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Autore: Bloody Wolf    28/05/2021    5 recensioni
Con questa storia ho voluto cercare di "fixare" il casino che hanno fatto in End Game, almeno per la parte riguardante la Stucky.
Spoiler per chi non ha visto EG e ci potrebbe essere un riferimento alla serie "Falcon and the Winter Soldier".
C'è Angst e Hurt psicologico.
Ringrazio infinitamente AivyDemi per averla letta e averla corretta, grazie dolcezza ❤
Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James ’Bucky’ Barnes, Sam Wilson/Falcon, Steve Rogers
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ringrazio tantissimo @AivyDemi per aver letto in anteprima e per avermi aiutato a correggere questa storia che la mia mente ha partorito.

Ringrazio chiunque abbia voglia di leggere questa storia e spero che vi piaccia.

Buona lettura!

“Signor Barnes? Prego, venga, da questa parte.”

Bucky si alzò prontamente dalla sedia in plastica con un mezzo sorriso malinconico, seguito a ruota da Sam che venne gentilmente fermato dall’infermiera con una mano delicatamente appoggiata sul suo braccio.

“Il Signor Rogers ieri ha specificamente chiesto di vedere solo il signor Barnes, mi dispiace.”

Camminò lentamente lungo quei corridoi che parevano immensi, sentiva un peso aumentare all’altezza dello stomaco, avvertiva quei muri farsi claustrofobici, il suo stesso respiro sembrava farsi corto e restìo a rimanere nei polmoni, quasi che non volesse nemmeno entrarci più.

Sentiva i suoni ovattati colpire i suoi sensi acutizzati, li udiva e quasi si sentiva spaventato da tutto quel rumore così asettico, così freddo e così semplicemente da ospedale.

Tutta la squadra sapeva che per Steve era solo una questione di giorni, di ore o di minuti, ma egoisticamente Bucky non era riuscito ad andare lì e parlare con lui, lo aveva evitato, consapevole che per una volta nella sua vita voleva essere un codardo, lì, nel momento più sbagliato della sua vita e con la persona più importante di tutte.

Si era ripetuto mille volte che avevano ancora tempo, un tempo che però ora pareva essere arrivato agli sgoccioli.

Si sentiva sporco, si sentiva inadatto in quell’ospedale pieno di anziani, in un luogo dove avrebbe dovuto esserci anche lui con il suo essere un ultracentenario, esattamente come Steve.

Avrebbe tanto voluto essere di fianco a lui, nel letto vicino a guardarsi come quando erano solo adolescenti, come accadeva durante la guerra, come prima che l’idiota decidesse di tornare indietro e preferire Peggy a lui.

“Signor Barnes, venga.”

La voce dell’infermiera lo obbligò a riprendersi dal tormento interiore che gli dilaniava l’animo, stringendo tra le mani la pelle della giacca che si era tolto nell’attesa, sentendo il braccio metallico stringere forse con un po’ troppa forza, ma senza riuscire ad impedirselo, non con quell'ansia che pareva divorargli la voglia di vivere.

“Sta dormendo, ma può tenergli compagnia fino a quando si sveglia.”

La donna lo aveva condotto con un sorriso nascosto dalla mascherina fino ad una stanza, una semplice porta dove campeggiava il nome di Steven Grant Rogers.

Entrò in silenzio e si chiuse la porta alle spalle, muovendosi cercando di non emettere alcun suono; l’addestramento che gli avevano impartito, il suo essere il Soldato d’Inverno erano lì, in quelle quattro mura, istintivamente e senza nemmeno che lui lo volesse forse perché troppo spaventato dal dover affrontare la situazione.

Steve c’era sempre stato per lui, non si era mai sbagliato nel considerarlo una brava persona ed ora erano lì, al suo capezzale, ad attendere una morte che avrebbe posto fine a un eroe, a un amico, all’intero mondo di Bucky.

Un uomo invecchiato con il volto pieno di rughe e con i capelli bianchi ecco cosa era, non era più l’idolo di un’intera nazione, non era più un capitano da seguire o un amico da trattare con i guanti di velluto per via della sua salute cagionevole, ora era solo uno dei tanti.

Bucky si sedette sulla sedia, lasciando scivolare a terra la giacca e iniziando a torturarsi le mani, l’una con l’altra, lasciando che il metallo freddo alleviasse un po’ la sua agitazione.

Sorrise mestamente, socchiudendo gli occhi e decidendo di parlare; semplicemente lasciò che la sua testa ricordasse, che portasse alla memoria tutto ciò che Steve era stato per lui, negli anni, nel tempo, per imprimerselo all’infinito nella mente.

