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Autore: A_Typing_Heart    29/05/2021    1 recensioni
Raim è il lavapiatti di un grande ristorante di Las Vegas e prende il suo lavoro come un banale mezzo di sostentamento per fare una vita tranquilla fuori dai guai che lo hanno segnato. La sua vita procede nella routine finché una sera un nuovo chef bussa alle porte del ristorante per chiedere un lavoro, dando una svolta inaspettata ad entrambe le loro esistenze.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Aver superato la crisi del manzo non mi diede sollievo a lungo, ma cercai comunque di restare calmo per non dare ulteriore stress a Sahan, che passeggiava su e giù davanti all’abbattitore pregando in un misto francese che le basi fossero abbastanza fredde. Capivo la sua ansia: mi aveva spiegato che il dessert lascia un’impronta definitiva sul cliente, salvando un menu mediocre o affossandone uno perfetto, e non avevo dimenticato che Sahan si considerava soprattutto un pasticciere, così com’era stato cresciuto al ristorante di famiglia.

«Che dici, diamo una sbirciata?» gli domandai a un certo punto, guardando il Paris Brest di Durand spinto in sala su un carrello. «Non manca molto. Proviamo a vedere.»

L’incarnato mediorientale di Sahan aveva una strana sfumatura e onestamente mi offrii di prendere io il vassoio perché dava l’impressione di stare per vomitare. Le basi rotonde erano intatte e bastò toccarle con un dito per sentirle fredde. Quando sorrisi l’anima stessa di Sahan sembrò riaccendersi.

«Prendo il resto e assembliamo, eh?»

Al suo cenno corsi a prendere tutti gli elementi, notando con gioia che niente era scomparso o era stato compromesso com’era successo alle basi al sesamo. Ma non era finita, anzi: la preparazione del dolce era un susseguirsi di piccole tensioni. La pannacotta si sarebbe staccata senza rovinare la forma dello stampo a fiore? La gelatina aveva il giusto sapore? Saremmo riusciti a tagliarla su misura in modo impeccabile? Il biscotto di kamut si sarebbe infilato come nelle prove che avevamo fatto a casa?

Infatti incappammo in un problema, ed ero stato io a causarlo facendo biscottini troppo spessi. Infilandoli nella gelatina finivano per romperla rovinando l’effetto. Sahan si fece pensieroso, ma io ero mortificato di aver inciampato su un dettaglio tanto stupido e volevo assolutamente rimediare.

«Certo, è un problema… non riusciremo a impiattarlo come volevamo.»

«Io… mi dispiace da morire, Sahan…»

«Morire non serve, no? Pensa a una soluzione» mi disse lui, incoraggiante. «Sei un cuoco, non puoi darti vinto per un intoppo. Che cosa facciamo?»

Sospirai e mi massaggiai il mento, accigliandomi. Sahan non mi aveva mai parlato di una presentazione alternativa, di questo ero certo. Essendo un dolce della sua prima giovinezza mi aveva spiegato la sua presentazione, ma poi affiorò qualche altra cosa. La prima sera, quando mi aveva mostrato come assemblare gli strati, aveva detto che pannacotta, gelatina, mousse, sesamo, caramello e biscotto erano necessari per apportare diverse consistenze al dessert.

«Consistenze» mormorai, assorto.

«Mh?»

«Ecco… il biscotto serve a dare una consistenza più dura alla parte superiore del dolce, quindi lo potremmo sbriciolare sopra.»

«Sbriciolare?»

«Ecco… ti ho mai parlato di mia nonna Ethel? È una gran golosa, sempre stata, ma il dottore le disse di mangiare meglio, un po’ di anni fa» gli raccontai in breve. «Detestava la roba morbida, tipo lo yogurt… non le piace la consistenza, e per mangiarlo ci sbriciola dentro i biscotti.»

Sahan ridacchiò.

«Ah, ecco perché sbricioli gli Oreo dentro il gelato sciolto…»

«Beh, se provassimo così?»

Avevamo impiattato un dolcetto con la gelatina che sembrava essere stata accoltellata e lo usai come cavia: sbriciolai grossolanamente il biscotto di kamut da un lato del fiore, rimisi sopra la spuma di bergamotto con il cucchiaino – era ferma e leggera come schiuma da bagno – e poggiai di lato la pallina di limone caramellata, con la sottile stalattite obliqua contro lo spruzzo di mousse. Mi pareva piacevole a vedersi e cercai l’approvazione di Sahan con lo sguardo.

«C’è un solo modo di sapere se funziona, no?»

Sahan mi allungò un cucchiaino. Dopo un momento di esitazione lo presi e all’unisono li affondammo nel dolce per assaggiare spuma, granella, gelatina e pannacotta nell’insieme. Chiusi gli occhi quando gli accordi di gusto risuonarono in bocca, esattamente uguali a quelli che aveva creato Sahan la prima sera. La lingua percepì il ruvido del biscotto sbriciolato in mezzo alle tre consistenze più morbide e mi ricordò in modo vivido il milkshake ai biscotti di cioccolato che amavo quando ero bambino.

Riaprii gli occhi, ma Sahan non aveva cambiato espressione.

«Dunque, Raim? Che ne pensi?»

«Penso che così sia perfetto.»

Lo vidi sorridere mettendo via il cucchiaino.

«Impiattiamo.»

Si occupò lui di sistemare le pannine e la gelatina sopra, io passai dietro di lui con i biscotti schiacciati, e poi passò di nuovo i piatti con il sifone della mousse di lime e bergamotto – niente al mondo sembrava rallegrarlo di più che spruzzare con il sifone, era come un bambino con un flacone di sapone per bolle – e infine passai ancora io a posizionare la stellina di limone salato caramellato e la fogliolina di menta.

