva voglia di parlare. Anche quando gli attendenti vennero a portare loro la cena, che consumarono sgomberando la scrivania dalle carte mentre il resto del battaglione si spartiva le altre stanze, si limitò a riferirgli nei minimi particolari gli assalti che aveva comandato attraverso le strade nel corso della giornata.
“Secondo me dobbiamo aspettarci un contrattacco in nottata,” disse Friedrich.
“Vorrà dire che ci faremo trovare pronti,” rispose l’altro, laconico.
Per l’occasione, scassinarono la vetrina per distribuire le bottiglie di liquore alla truppa e si unirono a loro in quella lunga veglia: von Kleist seduto su una poltrona, a leggere ad alta voce dell’ultimo assalto di Jünger sul fronte occidentale, e Bentheim ad ascoltarlo.
I soldati riposavano vestiti, abbracciati ai fucili, quelli ancora svegli si passavano da bere raccontandosi facezie come se l’alcol li avesse ritemprati dalla fatica. Tra i volti stanchi e segnati dalla battaglia, alcuni testimoniavano la sofferenza silenziosa di chi era rimasto ferito ma non poteva raggiungere il posto di medicazione.
Fuori, l’artiglieria nemica asserragliata nel centro città ricominciò a picchiare le prime linee, facendoli ripiombare in uno stato di costante allerta. Subito i due ufficiali fecero sistemare gli uomini alle postazioni di tiro; Konrad si mise al comando del drappello e Friedrich, raccolto un fucile e qualche bomba a mano, andò a sistemarsi vicino alla mitragliatrice di Hanke. Entrambi dovevano alzare la voce per sovrastare i tonfi dei proiettili, che s’infrangevano nei pressi della villa facendola tremare come scossa da un terremoto.
Fischi, sibili e scoppi si alternavano in rapida successione; i soldati incassavano la testa tra le spalle o bestemmiavano tra i denti quando i tonfi abbattevano qualche costruzione vicina. Nei loro volti, nell’atmosfera elettrica che li pervadeva, von Kleist percepiva quella strana sensazione, sospesa tra la paura e la trepidazione, che precedeva ogni scontro armato. Presto, entrambe si sarebbero dissolte nell’esaltazione marziale, in quel furore cieco che rendeva i combattenti creature di puro istinto mentre intorno a loro crepitavano gli spari. Le ricordava chiaramente dalle precedenti battaglie, avendole provate egli stesso, tuttavia vi partecipava solo dall’esterno, come se la nebbia fosse tornata a ghermirlo.
Un enorme proiettile fece rotolare giù mezza facciata, rivelando una porzione di cielo rischiarata dai razzi di segnalazione. Tutt’intorno al perimetro della villa, comparvero gli elmetti verde oliva e i fucili dei polacchi, che furono subito bersagliati da un nutrito fuoco.
La risposta non tardò ad arrivare; bossoli di proiettili cadevano tintinnando ovunque e le granate esplodevano sollevando nuvole di schegge, fumo e calcinacci. Lo scorrere del tempo esplose in una miriade di frammenti e poi parve dilatarsi, intrappolato in un attimo di caotica immutabilità. Friedrich strisciava carponi e osservava Konrad comandare con energia la difesa, gridando ordini in quel frastuono che faceva vibrare le pareti del palazzo.
Le poche volte che un tedesco cadeva colpito, altri due prendevano il suo posto e ricaricavano le armi, sicuri che quelli fossero gli ultimi sussulti che precedevano la vittoria. I polacchi, tuttavia, non si arrendevano; erano intenzionati a vender cara la pelle.
Gli istanti scanditi dalle sparatorie gli parvero interminabili: forse trascorse una o due ore coi gomiti affondati nelle macerie prima che il comandante polacco, visibilmente ferito alla spalla, gettasse la pistola per terra e avanzasse con le mani bene in vista. Altri, più o meno malconci, seguirono il suo esempio chiedendo a gran voce un sorso d’acqua; solo pochi sbandati batterono in ritirata e furono raggiunti dai fucili dei cecchini.

A metà della nottata, il contrattacco era sventato e più di ottanta prigionieri polacchi cadevano nelle mani dei soldati della Ostpreußen. Un giovane tenente consegnò personalmente le armi a von Kleist, che riconobbe in lui dei tratti vagamente familiari.
“Nome e unità di appartenenza.”
“Mateusz Kowalski, seconda compagnia del 53° reggimento fanteria.”