Non gli importava sapere se l'altro sentisse o meno la sua voce, aveva solo bisogno di parlare con lui, ancora una volta, esattamente come faceva quando Steve era malato e lui parlava a raffica raccontandogli qualsiasi cosa in modo da distrarlo dal dolore e dalla cattiveria del mondo.

“Sei la mia àncora.”

Chiuse le palpebre con forza, stringendo le labbra prima di ricominciare in un fiume immenso di parole.

“Sei sempre stato l’unico punto fisso in tutta la mia vita, o almeno quella in cui ero sano di mente, sei stato l’unico che non mi abbia mai abbandonato...”

Si leccò le labbra negando con la testa, lasciando che le dita vagassero dalla fronte passando per i capelli, afferrandoli con forza mentre un leggero sorriso si faceva largo tra le smorfie di dolore e di sofferenza.

“Eri con me quando mi sono arruolato ed ero così fiero di poterti proteggere, di saperti al sicuro, lontano dagli orrori della guerra. Sai, eri sempre malato, sempre cagionevole di salute e io sentivo il bisogno di proteggerti, di saperti al sicuro, lontano dagli orrori del mondo intero…”

Aveva passato anni e anni a stare vicino a quel moccioso con la polmonite, con la pertosse e con la febbre alta. L’aveva curato, l’aveva assistito e aveva imparato ad amarlo, anzi, se ne era innamorato fin da quando l'aveva visto per la prima volta, in quel cortile vicino a casa sua, così piccolo e indifeso da far scattare in lui un forte istinto di protezione, qualcosa che l'aveva accompagnato da sempre.

Le immagini piacevoli si spensero nella sua testa per dare una continuazione a quel monologo immenso che sentiva nelle sue memorie, avvertiva le parole spingere per uscire, prepotenti nella sua mente già frammentata dalle torture.

“Mi hanno catturato e tu c’eri a salvarmi, più alto, più muscoloso, assurdamente più bello ma ancora troppo dolce con un reietto come me, hai affrontato tutti e tutto per venire a cercare me, uno stronzo strafottente e troppo pieno di sé.”

Avrebbe voluto aggiungere codardo, sì, un fifone che non era riuscito ad accettare che Steve avesse scelto Peggy alla fine, non dopo tutto ciò che avevano vissuto insieme, spalla contro spalla, occhi negli occhi, condividendo sia il letto che il respiro.

“E ancora tu c’eri quando sono caduto dal treno, ho visto il tuo volto urlare il mio nome e la mia caduta è stata accompagnata dalla tua voce, fidati di me, anche se non te l’ho mai detto, sappi che fino al momento in cui il mio cervello ha retto le torture e il dolore, il tuo nome era il mio unico mantra per rimanere ancorato a questo mondo…”

Gli occhi serrati vennero aperti, ora lucidi. Non poteva più tenerli chiusi, non quando le torture bruciavano nella sua testa e sulle sue vecchie ferite con la stessa forza dell’epoca. Era libero dal condizionamento dell’Hydra sì, ma non lo era dai ricordi che erano rimasti come marchiati a fuoco perché quelli non si potevano eliminare, sarebbero rimasti indelebili a segnarlo e a ricordargli che la cattiveria umana non aveva limiti.

“Steven Grant Rogers.

Steve. Stevie.

Il mio Steve.

Il mio migliore amico, il mio amore segreto, l’unica creatura vivente con un’anima dipinta con mille e più colori...”

Steve era sempre stato un artista, amava disegnare su qualsiasi superficie, era bravo e più volte aveva dipinto il profilo di Bucky, il suo corpo e le sue posizioni mentre dormiva. Poteva sembrare una situazione quasi imbarazzante, quasi pesante per una persona normale ma non per lui, vedersi attraverso quei disegni lo faceva sentire bello perché Steve lo vedeva così perfetto ed invincibile e con il tempo anche Bucky si era convinto di quel pensiero, standogli vicino, battaglia dopo battaglia, fino alla sua caduta dal treno.

“Anche se ero sempre circondato da donne o da altre persone, i miei occhi troppo spesso ti cercavano nella calca della gente. Mollavo la ragazza di turno con una scusa e correvo da te, l’ho fatto prima che usassero il siero su di te e l’ho fatto dopo. Sei la mia àncora, il mio tutto e io…”

Le immagini si sovrapposero violente nella sua testa, due volte aveva cercato di ucciderlo, troppo occupato a portare a termine la missione, aveva rischiato di ucciderlo con le proprie mani, anzi con quel braccio maledetto fatto ora di vibranio.