Era non solo il dolce, ma forse la cosa più bella che avessi mai fatto con le mie mani. Rimasi lì, ammutolito dall’emozione confusa che provavo, mentre guardavo i dolci e Sahan che scattava foto con il cellulare. Quando si accorse che lo guardavo scrollò le spalle sorridendo.

«Comunque vada a finire sarà un bel ricordo per entrambi.»

Mi trovai turbato da quella frase. Tolsi il grembiule con un gesto meccanico, poi riuscii a riconquistare la mia voce.

«Sahan, che cosa farai se…?»

Fui interrotto dall’arrivo di Kerr e dei suoi camerieri. Mi informò che gli ospiti avevano terminato con il dolce di chef Durand e chiedeva l’autorizzazione a servire. Non c’era motivo di tenere i nostri piccoli capolavori in attesa e li feci servire; stranamente Kerr non aveva nemmeno guardato Sahan accanto a me. Lì per lì non ci feci caso preso dalle mie preoccupazioni, ma il maître del Liaison aveva trattato me come fossi lo chef.

«Dobbiamo uscire?» domandai incerto a Sahan, ma lui scosse la testa.

«No, lasciagli finire il dessert… usciremo tutti quando i camerieri sparecchieranno, per ringraziare e salutarli… dopodiché, leggeremo le loro critiche nei prossimi giorni.»

Mi stupì vederlo tendermi la mano.

«Ben fatto, Raim… grazie del tuo aiuto. Senza di te non avrei neanche potuto cogliere quest’occasione.»

«Smettila, prima che ti suggerisca dove puoi mettere quella mano» replicai, senza soffocare un sorriso. «Ci portiamo avanti con le pulizie? Prima non te l’ho detto, ma Martha ci ha invitati da lei a mangiare quando avremo finito qui… se non sei troppo stanco.»

«In realtà sono stanco morto… ma ho anche fame, quindi vengo!»

Accennò una risata e come me iniziò a riordinare e ripulire la postazione, anche se dopo il servizio del dessert la sua energia se n’era scesa in cantina, al punto che sembrava trascinare le stoviglie anziché sollevarle e il suo strofinaccio veniva mosso a destra e a sinistra senza gran convinzione. Doveva essere fisicamente e mentalmente esausto dopo quel pazzesco tour de force in due.

«Sahan… perché non ti siedi un po’? Continuo io a pulire, e…»

In quel momento però Durand si avvicinò a noi.

«Hanno finito di cenare… è ora di andare a salutarli» ci disse, e si girò a fare un cenno alla sua brigata. «Date una ripulita. Isabel, lava quello che è rimasto prima di andare.»

«Sì, chef» rispose l’intero gruppo in coro.

«Lucas, tu vieni fuori con me» aggiunse quando Malone fece per avvicinarsi.

«Sì, chef. Grazie.»

Durand e Malone si avviarono verso la sala mentre l’intera brigata del Liaison confluiva nella zona pasticceria per ripulire. Facevo fatica a credere di non stare sognando: chef diplomati stavano pulendo le pentole che io avevo usato, era qualcosa di folle. Era come vivere nelle versione gastronomica di un romanzo di Verne.

«Che aspetto ho?» mi domandò sottovoce Sahan, preso a sistemarsi i capelli già in ordine.

«Splendido, come sempre… quindi stai calmo.»

Sahan abbassò le mani e mi sbirciò con la coda dell’occhio.

«Mi trovi davvero splendido o è solo per farmi sentire meglio?»

«Ti sembra il momento per questo discorso?»

Entrammo in sala mentre finivo di sussurrargli quella domanda e ci zittimmo entrambi. I nostri ospiti erano seduti al tavolo, girati verso la cucina come se ci aspettassero con ansia. Durand e Malone si schierarono, con il secondo un passo dietro l’altro, ma Sahan ancora una volta mi guidò afferrandomi il polso e mi fece mettere esattamente accanto a lui. Stare sulla stessa linea di un Micheaux e di Durand era fin troppo arrogante, ma non volevo che i clienti vedessero le nostre braccia azzuffarsi dietro le nostre schiene.

«Spero che i signori e le signore ospiti abbiano gradito la cena che abbiamo proposto questa sera» esordì Durand, con un tono gentile che non gli avevo mai sentito usare. «Siete stimati professionisti del settore gastronomico e siamo onorati di aver cucinato per voi.»

Durand guardò Sahan invitandolo – con un sorriso che a me pareva stranissimo sulla sua faccia austera – a dire qualcosa anche lui. Il mio amico sorrise spontaneamente, con un residuo di luce negli occhi nonostante la stanchezza evidente.

«Questa è stata un’occasione più che immeritata per uno chef giovane come me, ma ringrazio sentitamente tutti voi di aver fatto un po’ di spazio anche per il nostro menu… di certo quello di chef Durand era buono abbastanza per il bis, quindi grazie di essere stati curiosi!»

Qualcuno degli ospiti rise a quella sua uscita, e tutti e quattro ringraziammo e augurammo loro una buona serata mentre si alzavano da tavola. Pensavo fosse finita e stavo seguendo Sahan verso la cucina quando mi sentii chiamare dal critico con i baffetti.

«Chef Manning, una parola, la prego.»

Non fui solo io a voltarmi con stupore, tutti i cuochi presenti fecero la stessa cosa.

«Qualcosa non va?»