Friedrich lo scrutò ancora per qualche istante, cercando di capire che cosa gli suscitasse quell’impressione. Sul viso lentigginoso, dai lineamenti di adolescente, scintillavano due occhi verdi, che gli ricordavano una faccia ben nota. “Ci siamo già visti, tenente?”
L’altro esitò, stringendo le labbra. “Forse ha incontrato mio fratello Artur, signore… anche lui porta il mio stesso grado.”
“Avete combattuto a Grabnik, l’altro giorno?”
“Sì, signore. È forse… prigioniero?”
Von Kleist scosse la testa con un sospiro. “No, tenente. Purtroppo è caduto in battaglia, ma si è battuto con valore. L’ho fatto seppellire io stesso, ai margini della foresta.”
Kowalski si ammutolì, visibilmente scosso dalla notizia della morte del fratello. “Tra due settimane avrebbe compiuto ventitré anni,” mormorò.
“Può stare tranquillo, tenente, non verrà dimenticato. Non da me.”
Almeno – pensò – quella tomba anonima aveva finalmente un nome. Era la sua terza croce nel giro di quattro giorni: quella di Hans, che giaceva disperso chissà dove, quella di Reinhardt, che aveva privato tutti loro di un amico prezioso, e quella del tenente Artur Kowalski, ucciso da una pallottola vagante dopo un duello ad armi pari.
Gli offrì un bicchiere in memoria di quel giovane e degli altri caduti che onorò in silenzio, finché un nuovo ordine, giunto dal comando di reggimento, interruppe la loro breve conversazione.
Lì le loro strade si separarono, forse per l’ultima volta: Kowalski fu indirizzato verso il centro di smistamento prigionieri, insieme ad altre migliaia di polacchi che si erano arresi in quei giorni e marciavano mesti verso le retrovie; i tedeschi invece proseguirono verso Varsavia, contando le ore che li separavano dalla vittoria.

L’alba era pervasa di una nebbia elettrica e umidiccia, simile a uno spettro che aleggiava tra gli scheletri dei palazzi. Konrad von Bentheim fece schierare le sue truppe agli angoli delle strade, in attesa del segnale: gli uomini erano energici, motivati nonostante la stanchezza, e salutarono il sorgere del sole tra le nuvole come se fosse un araldo di vittoria.
Il richiamo della battaglia risvegliò i loro istinti primordiali, imbrigliati dalla ragione e dagli agi quotidiani, e le armi ripresero a eruttare fuoco. La caligine, che risaliva e si disperdeva in lente volute, fu appesantita dal fumo crepitante degli spari; presto le strade si sarebbero bagnate di sangue ancora una volta.
Mentre anch’egli si preparava per l’azione, per un istante gli parve di avere Reinhardt accanto a sé. Nella sua mente, passato e presente si fondevano, ma la realtà rimaneva immutata: i soldati si lanciavano gli uni sugli altri nel furore della battaglia; solo i più coraggiosi e i più fortunati sopravvivevano. E poi appariva lui, che senza indugio guidava l’assalto, sempre pronto a mettersi in prima linea, sicuro che gli altri lo avrebbero seguito. Sfidava la natura col sorriso sulle labbra e il vento tra i capelli, e non ne aveva paura.
Quel pensiero non lo abbandonò nemmeno mentre, in testa alla schiera, avanzava da solo verso il nemico, tra i proiettili che fischiavano e le esplosioni che facevano tremare la terra. Fendevano una cortina di fumo che soffiava sui loro visi a zaffate, impregnando l’atmosfera di un calore acre e pesante. Nugoli di scintille rimbalzavano sugli elmetti; gli ordini ripetuti si perdevano al di sotto del furioso martellare delle armi. Quando un grosso calibro piombava in mezzo alla strada, la pavimentazione sprigionava frammenti, dividendo gli uomini che si riparavano o ne venivano irrimediabilmente travolti; le immagini si susseguivano come in una tela impressionista, nei toni del grigio e del rosso, qua e là punteggiata di chiazze verdastre quando appariva la figura di un soldato.
Trascinata in quel vortice di fuoco, acciaio e sangue, la sua mente si svuotò. Al centro rimase soltanto la lotta del singolo contro il caos, che cercava di ridare un senso all’imprevedibilità degli eventi.