“Ho cercato di ucciderti, non ti riconoscevo, ti ho ferito, ti ho colpito, massacrato, io non ho riconosciuto la mia luce, ma non ero in me, quante volte me lo avrai ripetuto che quello non ero io?”

Sorrise leggermente passando la lingua sul labbro inferiore, cercando e fallendo nel tirare fuori una minima parte di quel giovane ragazzo di Brooklyn che giocava a fare l’arrogante.

“Mi ricordo tutti i volti delle persone che ho ucciso, nonostante il lavaggio del cervello che ogni volta mi facevano, la mia mente in quei momenti era lucida e così lo era mentre il mio pugno colpiva il tuo volto, più e più volte, ero io ti conoscevo ma non ti riconoscevo...”

Strinse le mani in pugni serrati, i gomiti puntellati sulle ginocchia e la fronte appoggiata sulle nocche mentre negava leggermente in memoria di quei sottili frammenti di secondo.

“Quando mi hai guardato meravigliato su quel ponte e hai chiamato il mio nome, quando non hai combattuto perché non volevi farlo, il mio respiro si è fermato e tu eri lì, un volto insieme al tuo nome già sentito ed eri già il mio nuovo mantra, eri qualcosa di familiare e di sconosciuto allo stesso modo, un dannato tarlo nella mia mente rotta e riassemblata dall’Hydra...”

Ricordava quei momenti, quella confusione che però aveva portato solo ad altro dolore, ad altra elettricità nel suo cervello, altra violenza per una creatura che era stata creata solo e solamente con l’intento di uccidere su commissione chi era scomodo ai suoi proprietari. 

“Ti ho visto combattere contro il tuo collega e amico Tony, ti ho osservato proteggermi con tutte le tue forze e non ne capivo appieno il motivo, perché stavi facendo una cosa del genere per qualcuno che si meritava quell’odio, perché eri disposto a buttare tutto il tuo mondo per un abominio come me…”

Un sorriso amaro spuntò sul suo volto, qualcosa di triste e di scontato.

“Ti avevo ricordato solo parzialmente, mi piaceva rispondermi che tu ti comportavi così perché eri Capitan America, perché tu non avevi mai ucciso nessuno senza ragione, perché vedevi in me quello stesso ragazzino che ti cambiava la salvietta dalla fronte umida di febbre, ma io non lo ricordavo completamente…”

Scosse la testa alzandosi e camminando silenzioso per quei pochi passi che la stanza gli concedeva, ascoltando dolorosamente il leggero rumore che veniva emesso dai macchinari che stazionavano vicino al corpo addormentato di Steve.

Bucky si portò le mani ai fianchi, aprendo la bocca solo per mordersi il labbro inferiore, carico di sofferenza e di malinconia.

“C’è stato un momento in cui ho iniziato seriamente a pensare che tu avessi torto…”

Chiuse gli occhi e lasciò che la testa ciondolasse verso il petto. Portò la mano metallica ad afferrare le medagliette che stazionavano sotto la maglia, sotto alla canotta scura, lì a contatto con la pelle, vicino al suo cuore. Il loro leggero tintinnare tra esse era confortante nella sua mente danneggiata. Le sfilò dal collo e si mise a guardarle, lasciando scorrere la propria epidermide su quelle lastre sottili di metallo.

“Ti ricordi, Steve?”

Il sorriso si fece spazio sul suo volto, un’inclinazione leggera e divertita di un angolo della sua bocca, gli occhi che si stringevano creando piccole rughe d’espressione ai lati prima che la testa di Bucky si voltasse verso il corpo inerme e addormentato di Steve, come se gli stesse rispondendo.

“Dopo che mi sei venuto a salvare al campo dell’Hydra, ti sei comportato come quando eravamo a Brooklyn ed eravamo solo due bambini…”

I ricordi inondarono la mente del soldato, si trovò obbligato a sbattere le palpebre nel disperato tentativo di ricacciare indietro le lacrime che sembravano essersi affollate nei suoi occhi, mentre cercava di continuare a raccontare. 

“Mi ricordo che eri entrato nella mia tenda, ti sei sdraiato delicatamente vicino a me, solo che pesavi un bel po’ rispetto al ragazzino che eri prima e… dannazione se abbiamo riso quando la mia branda si è rotta, solo perché ti sei sdraiato su di me, nemmeno ci avessimo saltato sopra o fatto chissà cosa...” 