«Affatto, ma… il menu che ho assaggiato mi ha incuriosito molto. Per quanto Micheaux sia giovane il suo pedigree e le sue esperienze precedenti sono piuttosto note… ma lei, chef Manning, da dove viene?»

La domanda dell’uomo suscitò l’interesse di tutta la tavolata, al punto da trattenerla per sentire una risposta… una risposta che in verità non avevo.

«Io… sono di qui. Non ho mai lasciato Las Vegas.»

«In quali ristoranti ha imparato?»

«Io… nessuno… io ho lavorato soltanto qui, al Liaison.»

«Davvero? Eppure credevo di conoscere tutti i cuochi della brigata» osservò una donna sulla sessantina. «In quale ruolo?»

Non sapevo davvero più che cosa rispondere. Non mi vergognavo di essere uno sguattero, ma qualcosa mi diceva che ammetterlo davanti a loro avrebbe intaccato il ricordo della cena e penalizzato una valutazione importante per Sahan. Lo guardai in palese ricerca di aiuto, ma quello che parlò subito dopo non era lui e neanche Durand.

«Beh, il nostro Manning è una specie di fenice, un simbolo di quanto straordinario sia il potere della determinazione!» esclamò Malone, sorridendo. «Non è da tutti passare da sguattero a chef in una settimana… anche se non sappiamo esattamente quanta esperienza abbia fatto nella cucina del Desert State.»

Cadde un silenzio teso sulla sala da pranzo e io iniziai a sentire quasi freddo. Mi mordicchiai il labbro inferiore e guardai in basso; non osai guardare Sahan neanche quando lo sentii afferrarmi il gomito e toccare la schiena cercando di calmarmi, o di confortarmi, non lo sapevo. Non avevo idea di come Malone fosse venuto a sapere che ero stato in carcere e dove, né riuscivo a capire perché avesse deciso di parlarne in quel momento davanti a quelle persone.

Mi sentivo umiliato. Non riuscivo ad alzare la testa, avrei voluto almeno dire che era stato Sahan a insegnarmi tutto quello che mi serviva ma non riuscivo a farlo. Fu l’uomo coi baffi a rompere il silenzio.

«Beh, comincio a pensare che finire al Desert State non sia affatto male.»

La signora sorrise con un’esclamazione divertita, un altro uomo convenne che forse il penitenziario valeva una visita per cena. La tensione si stemperò, vennero rinnovati ringraziamenti da ambo le parti e mi trovai a chinarmi più di chiunque altro agli ospiti che se ne andavano. Non capivo perché, ma mi sentivo come se li avessi imbrogliati, sentivo che era tutto sbagliato e non vedevo l’ora di infilarmi nello spogliatoio e togliermi quella giacca che non meritavo.

Non appena furono fuori dalla porta girai i tacchi e marciai spedito fino in cucina e allo spogliatoio, con Sahan alle calcagna.

«Raim, aspetta, non fare così!»

«Così come?» brontolai; avevo la voce che tremava.

Sahan entrò nello spogliatoio mentre mi toglievo – no, mi strappavo – di dosso la giacca. Avevo completamente perso la testa. Avevo trovato l’orgoglio per un solo giorno della mia vita dopo anni di oblio di me stesso e mi era stato calpestato brutalmente. Non ricordavo di aver mai sofferto più di quel giorno, mi sembrava peggio di qualsiasi altra cosa.

«Malone non sa di che parla! Può sparlare quanto vuole, ma l’essere stato in carcere non ha tolto nulla alla tua persona e al tuo talento!»

«Avrei dovuto ricordarmi quello che mi ero ripromesso di non dimenticare quando sono uscito» ringhiai, più arrabbiato con me che con chiunque altro. «Dovevo tenere a mente di non essere niente. Sapevo che finire in carcere mi aveva reso un uomo distrutto e che niente l’avrebbe mai potuto cambiare.»

«Questa è una cattiveria gratuita!» protestò Sahan, con i pugni serrati. «Tu sei stato bravo, altro che uomo distrutto! Hai costruito splendidamente una nuova vita, hai preso il meglio che un’esperienza così crudele ti poteva insegnare e ora sei… guardati!»

Si aggrappò al mio braccio con tutto il peso per trattenermi dall’uscire.

«Sei una persona umile, gentile, e determinata… sei paziente, calmo e io… io ti devo tutto, tutto quello che verrà da questa incredibile serata!»

Sapevo che diceva sul serio. Vedevo dai suoi occhi che era sincero e sinceramente ferito dal modo in cui soffrivo in quel momento, ma il mio nuovo, piccolo orgoglio sanguinante mi stava impedendo di guardarlo davvero. Della calma e della pazienza era scomparso tutto, volevo solo correre a casa, infilarmi nella doccia e leccarmi le ferite lontano da tutti.

Lo spostai con un gesto brusco del braccio e uscii dallo spogliatoio solo per trovarmi davanti chef Durand, che mi fissava. Era piuttosto improbabile che non avesse sentito la nostra discussione.

«Ci sarà sempre qualcuno migliore» mi disse con l’aria di chi parla fra sé e sé. «Qualcuno che ci surclassa pur avendo studiato meno… avendo meno esperienza e conoscenza. Non nasciamo tutti con lo stesso talento e con le stesse occasioni… né con lo stesso carattere.»

Allungò la mano destra verso di me.

«Servizio eccellente, Manning. Congratulazioni per il vostro successo… di certo è stato meritato.»

Se non fossi stato così stanco e il cervello così lento penso che avrei preso a pugni Durand. Successo? Merito? Dopo tutti i tentativi di affossarci mi faceva piantare quel coltello nella schiena dal suo sicario e osava anche farmi le sue congratulazioni?