Fuori dilagavano i nemici, che si diceva avessero riguadagnato terreno in una disperata controffensiva. Le bombe e l’artiglieria martellavano senza posa le periferie della capitale; il rombo cupo dei cannoni era come un terremoto di superficie che s’insinuava nel grembo della terra. Ogni volta che uno scossone più forte faceva tremare le pareti della cantina, i soldati feriti si stringevano l’uno all’altro nel timore di rimanere seppelliti vivi.
Friedrich li fissava inquieto, come distaccato dal proprio corpo: gli sembrava di trovarsi nel ventre di una nave in balia del mare in tempesta, intrappolato in un incubo lucido dove le visioni della realtà avevano la sfumatura dell’orrido. Per un attimo, la sua mente allucinata ebbe l’impressione di cogliere il significato più profondo di quella battaglia, di quella guerra, forse della sua intera esistenza, ma gli sfuggì subito dopo come fumo tra le dita. L’unica sua certezza era che si sentiva di nuovo come quell’inutile pedina sulla scacchiera: irrilevante se presa singolarmente, ma indispensabile come lo era ogni singolo uomo.
Tornò a osservare i feriti, i cui volti smunti, rischiarati dalle lampade, sembravano teschi ricoperti di pelle incartapecorita. Qualcuno gemeva o si rigirava nel sonno, altri chiedevano acqua; il resto erano soldati della sanità e furieri, burocrati più adatti a un ufficio che a un campo di battaglia.
Era impossibile rispedirli nelle retrovie: potevano solo sperare che quell’attimo passasse e quella parte della città tornasse in mano alla Wehrmacht. Mentre si trovavano lì dentro come topi in trappola, si sentiva responsabile per ciascuno di loro – anche se non li conosceva, né era interessato agli stralci di conversazioni che coglieva in sottofondo.
L’orologio segnava le cinque del pomeriggio – l’ora del tè, rituale caro al colonnello Wolff. Von Kleist era stato lì ad aspettarlo in quel buco per diverse ore, per poi ricevere la notizia che anch’egli era rimasto ferito – la macchina che lo trasportava in seconda linea era finita sotto una mina – insieme all’ordine di difendere i documenti custoditi nei faldoni accatastati sul tavolaccio che fungeva da scrivania: mappe, rapporti, piani di battaglia, fogli d’ordini, inventari di armi e uomini.
Un altro boato vicino fece staccare pezzi d’intonaco dal soffitto, la luce sfarfallò.
Un paio di soldati sperduti fecero il loro ingresso nella cantina, sostenendosi a vicenda mentre scendevano zoppicando le scale. “Signore! Signor capitano!” gridò il primo, che portava delle bende insanguinate sotto l’elmetto e i gradi di sergente maggiore sulle spalle.
“Che succede?” chiese l’ufficiale, tornando alla realtà contingente.
“La nostra compagnia si è sparpagliata dopo aver subito l’urto del nemico, ormai non si capisce più se siamo in vantaggio noi o loro. Non abbiamo più nemmeno un comandante…”
“Ci sono altri soldati con voi?”
Come per rispondere alla sua domanda, un’altra mezza dozzina di uomini più o meno malconci affluirono al rifugio e si sedettero sulle panche collocate lungo il perimetro delle pareti spoglie.
“Chi è il vostro comandante?”
“Eccolo, signore.”
La terza ondata di soldati entrò subito dopo; due di loro sostenevano un ufficiale che superava entrambi in altezza. Si reggeva sulle sue gambe, ma la sua espressione era assente e lo sguardo perso nel vuoto. Aveva un braccio appeso al collo, una chiazza di sangue poco sotto la croce di ferro e i capelli neri che spuntavano da sotto la benda che gli avvolgeva la testa.
“Capitano Bentheim?” Sorpreso alla vista dell’amico, Friedrich si fece avanti per aiutare i soldati a sostenerlo e lo guidò fino alla poltrona, dove Konrad ricadde pesantemente. Avrebbe voluto chiedergli cosa fosse successo, ma l’altro scosse la testa come per impedirglielo.
Con un sospiro, von Kleist lo affidò alle cure della sanità e si rivolse ai soldati che lo accompagnavano per chiedere un resoconto. Ancora una volta, fu il sergente con la testa bendata a farsi avanti. “Per tutta la mattinata l’avanzata è proseguita senza intoppi, almeno fino a un’oretta fa,” spiegò. “Il capitano era in prima linea. Sembrava che avesse il diavolo in corpo, avrebbe potuto polverizzare un esercito da solo. Ha distrutto un altro nido di mitragliatrici e ha continuato a combattere fino a che non è caduto per terra, chissà da quanto tempo era ferito… non sappiamo nemmeno cosa gli abbia dato la forza di trascinarsi fin qui.”