In quel momento Bucky ridacchiò malinconico, ma le lacrime iniziarono a solcare le sue guance in silenzio, così come era stato addestrato a vivere, nell’isolamento del proprio io.

“Quella notte ci siamo scambiati il nostro primo bacio, nel segreto di una tenda, lontano da occhi indiscreti, solo io e te, come quando eravamo ragazzini.”

Ricordava perfettamente la sensazione delle loro labbra mentre collidevano indecise e tormentate dai pregiudizi.

Se si impegnava poteva quasi assaporarne ancora il gusto, dopo anni di tortura e di sofferenza sapeva che quel sapore non si sarebbe pù dissolto dal suo corredo mentale, era indelebile per lui.

“Ci sentivamo due clandestini, due anime sporche che, fondamentalmente, non stavano facendo nulla di male, due persone che si amavano in un tempo dove l’amore tra uomini non era contemplato...”

Non aveva mai parlato così tanto a cuore aperto, non l’aveva mai fatto se non per il suo Steve. 

“Quella notte parlammo di tutto e di più, mi dicesti che il professore Erskine ti aveva detto che il siero potenziava anche ciò che c’era dentro al corpo, nell'animo, e mi ricordo che mi dicesti che io sarei stato magnifico in quel ruolo ma io non ci credetti, anzi, non ci credo tutt’ora…”

Bucky si sentiva un mostro, un abominio fatto di scienza e di tecnologia, una creatura perennemente instabile, incapace di contrastare alcune parti di sé stesso.

“Avevo paura che ti succedesse qualcosa di brutto così ti seguivo ovunque, ero diventato la tua ombra e a te stava bene, ricordo come prendevi una scusa qualsiasi per appartarci e baciarmi, ricordo che ti sussurravo sulle labbra la nostra più grande promessa…”

Camminò fino al letto, sedendosi sulle lenzuola linde, attento a non urtare quel corpo che pareva potersi disintegrare da un momento all’altro.

“Sarò con te fino alla fine...”

I suoi occhi si appoggiarono nuovamente sulle targhette sorridendo malinconico nel leggere sulla prima il proprio nome e sulla seconda quello di Steve; se le erano scambiate la notte prima che lui cadesse, una cosa semplice quanto sentita.

Erano il sole e la luna, non indispensabili l’uno all'altro ma essenziali, erano il giorno e la notte.

Si fermò dal parlare, aggrottando le sopracciglia e lasciando che le lacrime scorressero nuovamente come un fiume in piena, come qualcosa che per troppo tempo era stato arginato ed obbligato a deviare percorso.

“Perché sei rimasto nel passato? Perché non sei semplicemente tornato da me?” 

Si portò le mani davanti agli occhi, a un passo dal cedere al dolore, pronto a farsi sovraccaricare da tutto ciò che gli passava per la testa.

Le immagini scorrevano veloci nella sua memoria, ogni tocco, ogni bacio, ogni lembo di epidermide che si sfiorava con quella di Steve, negli anni, nei vari luoghi.

Tutta la loro vita.

“Il tuo amico, il tuo Buck, il cretino che si porta sempre via tutta la stupidità con sé. Mi sono detto che…”

La voce si fermò, strozzata quasi nella sua stessa morsa, faceva male dover parlare a qualcuno che probabilmente nemmeno riusciva a sentirti, qualcuno che era più morto che vivo. Confessare tutto ad un corpo che quasi non si poteva nemmeno riconoscere.

Si leccò le labbra prima di parlare nuovamente, a bassa voce, lasciando che il braccio metallico si allontanasse dalla sua faccia per poterlo osservare, negando con il capo.

“Non ti ho mai meritato, non sono mai stato alla tua altezza. Mi dicevo che ero un reietto, un uomo spezzato da un destino crudele; era normale che tu non mi volessi accanto, ti avrei macchiato e lo capivo, ma ogni volta che mi guardavi non c’erano brutte cose nei tuoi occhi chiari, c’era solo ammirazione e io non capivo, anzi, non capisco tutt’ora… perché?”

Appoggiò le mani sul materasso lasciando che la testa ciondolasse verso il petto con gli occhi offuscati dalle lacrime che cadevano, lente, dai suoi occhi finendo sui jeans neri che indossava, rendendoli umidi a livello delle ginocchia.

“Perché mi hai lasciato solo nel momento in cui avevo più bisogno di te?”

Il suo mento vibrò mentre serrava le palpebre con forza, chiudendo le dita sul lenzuolo accompagnando il tutto con quel sottile rumore metallico che il suo braccio emetteva.