Tuttavia, non avevo voglia né la forza di litigare e discutere. Gli strinsi la mano senza trarne la minima soddisfazione, il suo riconoscimento non significava niente in quel momento. Mi sembrava quello che volevo ottenere da quella serata, il rispetto di persone che non mi avevano mai rispettato, ma non riuscivo a esserne felice. Neanche rincuorato, nemmeno un po’.

«Grazie» feci con un filo di voce.

«Manning, ascolta.»

Mi sfiorò la spalla indicandomi il passe, invitandomi ad allontanarci dalla cucina. Stanco e indifferente mi mossi insieme a lui.

«Non saresti l’unico chef con dei precedenti penali che conosco… qualcuno è arrivato persino a dei riconoscimenti ufficiali importanti. Se la cucina ti interessa non lasciarti condizionare dal tuo passato.»

La paternale di Durand era la cosa meno confortante che avessi mai dovuto ascoltare. Con un modo di fare piuttosto rude schioccai le labbra e presi un passo di distanza da lui.

«Proprio voi, con quello che avete combinato al padre di Sahan, parlate a me come se ve ne importasse qualcosa?»

«Quello che è successo tra me e Arnaud è acqua passata da molti anni… e anche se non ci parliamo più, ci rispettiamo ancora come professionisti. Questo significa non farsi condizionare.»

«Ma se avete cercato di sbattere fuori Sahan da quando si è presentato alla porta!»

«Sì, ma solo perché era ovvio dal suo tono che non sapeva come le cose fossero finite tra me e il padre. Non volevo qualcuno con smania di rivalsa nei miei confronti nel mio ristorante» puntualizzò con la massima calma. «Il giovane Micheaux assomiglia a suo padre alla sua stessa età… impulsivo, e precipitoso. Anche Arnaud travisò quello che successe a Vienna… un goccio di vino, Manning?»

Camminando eravamo arrivati al sontuoso american bar dall’altro lato della sala e il barman stava già versando un bicchiere a Durand, come quella fosse un’abitudine. Forse non era una buona idea, ma annuii e venni servito immediatamente di mezzo calice di vino rosso corposo.

«Quello che cercai di fare era aiutarlo… ma naturalmente, non avrei dovuto impicciarmi. Era il mio migliore amico, lo tenevo d’occhio durante la preparazione… fu un lunghissimo esame, dodici ore di preparazioni fatte da soli… ero annebbiato, ma non me ne resi conto» mi raccontò, assorto nel roteare del vino. «Credevo avesse dimenticato ingredienti o fasi fondamentali, così ritoccai le sue preparazioni. Gliele rovinai, ma lo feci davvero con l’intenzione di aiutarlo. Volevo che facessimo quello stage insieme.»

La campana di Durand suonava una musica diversa da quella di Sahan, ma che ragione aveva di giustificarsi con me? Non mi doveva nulla, non ne ricavava nulla: non ero arrabbiato con lui per una vecchia storia che non mi sfiorava, non avrebbe cambiato la mia opinione, non avrebbe influito in nessun modo sulla scelta di andarmene o restare.

Presi un sorso di vino. Era ottimo.

«Lui la prese male. Era come suo figlio, corse a conclusioni e mi affrontò a brutto muso… non capì le mie ragioni, io non fui paziente, e finimmo a litigare. Ci dicemmo cose che non pensavamo… e mi è successo anche con il giovane Micheaux. È così simile a suo padre che istintivamente gli ho risposto allo stesso modo… in questo caso è vero, non mi sono distaccato dal passato, ma non è stato voluto.»

Restai in silenzio, bevvi altro vino. Durand si fece servire ancora, ma io no.

«Avete intenzione di dirlo a Sahan?»

«Non mi crederebbe anche se lo facessi, e mi sta bene che vada così… in ogni caso il ragazzo non resterà a lungo. So qual è il suo curriculum, so che non resta a lungo nello stesso posto… è un nomade, un esploratore. Visto che ti ha insegnato così tanto in poco tempo, Manning, ti consiglio di seguirlo quando se ne andrà.»

Mi sorpresi di quel consiglio e non trovai da replicare.

«Sempre ammesso che abbia anche tu voglia di scoprire mondi nuovi.»

Durand mi osservò con una certa insistenza, poi riconsegnò il calice vuoto al barista.

«Beh, riflettici su. Dopo questa cena pioveranno inviti per Micheaux da ogni angolo del paese… e potrebbe ripartire presto.»

Sentii come un peso scendermi dentro la gola fino allo stomaco e mi portai la mano all’addome. Avevo dato il mio meglio perché non scappasse, ma forse gli avevo solo accorciato il soggiorno.

«Ma questa sera siete stati bravi. Affrontare questa cena soltanto in due è stato coraggioso… quasi da pazzi, ma avete vinto. Dovete premiarvi e rilassarvi per questa notte, tutte le riflessioni importanti puoi rimandarle a quando sarai riposato.»

«Il cervello non ragiona bene quando è stanco, no, Dioraine?» aggiunse il barista, con un sorriso divertito.

«Cerveau reposé, estomac bourré avant de décider!»

«C’est vrai, c’est vrai!»

Non avevo davvero idea che Durand sapesse essere così amichevole, né che sapesse ridere, o che avesse voglia o capacità di dare consigli al prossimo. Vedere quel lato dello chef duro e gelido che credevo di conoscere mi insegnò a prendere la maschera dei professionisti della cucina separatamente dalla persona che erano fuori dal lavoro, ed è una delle lezioni più preziose che abbia mai imparato.