Friedrich annuì; credeva di sapere la risposta. Si voltò verso l’amico, e notò che il caporale che gli controllava le fasciature si era appena alzato. “Come sta?” chiese.
“Non rischia la vita, ha solo bisogno di riposo. Ha già ricevuto i primi soccorsi, ma dobbiamo trasportarlo al più presto a un ospedale da campo per evitare che si aggravi.”
“Ha combattuto per tre giorni interi, senza praticamente mai fermarsi,” constatò il capitano.
Con quelle parole, la conversazione si concluse. Le luci tremolanti continuavano a illuminare i volti dei feriti, gli uomini della sanità dispensavano medicazioni e dosi di morfina, i furieri ciondolavano qua e là in attesa di comunicazioni.
Una violenta esplosione, così forte da aprire una crepa sul soffitto a botte della cantina, fece sobbalzare tutti quanti; Bentheim si drizzò sulla poltrona fissando il suo parigrado. Gli scoppi secchi dei proiettili d’artiglieria si abbatterono sull’edificio, alternandosi al crepitare ritmico delle mitragliatrici. Un tafferuglio e grida concitate provenienti dal piano di sopra comunicarono a von Kleist l’inevitabile.
“Siamo sotto attacco!”
“Faremo la fine dei topi…”
Un gemito di dolore, uno scoppio di singhiozzi.
“Calmatevi, calmatevi.”
“Bisogna uscire di qui!”
“Voglio combattere!”
Friedrich e Konrad si scambiarono uno sguardo; il secondo si limitò ad annuire con occhi febbricitanti, come per cedergli l’autorità decisionale. “Lindemann, avverta il capitano Schwieger.”
“Stiamo arrivando,” fu la risposta dell’altro, giunta attraverso la radio. “Dieci minuti e vi tiriamo fuori.”
Von Kleist balzò in avanti impugnando la pistola, verso l’esile linea di difesa approntata dai soldati ancora in grado di reggere un’arma. Erano almeno in dodici, tutti riuniti intorno a una mitragliatrice coi fucili puntati verso l’imboccatura delle scale. “Dieci minuti sono troppi.”
In quel lasso di tempo, quella catapecchia sarebbe caduta, i feriti sarebbero diventati prigionieri e i documenti sarebbero finiti nelle mani del nemico, rivelando le loro mosse successive. Si fermò di colpo, gli occhi fissi sullo stendardo: finalmente gli era tutto chiaro, sapeva cosa doveva fare. “Si sgombera la baracca, preparatevi a far evacuare i feriti!”
“E i documenti?” si oppose il sergente, sbigottito.
“Ci penso io.”
“Come, signore?”
“Datemi retta, non c’è tempo. Uscite di qui!” lo interruppe il capitano, in preda a un’ansia febbrile, indicando l’imboccatura del cunicolo che fungeva da uscita d’emergenza. Mentre le sparatorie che si consumavano sopra di loro gli giungevano all’orecchio come attraverso il velo vibrante d’indifferenza che lo separava dalla realtà fisica, rimase a osservare gli uomini che si alzavano: chi riusciva a reggersi in piedi offriva il braccio agli altri, i più gravi vennero presi e sollevati di peso dai furieri. Konrad fu uno degli ultimi a uscire.
“Fidatevi di me, vi raggiungo tra poco,” ripeté, con voce ovattata.
Aspettò che tutti fossero usciti, poi spense le luci e guardò l’orologio: era quasi giunto il momento. Al piano di sopra, l’impeto della sparatoria stava calando d’intensità, segno che vi erano già degli uomini a terra. Si armò di una granata, soppesandola tra le mani tremanti; con l’altra impugnò le insegne del loro reparto: il cavaliere teutonico si ritrovava da solo e doveva difendere lo stendardo a ogni costo – non come oggetto, ma per ciò che rappresentava per lui, per Hans e per l’intero reggimento: due significati diversi, ma al contempo indivisibili.
Guardò per l’ultima volta su per la tromba delle scale: ombre concitate si stagliavano contro un alone di luce, un rapido scalpiccio si faceva strada verso la cantina. Esalò un sospiro, decapsulò la bomba a mano e, senza indugio, la lanciò nello stretto passaggio.