Steve aveva scelto un'altra persona, aveva preferito un futuro roseo piuttosto che tornare e aiutarlo, tutto piuttosto che non onorare la loro promessa.

Bucky avrebbe dovuto essere furioso con lui, avrebbe dovuto odiarlo, disprezzarlo, imprecare verso ogni cosa che portava il suo viso e invece…

Era lì, a piangere su di un letto d’ospedale, parlando ad una persona che non poteva nemmeno sentirlo.

Si girò a guardare quel volto invecchiato dalle rughe, quella pelle macchiata e stanca, rivedendo però in lui i lineamenti del suo Steve.

La sua mano in vibranio andò a stringere la mano dell’uomo in un tocco semplice ma sentito.

Quando nessuno credeva nella sua innocenza, Steve ci aveva creduto, non l’aveva temuto perché lo conosceva e Bucky, per assurdo, si fidava troppo di lui per avercela con lui.

Era dovuto succedere qualcosa affinché accadesse tutto quello, prima di tornare indietro nel tempo Steve aveva in mente qualcosa, lo sapeva, l’aveva capito semplicemente guardandolo negli occhi, a differenza degli altri lui se l’era immaginato.

Serrò le palpebre e buttò fuori dai polmoni un sospiro che pareva una sorta di ringhio mal celato.

Strinse le proprie dita intorno alla mano di Steve. Il leggero rumore di carta stropicciata portò Bucky a spalancare gli occhi e spostare la sua attenzione lì, in quel palmo che aveva cercato di stringere.

Il soldato girò l’arto con calma, attento a non fargli male, lasciando che gli occhi scattassero verso il suo volto che restava fermo e immobile, respirando grazie a quella macchina salvavita.

Assottigliò lo sguardo mentre afferrava il pezzo di carta che l’uomo teneva saldamente ancorato a sé. 

Era un foglio leggermente ingiallito e ciò dimostrava che, qualsiasi cosa fosse, non era stata scritta in quei giorni.

Aprì il foglietto trovandoci un disegno, un bellissimo e semplicissimo albero fatto a matita, un qualcosa che richiamava alla memoria la loro infanzia e la loro gioventù, si ricordava perfettamente la prima volta che Steve aveva disegnato quell’albero che stazionava nel cortile vicino casa loro.

Negò con la testa, incredulo di quanto un semplice disegno potesse fargli riaffiorare alla mente; spostò l’attenzione dal foglio ingiallito all’uomo che dormiva beato nel letto, per poi sorridere e girare il disegno in un movimento istintivo, qualcosa che lo portò a sgranare gli occhi incredulo mentre i suoi battiti si fermarono per un attimo, prima di ricominciare a correre come impazziti nel suo petto.

Un rumore all’esterno della stanza portò Bucky a scattare in piedi, infilando velocemente la carta in tasca mentre la porta veniva spalancata per permettere ad una donna di entrare, era anziana ma quei lineamenti appartenevano a Peggy, ne era più che certo. 

Gli occhi della donna si incatenarono ai suoi, si perse in essi per una frazione di secondo, chiudendo la mani in pugni rigidi, così come la mascella. Quella donna gli aveva tolto tutto. “Barnes?”

La voce della donna era assente, era bassa e resa roca dall’età ma i suoi lineamenti e i suoi occhi donavano all’uomo una versione della donna che era stata, una sua visione reale e viva.

Bucky ricordava che una volta Steve gli aveva detto che Peggy nella sua anzianità era affetta da Alzheimer e così decise di sfruttare a suo favore quel fattore, non avrebbe mai voluto fare del male alla donna del suo Steve, lui non era fatto così e non avrebbe ricominciato in quel momento.

“No, signora, sono solo un veterano che passava di qui ed è venuto a fare onore al proprio Capitano.”

La donna lo guardò confusa, prima di annuire e avvicinarsi al capezzale del proprio marito, lasciando libero il passaggio a Bucky che si ritrovò a defilarsi dalla stanza, decidendo di ritornare sui suoi passi fino alla tromba delle scale d’emergenza. 

Si fermò scrutando al di là di una porta Sam che se ne stava seduto annoiato sulla sedia, se ciò che la sua mente aveva pensato era vero, doveva tenere fuori Sam da quella storia.

Percorse parte delle scale con passo rapido e silenzioso, entrando e uscendo dai vari reparti come se conoscesse a memoria quel labirinto di medici ed infermieri, riuscendo ad uscire dall’entrata del pronto soccorso, rubando un cappello scuro da un armadietto del personale prima di uscire e disperdersi nel traffico di Brooklyn.  