«Vi ringrazio, chef Durand» gli dissi, non appena le risate si acquietarono abbastanza. «Per i consigli e per il vino. Buonanotte.»

«Buonanotte, chef Manning.»

Quando mi voltai, davvero stupito di quanto non sembrasse un tono sarcastico, lui non mi guardava: si era messo a parlare in fitto francese con il barista. Ancora confuso dalla rapida successione di eventi tornai in cucina, dove trovai Isabel e Baader intenti ad asciugare le ultime stoviglie e Sahan, già cambiato d’abito, con un’aria stanca e tesa.

«Stai bene, Raim?»

«Sì» gli risposi, cercando di sorridergli. «Scusami se ti ho fatto stare in pensiero… ero un po’… nervoso, e stanco. Ora è passato.»

«Che ti ha detto Durand…?»

«Durand? Nulla di che… mi faceva i complimenti per il servizio e mi ha dato un paio di consigli… sai come sono i vecchi.»

Guardai su e giù per la cucina, ma la trovai già ben pulita.

«Avete già fatto tutto? E io che credevo di esservi indispensabile!»

Isabel ridacchiò mentre appendeva delle padelle di rame.

«Mio nonno dice che tutti sono utili e nessuno è indispensabile!»

«Suona spietato, detto da un nonno.»

«Mio nonno lo è!»

«Serve qualcosa? Avete davvero finito?» insistetti.

«Abbiamo finito… mi sono offerto volontario per il pavimento, quindi toglietevi tutti dai piedi in fretta» fece Baader in un finto tono burbero. «Ci si vede domani. Riposatevi!»

Se non bravura e talento di sicuro l’intera brigata ci aveva riconosciuto quanto intensamente ci eravamo impegnati per gestire un servizio in due. Ricordandomi della raccomandazione di Durand di “premiarci” per lo sforzo, passai il braccio sulle spalle di Sahan e lo condussi alla porta.

«Allora noi andiamo, ci aspettano per cenare… buonanotte!»

«R-Raim…»

«Saluta, Sahan.»

«Ah… c-ciao!»

Uscimmo con il saluto dei due colleghi in coro, con Sahan che continuava a guardarmi come se si aspettasse che scoppiassi a piangere in una manciata di secondi. In realtà parlare con Durand aveva stabilizzato il mio umore e avevo ritrovato il mio centro, o almeno abbastanza serenità per non incaponirmi ancora di più per l’infelice uscita di Malone. Buon per lui, comunque, che fosse già sparito dalla mia vista.

«Hai preso tu la mia giacca, Sahan?»

«Io… sì» mi rispose titubante. «L’avevi lasciata lì… ma è tua. Dovresti conservarla, qualsiasi decisione prenderai…»

«Continui a ripeterlo come se dessi per scontato che io possa scegliere di fare il tuo lavoro.»

«Ma certo che puoi… il punto è se vuoi. Che sia un lavoro duro e una scuola perenne non si discute, quindi… beh, bisogna scegliere. Forse se quello che intimamente desideri è la serenità, trovare un posto e una vita tranquilla, questo lavoro non è quello che cerchi.»

Aveva ragione, naturalmente. Il lavoro di un cuoco, anche di uno di un piccolo ristorante, è duro. Ci si alza presto, si arriva in anticipo per le preparazioni, si serve e si resta a pulire; se si è proprietari si fanno i conti per le materie prime, le spese, gli incassi. C’è molto lavoro da fare, per non parlare delle cose da imparare e da migliorare. Se si fa questo lavoro si sceglie un amante esigente, come lo spiegò Sahan una volta.

«Non preoccuparti per me… pensa a te stesso, adesso» replicai, strizzandogli leggermente la spalla. «Hai avuto successo… potresti ricevere qualche offerta allettante. Se succede, non esitare ad andare, okay?»

Tolsi il braccio e aprii l’auto con il telecomando, ma Sahan rimase impalato lì dove l’avevo lasciato.

«Sali, dai. Andiamo con la mia macchina.»

«Raim… tu… vuoi restare qui?»

Restai fermo con lo sportello mezzo aperto. Non capivo perché la mia scelta dovesse influenzarlo e l’idea che fosse più di un’ipotesi vaga mi diede fastidio. Non volevo essere un peso di qualsiasi tipo per lui.

«Che importa? Non ha niente a che vedere con te» gli risposi allora, con un tono parecchio brusco. «Tu devi fare le tue scelte, secondo quello che più vuoi… e quello che è meglio per te. Cosa io faccia della mia vita o della mia carriera non deve avere nessun peso nelle tue decisioni.»

«Ma noi siamo amici… e lavoriamo bene insieme» fece lui a voce bassa.

«Sì, ma l’essere distanti non ci impedirà di restare amici… e fidati di uno che di scelte idiote ne ha fatte parecchie: decidere della tua vita sulla base dell’attaccamento alla famiglia, agli amici o ai luoghi finirà per darti dei rimpianti. Guarda che diavolo ho combinato io, a scegliere di aggrapparmi a chi pensavo fosse mio amico.»

Era un modo rigido di vedere la vita, ma dopo essere finito in carcere per proteggere amici che non avevo mai più rivisto né sentito non mi ero mai del tutto ripreso. Avevo passato un lungo periodo senza rapporti sociali degni di nota, senza cercare compagnia, divertimento, sesso, amore, né tantomeno amicizia. Avevo il cuore indurito come un muscolo freddo e la mia tanto decantata serenità assomigliava più a un volontario isolamento, a ripensarci adesso… ma allora ero convinto di quello che dicevo a Sahan e credevo di fare la cosa giusta a dirgli di essere egoista.