L’esplosione fu accompagnata da un lampo accecante, lo spostamento d’aria lo scaraventò per terra; centinaia, forse migliaia di schegge lo trafissero. Un rotolare cupo di mattoni, grida e colpi di tosse dall’altra parte, poi un silenzio simile a quello che precedeva un placido torpore.
Giacque sulla bandiera bagnandola col suo sangue, mentre un fumo denso come nebbia lo avvolgeva come un sudario; eppure, ormai lontana da quel luogo, la sua mente riandò al prato verde in cui si era ricongiunto con Hans e gli aveva porto lo stendardo annunciando la vittoria. Non sentiva più dolore, né rimorso. Se ne avesse avuto la forza, avrebbe sorriso.

La controffensiva, come tante altre in quegli ultimi giorni, era stata violenta e rapida come un temporale estivo. Il sole, o quel poco che ne restava prima del tramonto, aveva fatto di nuovo capolino tra le nuvole e le colorava di rosso e viola, mentre il fumo degli incendi si disperdeva lasciando dietro di sé solo tetra distruzione. Per le strade dilagavano carri armati e soldati tedeschi; i pochi polacchi rimasti erano feriti o prigionieri sorvegliati a vista.
Focolai di scontri resistevano ancora nei quartieri più vicini al centro città, ma quella zona era stata sgomberata in fretta dopo l’arrivo della compagnia di Schwieger.
Alla guida del suo plotone, Erich avanzò tra i detriti guardandosi attentamente intorno: non solo equipaggiamenti militari, ma anche stoviglie rotte, una bicicletta ridotta a un ammasso di ferraglia contorta, pezzi di mobili bruciacchiati, libri sparpagliati per terra, una palla da calcio, una bambola mutilata che fissava il cielo. Un giovane ufficiale come lui, probabilmente suo coetaneo, giaceva morto davanti all’ingresso di una casa: l’unica differenza tra loro stava nel colore delle uniformi.
Gli venne da pensare alla sua vita prima della guerra, all’appartamento che condivideva con sua madre nei quartieri popolari. Quando era bambino, andava a giocare a pallone sotto casa insieme ai suoi amici, in bicicletta oppure a correre nei prati fuori città, e quando era triste si arrampicava sul tetto per cercare nelle nuvole figure di animali. Una strana malinconia lo colse quando pensò a tutti i giovani come lui e come quell’ufficiale polacco, morti in guerra portandosi nella tomba ricordi simili ai suoi.
“Sottotenente!” La chiamata del maresciallo Eichmann lo riportò al presente: era affacciato sulla soglia di un edificio fatiscente; al di sopra della sua spalla ossuta comparve la testa di Krause. “Venga a vedere!”
Incuriosito, Kühn si avvicinò ed entrò. Si trovavano in un ampio salotto, dove i feriti erano sistemati su un’accozzaglia di letti, panche e tavoli raccolti qua e là; tra loro c’era anche un ufficiale disteso su un divano, ma lo schienale gli impedì di capire chi fosse. Una fila di prigionieri polacchi sedeva per terra, con la schiena contro il muro.
“Sono dei nostri,” spiegò Krause. “Sono comparsi proprio mentre ci rifugiavamo qui dentro.”
“Da dove venivano?”
“Dietro questa casa c’è un passaggio sotterraneo che porta alla cantina dove era stanziato il comando di reggimento… o meglio, il capitano von Kleist. È stato lui a mandarli qui, dicono.”
“Da quanto tempo siete qui?”
Krause controllò l’orologio e fece un breve calcolo. “Dieci, quindici minuti.”
“E il capitano dov’è?”
L’altro chinò il capo. “Dicevano che doveva arrivare poco dopo di loro, ma non è arrivato.”
“In un quarto d’ora può succedere di tutto,” sentenziò il vecchio gufo.
Erich aggrottò le sopracciglia. “Dov’è l’entrata della galleria? Lo vado a cercare.”
Eichmann tossicchiò. “Sottotente, sarebbe meglio mandare una pattuglia… dall’altra parte stanno ancora combattendo, potrebbe essere…”
“Vado io,” lo interruppe il ragazzo. “Krause, Schreiber e Hanke insieme a me. Qualcuno che possa mostrarci la strada?”