Si immise in un vicolo prima di fermarsi e riprendere quel disegno tra le mani, lo osservò accarezzando il tratto con gli occhi, sorridendo al ricordo di uno Steve che rimaneva gobbo sulla sua cartelletta con la matita in mano, per ore e ore, fino a collassare.

Ricordava anche come, tutte le volte che pioveva, Bucky lo coprisse con una delle coperte in lana in modo da impedirgli di prendere freddo, seduto sulla finestra della sua casa.

Dietro a quell’albero c’erano scritte poche e concise parole, insieme a una data che era esattamente quella del giorno corrente; ed era strano perché la carta era ingiallita e il tratto con lei, non poteva essere stata scritta in quegli ultimi giorni.

Chiuse gli occhi e si maledì ad alta voce, riaprendoli per guardarsi intorno con circospezione, erano gesti che erano entrati a far parte del suo corredo genetico: il Soldato d’Inverno era sempre con lui, anche se era libero, anche se quella condizione non esisteva più, la sensazione di dover essere un fantasma era lì, lo accompagna e gli teneva compagnia da troppo tempo per poter essere debellata.

Si incamminò con passo calmo e con le mani in tasca, raggiungendo in meno di venti minuti il vecchio quartiere dove erano cresciuti, percorse gli ultimi duecento metri tenendo la testa bassa, scrutando tutti e tutto senza dare nell’occhio.

Svoltò un’ultima volta per ritrovarsi di fronte al giardino che divideva le loro case, la vecchia costruzione dove viveva Steve era occupata, c’erano vestiti e giocattoli sparsi sul pianerottolo, svoltò il capo notando che la sua vecchia casa era chiusa, invenduta e abbandonata alle intemperie del luogo.

Strinse i denti in una solida morsa, controllando se ci fosse qualcuno a guardarlo, aveva la sensazione di essere osservato.

Salì le scalinate con passo cauto e calibrato, non voleva entrare lì, non voleva essere assalito dai ricordi e crollare nuovamente, ma le sue gambe sembravano aver preso un’altra decisione e continuavano imperterrite ad avanzare, passo dopo passo.

Appoggiò la mano sul pomello della porta, pronto a spaccarlo in caso di resistenza ma quando questa semplicemente si aprì senza opporre resistenza, Bucky rimase stupito mettendosi immediatamente sulla difensiva.

Entrò notando subito che, appesi ai muri, c’erano alcuni disegni fatti di recente, con carta bianca e nell’aria c’era l’odore delle tempere fresche.

Si soffermò su uno in particolare e si ritrovò a fremere, quasi intimorito dall’intera situazione; quel dettaglio non era scritto in nessun libro di storia, in nessun museo e non c’era persona viva che sapesse di esso -solo Steve-.

Quel dipinto rappresentava loro, in Wakanda, in una torrida serata estiva quando Steve si era sdraiato sulla veranda della capanna e lui si era assopito sul suo grembo con un capretto addormentato tra le gambe. Bucky si ritrovò ad allungare una mano, sfiorando quel dipinto con i polpastrelli, in un moto di tristezza e di ricordi. 

Se tutta quella situazione era un tiro mancino di qualcuno, Bucky avrebbe ucciso volentieri, non gli importava di tornare a ricoprire il ruolo del cattivo, non quando qualcuno stava giocando ancora una volta con i suoi ricordi, con quelle immagini che si erano fissate nel suo cervello dopo la caduta dell’Hydra, dopo essere tornato sé stesso.

Avvertì la presenza dietro di sé e reagì con movimenti scattanti e potenti, colpendo il ginocchio e il collo dell’individuo, immobilizzandolo sotto di sé, ritrovandosi a scontrarsi con gli occhi di Steve.

Con il sorriso di Steve.

Con il suo Steve.

“Bucky…”

Con la sua voce leggermente agitata.

Il soldato negò con la testa caricando un pugno e assestandolo a pochi millimetri dalla testa di quella sorta di copia perfettamente riuscita del suo Steve.

“Sono io.”

Caricò e calò il pugno per la seconda volta colpendo con forza un suo zigomo, afferrando la giacca dell’uomo all’altezza del petto e sbattendolo a terra con cattiveria, con la freddezza negli occhi.

“Chi diavolo sei?”

La sua voce era un sibilo minaccioso, doveva essere un campanello d’allarme ma non per quella figura che sorrise appoggiando le mani sulle sue, in una morsa leggera e calda.