Anche se io stesso soffrivo all’idea di separarmi dalla prima persona che era riuscita a conquistarsi il mio affetto dopo tanti anni.

 

*

 

Tanto parlare fu piuttosto inutile, perché dopo l’uscita di alcune ottime recensioni per i due menu del Liaison Durand comunicò a Sahan che diversi chef famosi e ristoranti rinomati avevano mandato inviti per stage e impieghi fissi presso di loro, da San Francisco a New York, persino fino al Canada dove il nostro ospite con i baffi appuntiti stava aprendo un altro locale della sua catena. Davanti a tanta abbondanza di interessanti occasioni l’esploratore dentro di lui non poté resistere a lungo e dopo undici giorni dal suo fenomenale servizio Sahan aveva dato il preavviso allo chef per il suo licenziamento. Non mi aveva avvertito e non mi disse dove sarebbe andato: con una certa aria solenne da addio mi diede la sua email e due suoi numeri di cellulare per assicurarsi che sapessi sempre come cercarlo.

«Chiamami se hai bisogno di qualcosa, d’accordo?»

«Potrei chiamarti anche solo per chiederti come ti trovi nel nuovo posto» gli feci notare mentre appendevo i pentolini di rame.

«Chiamami per qualsiasi cosa, allora.»

Lo guardai cercando tracce di tristezza nella sua espressione, ma in realtà non ne trovai.

«Non vuoi ancora dirmi dove andrai?»

«No, ti manderò un selfie quando uscirò dall’aeroporto, così ti farò una sorpresa~»

«Allora dev’essere un bel posto… a est o a ovest?»

«Niente indizi, Raim, sarà una sor~pre~sa~»

«Okay, okay» feci, mio malgrado divertito. «Va bene, aspetto quella foto.»

Sahan si limitò a sorridere e mi guardò in silenzio appendere in ordine gli stampi di pasticceria di Baader.

«Tu quando hai detto che parti?»

«Oggi pomeriggio… la nonna mi ha detto di andarmene prima che lei torni. Mi sa che non vuole che la veda piangere.»

Nonna Ethel era un tipo non facile alla tenerezza e all’ipotesi che io potessi partire mi aveva riso in faccia, letteralmente. Una volta capito che non stavo scherzando e che avevo davvero ricevuto una proposta di lavoro in California mi aveva quasi calciato fuori di casa dicendomi di fare i bagagli, minacciandomi di diseredarmi se mi fossi azzardato a pensare di restare pensando a lei o alle sue condizioni di salute.

«Ethel è una brava persona… sa che è una grande occasione per te, e non vuole esserti di ostacolo. Mi ricorda un mio amico» aggiunse Sahan, con finta aria pensierosa.

«L’ho salutata stamattina… appena finito qui vado a casa, pranzo da Marco per salutarli e vado in aeroporto. Ho il volo per San Francisco alle 15» gli illustrai brevemente. «Non devi partire oggi anche tu?»

«Sì… ho un volo poco dopo mezzogiorno.»

«Allora dovresti sbrigarti, Sahan…»

«Beh… non c’è così tanta fretta… insomma, voglio salutarti come si deve.»

«Vale a dire?» gli chiesi, impilando gli strofinacci ripiegati alla bell’e meglio. «Baci e abbracci, o stretta di mano e auguri di gloria e restare vivi, un po’ da…?»

Non finii neanche la frase che me lo ritrovai appeso al collo. Non che mi sorprendesse, lo sapevo che Sahan era una persona affettuosa, ma mi aspettavo fosse un po’ più timido nel dimostrarlo in quel momento. Non mi dispiaceva, però, che fosse più sciolto di me al momento dei saluti; lo strinsi e inspirai a fondo con l’intenzione di imprimermi l’odore dei suoi capelli nella memoria il più a lungo possibile.

«Abbi cura di te, Sahan.»

«Tu non fare l’eremita a San Francisco» ribatté con il tono da maestrino. «Esci tutte le settimane… vedi gente, fai sport e divertiti. Fatti degli amici al lavoro e anche fuori.»

«Prometto di fare del mio meglio.»

«Bravo!»

Il suo sorriso era luminoso, non vedevo nessuna traccia di tristezza. Per qualche ragione mi sembrava strano, mi ero immaginato che sarebbe stato triste nel momento di salutarci. In quel momento però ero senza dubbio io quello che stava soffrendo, anche se non eccessivamente.

Qualche altro augurio e qualche raccomandazione e ci salutammo per davvero. Sahan salutò il resto della brigata presente, ringraziò e strinse la mano a Durand prima di andarsene. Il silenzio che si lasciò dietro mi pesava addosso e mi rese particolarmente distratto nell’ultima mezz’ora di lavoro, e finalmente dopo aver anch’io salutato tutti abbandonai la cucina del Liaison, convinto che non sarei mai più ritornato lì. Non avevo una ragione di tornare, e continuai a ripetermelo finché non fui sull’aereo: partivo per una nuova vita, in una nuova casa, in una città dove non ero mai stato, in un ristorante di prim’ordine dove mi era stato offerto un periodo di stage – l’executive chef del Parlour era stata una delle nostre ospiti alla cena – e con una lettera di referenze di Dioraine Durand anche io avevo tante porte a cui bussare. Tornare a Las Vegas poteva succedere per una visita a Ethel e ai miei amici al Posticino, ma di certo non per riprendermi un posto di lavoro che avevo detestato.