Si fece avanti un sergente col capo bendato. “Io, signore. L’entrata si trova nel sottoscala dello sgabuzzino qua dietro, doveva essere un rifugio antiaereo usato dai civili.”
Li guidò fino a uno stanzino angusto e buio, completamente a soqquadro, dove trovarono una botola coperta da un pannello di legno. Kühn fu il primo a calarvisi: una scala a pioli conduceva in un cunicolo basso, scavato nella terra, dove per non sbattere la testa sulle travi che lo sostenevano bisognava piegarsi. Probabilmente era stato scavato in fretta e furia all’inizio della guerra, ma era stato presto abbandonato ai topi che, riemergendo dall’oscurità, li fissavano con occhi acuti e poi fuggivano via squittendo. Erich immaginava decine di civili seduti lungo quella specie di trincea sotterranea, spalla contro spalla, mentre gli abitanti del sottosuolo s’insinuavano tra i loro piedi e in superficie ruggivano le bombe. L’odore di umidità s’intensificava a ogni passo, e il fascio di luce della torcia rimbalzava sui reticolati di tubi. Dall’esterno proveniva un clamore fioco, la cui veemenza si andava gradualmente stemperando; il resto era silenzio, irreale e opprimente.
Comprese che erano quasi arrivati quando dall’estremità della galleria iniziarono a spirare zaffate d’aria intrise di esplosivo e polvere di mattoni sbriciolati. Esortando i soldati con un cenno, il sottotenente sollevò la pistola e affrettò il passo.
Si ritrovò un una cantina buia, il cui ingresso era ostruito da un cumulo di macerie ancora fumanti: una bomba aveva distrutto le scale e i muri che le sovrastavano, per impedirvi l’accesso dall’esterno. La torcia illuminò pareti scabre, prive d’intonaco, panche accatastate contro il muro, un apparecchio radio e faldoni di documenti ancora ordinati, segno che la postazione non era stata violata dai nemici. Ma il capitano…
“Signor sottotenente!” gridò Krause. “Laggiù… nell’angolo.”
Kühn proiettò il fascio di luce nella direzione indicata dal caporale e alla sua vista s’impresse con forza la figura di un ufficiale riverso sopra un drappo rosso. Riconobbe subito i capelli biondi del capitano von Kleist, passò la torcia a Krause e, raggiungendolo con un paio di balzi, si gettò in ginocchio vicino a lui. “Signore! Signor capitano!”
L’altro non diede segni di vita; nemmeno un flebile respiro gli scosse il petto. Quando gli tastò il polso, avvertì soltanto una debole pulsazione sotto la pelle fredda come marmo.
“Signore!” ripeté il sottotenente, allarmato. Lo raccolse con delicatezza; von Kleist spalancò gli occhi, lo sguardo allucinato, poi si afflosciò privo di sensi tra le sue braccia.
“È sempre vivo! Andate a chiamare i portaferiti!”
Mentre Hanke e Schreiber sparivano di corsa all’interno della galleria, Erich sollevò il capitano ferito, lo avvolse nella bandiera con l’aiuto di Krause, come se fosse una coperta, e se lo caricò in spalla, per poi lanciarsi a rotta di collo attraverso il corridoio angusto.
Correva a grandi falcate, a testa bassa, come se il suo fardello non avesse peso, e in breve distanziò Krause mentre gli stivali chiodati mettevano in fuga i topi. Per un attimo gli parve di sentire le braccia di von Kleist cingergli debolmente il collo, ma fu così fugace che non seppe dire se fosse un avvenimento reale o un’illusione generata dalla speranza.
Uscì dalla botola con la fronte madida di sudore e il cuore che gli schizzava nel petto, e fu accolto subito dai portaferiti che deposero il capitano su una barella: il suo volto era pallido e insanguinato, ciuffi di capelli gli ricadevano sulla fronte, ma i suoi lineamenti distesi davano un’impressione di serenità. La vista della bandiera, dove il rosso del tessuto si confondeva col rosso del sangue, comunicò a tutti i presenti che la missione era compiuta.
Ancora scombussolato, Kühn si fece strada attraverso la ressa di militari che erano accorsi sul posto, ignorando i loro commenti, e si fermò sulla soglia. Appoggiò la schiena allo stipite e alzò lo sguardo verso il cielo screziato di viola e rosso, attraversato a stormi dalle sagome nere degli aeroplani, lasciando che il vento autunnale gli increspasse il colletto della giubba.

  
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