“Sono Steve Rogers, il ragazzino mingherlino che tu salvavi dai bulli di questi quartieri…”

Bucky negò con la testa chiudendo gli occhi e digrignando i denti.

“Sono l’uomo che è venuto a salvarti e sono anche l’uomo che ti ha visto cadere dal treno…”

“Zitto, sono tutte balle.”

Anche se stava impazzendo, sentire la voce del suo Steve era piacevole, era lì sotto di lui, inerme e non pericoloso. La sua voce era un sibilo minaccioso, incredulo. 

“Sono colui che ha lottato per la tua innocenza contro Stark, sono la persona che in Wakanda ti stringeva al suo petto mentre piangevi per poi ridere con te.”

Gli occhi di Bucky si fecero lucidi perché quei dettagli, quelle scene erano impresse nella sua memoria ed erano solo loro, nessun’altro poteva averle viste.

“Tu non…”

Steve sorrise dolcemente, inarcando un lato della bocca in quella smorfia che aveva sempre avuto, intrisa di tutta la dolcezza d’animo che aveva incuriosito Bucky fin da piccolo.

“Ti spiegherò tutto, ma sono io, sono tornato da te Buck.”

Bucky era in ginocchio sopra al bacino di Steve, le mani ancora artigliate ai suoi vestiti e gli occhi spalancati dalla sorpresa, sicuro che ci fosse un inganno, qualcosa che non riusciva a comprendere, qualcosa che poi gli avrebbe fatto del male.

Steve mosse le mani alzando la parte superiore del corpo lentamente per riuscire a sedersi con calma, spostando leggermente il busto del soldato all’indietro.

“Bucky, hai mille ragioni per odiarmi, ciò che ho fatto è atroce nei tuoi confronti, ma ti prego, lasciami spiegare…”

Annuì, irrigidendo i lineamenti del volto, impossibilitato a credergli del tutto... eppure quell’uomo era Steve, aveva il suo volto, aveva il suo odore, aveva il suo corpo e aveva i suoi ricordi.

Non poteva essere una copia e nemmeno un brutto scherzo organizzato da qualcuno che gli voleva male. Quello era Steve e ne ebbe ulteriore conferma quando la sua mano in vibranio andò ad afferrare la catenella delle medagliette, sfilandola da sotto la maglia, riconoscendo immediatamente sia il proprio nome che quello di Steve, due semplici pezzi di metallo uguali ma diversi tra loro.

“Sono qui, Buck.”

Annuì, lasciando che le mani cadessero a peso morto sul ventre del compagno, gli occhi fissi su quelle targhette, incapaci di dividersi da esse e dal loro significato.

Le braccia del Capitano andarono a chiudersi sulla sua schiena in un abbraccio soffocante, respirando il suo odore direttamente dall’incavo del suo collo.

“Mi sei mancato, Bucky.”

Il soldato decise di rimanere in silenzio, lasciandosi avvolgere dal calore dell'uomo, dal corpo solido e piacevole che sapeva di casa e di appartenenza.

I minuti diventarono ore in quella posizione così stazionaria ma piacevole, due cuori che stavano imparando a tornare a battere all’unisono dopo anni di separazione, lì, nella penombra di una casa che aveva assistito a parte della loro storia. La fronte di Bucky si appoggiò alla spalla di Steve,chiuse semplicemente gli occhi godendosi tutto nell’attesa che finisse, un pensiero egoistico e dannatamente doloroso per un guerriero come lui.

La voce del biondo iniziò a riempire l'aria raccontando ciò che era successo, con quel tono che pareva accarezzare i suoi sensi nel migliore modo che avesse mai sentito.

Quella voce era un balsamo lenitivo, era la medicina che aiutava la sua psiche a guarire più in fretta e non avrebbe mai voluto separarsene.

“Con il fatto che siamo tornati indietro nel tempo e abbiamo scombussolato alcune cose tra le gemme e tutto il resto, mi sono ritrovato a fare ciò che dovevo fare, così come eravamo d’accordo…” si fermò annuendo leggermente con il capo, cercando delle parole che Bucky sentiva quasi nella sua testa “Ma lì ho scoperto che in quella dimensione Bucky era morto sotto ai ferri dell’Hydra…”

La voce di Steve si spezzò leggermente prima di ricominciare a raccontare, sofferente.

“Mi sono trovato a pensare, a ragionare su ciò che avrei potuto fare per il me stesso che avrebbe dovuto vivere senza di te, forse perché l’avevo provato sulla mia pelle, così ho agito d’istinto, in nome di un sentimento più grande...”