Il volo fu breve, appena il tempo di un film, e fu una fortuna dato che scoprii di non essere a mio agio con le altezze. Scesi dall’aereo all’Internazionale di San Francisco e mentre attendevo di trovare la mia valigia tra le molte che scorrevano sul nastro ricevetti un messaggio con uno scampanellio particolare: il tono che avevo impostato per il numero di Sahan. Dato che continuavo a chiedermi dove fosse andato a finire aspettavo con ansia la foto rivelatrice e tirai fuori il telefono così in fretta che quasi mi scivolò dalle dita come una saponetta.

«Ouff» feci quando lo riacchiappai senza danni. «Ci manca rompere il telefono adesso…»

Aprii il messaggio che avevo ricevuto, che era il suo tanto atteso selfie. Nella foto era in piedi davanti a una vetrata con una scritta, e alle sue spalle si vedeva la coda di un aereo con un logo blu come quello che avevo preso io. Mi accigliai, perché anche la vetrata era vagamente familiare, poi sospirai battendomi la mano sulla fronte.

«Quanto sono stupido» commentai ad alta voce. «Ecco perché non eri per niente triste.»

Sahan ridacchiò e mi tirò qualche pacca sulla schiena.

«Ciao, Raim! Ti sono mancato?»

«Ti ho visto quattro ore fa.»

«Oh, che è questo tono?»

«Che cosa fai qui, Sahan? Hai trovato anche tu un lavoro a San Francisco?»

«Oh, sì, mi hanno assunto come assistente al capo-pasticciere al Parlour!»

Lì cominciai ad arrabbiarmi, sono sincero.

«Sahan… sei stato tu? Mi hanno offerto un posto perché hai interceduto per me?»

«Cosa? Ma ti pare che l’avrei fatto senza chiederti se ti stava bene?» replicò lui, piccato. «Affatto, chef Jaeckel ha chiesto a entrambi di lavorare da lei… io ti ho seguito dopo aver saputo che avevi accettato il posto al Parlour.»

Non dubitai di quello che mi disse, ma non mi piacque molto sentirlo.

«Non ti avevo detto che era da stupidi scegliere così?»

«Forse, ma Andrea Jaeckel dispone di un laboratorio di pasticceria all’avanguardia, quindi ero molto interessato alla sua offerta di lavoro… era uno dei tre o quattro posti che mi attiravano di più. Non sapendo scegliere con la massima convinzione una ragione valeva l’altra per arrivare a una conferma, e ho seguito te. Ti dispiace così tanto?»

Naturalmente non mi dispiaceva, ma non ero convinto che mi stesse dicendo la verità, o addirittura che lui stesso fosse consapevole delle sue stesse scelte. In ogni caso gli dissi di no, lui tornò a sorridere e una volta recuperata la mia valigia ci avventurammo insieme verso la città sull’oceano Pacifico.

 

*

 

L’estate di San Francisco non era neanche lontanamente calda come quelle di Las Vegas, e la cosa che mi lasciava più confuso era come potesse essere freddo di mattina e caldo nel pomeriggio, nonché la presenza della nebbia, che per me era una novità assoluta della quale avevo soltanto sentito parlare, riservandole l’interesse di una cosa che non mi avrebbe mai riguardato. Abituarmi al vistoso cambio di clima fu più difficile che adattarsi alla cucina immensa e moderna di chef Jaeckel, impresa relativamente semplice, dato che lei non era affatto superba e rigida come Durand.

«Raim!»

Quel pomeriggio d’estate ero seduto al tavolo della sala da pranzo, molto preso a studiare un manuale di cucina pubblicato da Andrea Jaeckel, quindi quando alzai gli occhi e vidi che Sahan tendeva le mani verso di me non afferrai che cosa volesse.

«Che c’è?»

«Balliamo?»

Tornai un po’ più presente all’appartamento che condividevamo, ai fumi che salivano dalla cucina in cui lui stava preparando qualcosa, la brezza dell’oceano che muoveva la tenda oscurante alla finestra aperta e alla musica che veniva dallo stereo del fratello di Sahan. Era la sua canzone preferita, o almeno, la preferita di quel periodo: non riusciva a non ballarla, che fosse da solo o ci fossi io.

«Sto studiando…»

«Oh, ti prego, solo questa!»

Il suo modo di chiedere era così intriso della sua anima infantile che non potevo mai rifiutarmi, quindi mi alzai abbandonando il libro e gli presi le mani. In fondo una manciata di minuti passati a ballare non mi avrebbero reso un cuoco peggiore, ma di certo mi avrebbero reso un uomo più felice. Ballare continuava a piacermi ed era diventato un hobby comune, tanto che Sahan era diventato davvero bravo in quei pochi mesi.

Gli presi la mano e passai l’altra dietro la sua schiena. Senza altri indugi iniziammo a muoverci, ormai eravamo abituati, non ci imbarazzava più quella vicinanza intima e neanche i testi delle canzoni che ci capitava di ballare ci influenzavano.

«Non ti stanchi mai di ballare la stessa canzone?»

«Mi piace ancora» rispose lui, mentre faceva una perfetta piroetta. «Certe cose non mi stancano così in fretta.»

«Buono a sapersi.»