Bucky sbuffò dal naso, sorridendo in modo malinconico e lasciando che la propria faccia venisse smossa da una smorfia divertita.

“Chi è lo stupido, istintivo e megalomane tra noi? Ripetimelo un attimo, perché penso di essermelo dimenticato, per favore.”

Steve sbuffò una risata malcelata, negando leggermente con il capo, scompigliando i capelli corti di Bucky.

“Ho fatto in modo di entrare in contatto con lo Steve del passato, anche se sapevo che non avrei dovuto ma a quanto pare tu sei stato l’effetto collaterale e lo Steve di quella linea temporale aveva già pagato il suo prezzo.”

Si fermò ancora una volta per sospirare prima di ricominciare a parlare, cercando di stringere sul discorso, consapevole di quanto Bucky non amasse troppo le parole.

“Gli ho spiegato cosa sarebbe successo, come avrebbe dovuto fare ad anticipare certi avvenimenti e infine gli diedi il disegno dietro cui scrissi la data di oggi, ricordavo la data del giorno in cui ero tornato indietro ma non potevo prevedere la data in cui tu saresti andato a trovare il me vecchio, così ho sparato una data e penso che mi sia anche andata bene visto che tu sei qui, tra le mie braccia.”

Bucky alzò la testa aggrottando le sopracciglia prima di prendere parola e porre una semplice domanda.

“Questo significa che ti sei fatto ibernare al suo posto, come hai fatto?”

Steve sorrise perdendosi nei suoi occhi, Bucky era sempre stato sveglio e insieme avrebbero anche potuto organizzare qualcosa di più scenico e accattivante, ma nel passato non c’era alcun Bucky con cui discutere.

“Ho lasciato a Peggy l’incombenza di tirarmi fuori dal ghiaccio, l’anno stesso della caduta dello Shield, così che nulla sembrasse sospetto.”

“Lei soffriva di Alzheimer…”

Steve sorrise ed emise un leggero sbuffo annuendo.

“Le avevo scritto tutto in un quaderno e il me del passato aveva il compito di aiutarla, ci siamo aiutati a vicenda.”

Il braccio in vibranio si mosse andando a colpire il pettorale di Steve con moderata forza, una sorta di monito per ciò che le labbra di Bucky si sarebbero lasciate sfuggire.

“Sono passati anni dalla caduta dello Shield… Perché non sei tornato prima da me?”

La voce era cauta, mantenuta bassa ma carica di tutto ciò che stava provando in quel momento, quel senso di abbandono che però veniva soppiantato dalla presenza che ancora lo teneva stretto a sé.

“Con il fatto che tu non c’eri, c’erano altri supersoldati. Ho preso il posto di Zemo nell’ucciderli, non ne vado fiero ma visto che parte dei fatti li ho potuti prevedere, spero di essere riuscito a fare qualcosa di buono.”

Queste parole colpirono Bucky, che si mosse, ancora titubante, facendo scorrere le mani sulle spalle di Steve per chiuderle poi in un abbraccio sicuro e amichevole, confortevole.

“Hai fatto la cosa giusta, Steve.”

Il loro abbraccio era forte, era struggente, sapeva di mille e più cose che si erano sempre taciuti, era fatto d’amore e d’odio, di malinconia e di passione, erano due pezzi di un puzzle che si incastravano perfettamente; erano due anime antiche che si erano ritrovate in un’epoca non loro, si confortavano a vicenda nel sangue e nelle lacrime.

Steve spostò la testa in modo da far collidere le loro fronti, un tocco e un gesto a loro abitudinario, qualcosa che apparteneva ai due ragazzini che non avevano nessuno al mondo se non loro stessi.

Un sorriso si stampò sul suo volto, un sorriso carico di sentimento, qualcosa che passò contagioso anche sui lineamenti del soldato.

Steve era bravo con le parole, lo era sempre stato, fin da quando erano piccoli e lo aveva dimostrato poi nell’esercito; erano lì, circondati dai disegni che rappresentavano immagini del loro passato, abbracciati in un’unione che sapeva di eterno.

“Sono tornato a casa per stare insieme, fino alla fine. Ce lo siamo promessi troppe volte per non farlo davvero.”



❤ ❤ 
Ditemi cosa ne pensate e se ho -anche solo parzialmente- sistemato i lcasino che i registi hanno fatto.
Alla prossim, ciaoo!!!

 
   
 
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