Non dicemmo altro per la durata della canzone, ma quando ne cominciò un’altra non tornammo ai nostri fornelli e libri. Neanche questo era particolarmente strano. La cosa che trovavo davvero strana è che vivevamo insieme da mesi, lavoravamo insieme, uscivamo insieme, ballavamo insieme ma non c’era stato mai neanche un bacio. Neanche un tentativo di bacio, in effetti. Non riuscivo a capire come mai, perché io ormai mi ero reso conto che lui mi piaceva, e che mi piaceva in quel senso… e per quanto mi sembrasse di essere ricambiato lui non si decideva mai a fare un passo in quella direzione né mi incoraggiava a farne uno io. Anche alla fine di quel ballo ci trovammo spaventosamente vicini, ma nessuno dei due osò accorciare quel poco spazio tra le nostre labbra. Non lo trovavo frustrante, soltanto inspiegabile, come un rebus che non riuscivo a decifrare.

Mi chinai avvicinandomi al suo orecchio per sussurrargli:

«Hai bruciato il crumble.»

Emise una specie di squittio – lo faceva sempre quando si dimenticava qualcosa sul fuoco o nel forno – ma passandogli il braccio intorno alla vita lo trattenni dov’era. Iniziò a dimenarsi come un pesce tirato in barca lanciandomi nomacci in inglese e francese mescolati e alla fine si liberò assestandomi un ceffone che fece molto più rumore che male; ridevo troppo per riuscire a tenerlo ancora.

«Qu'est-ce qu’a en la tête, cet idiot» borbottò mentre tirava fuori dal forno un crumble mezzo annerito. «Ah, merde!»

Sbatté il suo povero crumble defunto nel bidone e si voltò verso di me rivolgendomi qualche altra frase in francese che capii a malapena, ma continuavo a ridere e lui si irritava sempre di più, reagendo con un francese ancora più inferocito e meno comprensibile. Appena ripresi un po’ di fiato mi decisi a fermarlo; gli addominali mi facevano male.

«Sahan… Sahan, frena, frena. Tanto lo sai che non capisco un accidenti di quello che dici in francese!»

«C’est Monsieur Micheaux pour toi, idiot!»

«Quante storie per un crumble… e poi, l’avevi già bruciato quando ti ho trattenuto!»

Borbottò ancora qualcosa, probabilmente in francese, ma parlava troppo piano per capirlo. Non so esattamente perché decisi di muovermi quel giorno, in quel momento anziché un altro… forse fu perché avevamo appena ballato, ma non so perché quella volta fosse stato diverso dalle altre molte volte in cui era successo. Sapevo solo che volevo fargli capire che mi stava bene fare un altro passo, che se lui era pronto ero pronto anch’io… ma per quanto fossimo diretti e sinceri come amici non ero sicuro di riuscire a dirglielo a parole.

A quanto pareva la lunga pausa di ballo aveva fatto male anche alla crema liquida che aveva nella pentola, perché si mise a travasarla in un altro pentolino mettendoci sopra un colino. Io girai intorno all’isola della cucina e notai che il fiocco con cui aveva legato il grembiule si era allentato, di certo per quella nostra zuffa di prima. Bastò tirare appena perché si sciogliesse e siccome Sahan aveva le mani occupate con qualcosa che scottava riuscì a non farlo cadere solo sollevando un ginocchio. Senza parole mi offrii di riparare il danno che avevo causato io; allungai le mani ai lati della sua schiena per prendere il grembiule e lo sistemai con tutta calma.

«Grazie» mi disse lui, già dimentico di essere “arrabbiato” con me.

Incrociai i lacci dietro la sua schiena e li passai davanti per annodarli all’altezza dell’ombelico, come facevamo di solito al lavoro. Nel farlo mi avvicinai più del necessario, tanto che mi appoggiai contro la sua schiena e il suo bacino.

«Posso darti una mano?» gli chiesi piano, con una mano appoggiata sul grembiule a cercare un contatto non proprio naturale. «A fare qualsiasi cosa?»

Il modo in cui aveva raddrizzato le spalle e aveva smesso di mescolare mi confermò che si era accorto che quei gesti non erano stati involontari né casuali. Non mi spostai, feci solo scorrere la mano sul grembiule fino al suo fianco destro e aspettai la sua reazione. Dato che allora non ero neanche davvero sicuro che a Sahan piacessero gli uomini non escludevo la possibilità che colpisse con il mestolo.

«Tu… credevo stessi studiando» rispose alla fine di una lunga riflessione.

«Ci sono cose che non si imparano da un libro.»

Mi sentii incoraggiato dalla reazione cauta – e nervosa – di Sahan. Sporsi il mento sulla sua spalla ostentando un interesse che proprio non avevo per la crema che chiedeva di essere mescolata nel pentolino e nel frattempo feci strisciare lentamente due dita sotto l’orlo della maglietta di Sahan, alla ricerca di un lembo di pelle da sfiorare.

Dal canto suo, non si mosse né fece neanche una finta per spostarmi la mano.

«Raim…»

«Sì… Sahan?»

Più passava il tempo senza sue reazioni brusche più mi sentivo fiducioso nell’esito, tanto che osai fino a posare le labbra sul suo collo, poco sotto l’orecchio sinistro. A quel punto però Sahan reagì, voltandosi verso di me di scatto e mi diede una spinta sufficiente a farmi indietreggiare di un passo. Alzai le mani come se mi avesse puntato un’arma contro e in quei secondi credetti di aver fatto un disastro.

«Raim, non sono una persona gelosa, né qualcuno che si lega al dito le sciocchezze» esordì, lasciandomi perplesso. «Non mi infastidisce se ti trovi qualcuno, o se lo porti qui a casa.»

Ricordo di aver guardato a destra e a sinistra, confuso, chiedendomi di che cavolo stesse parlando. Lui sospirò, con un’espressione finto-determinata – sì, aveva questa espressione nel ventaglio delle sue possibilità facciali – mentre incrociava le braccia.

«Quindi se ti va di divertirti porta pure chi vuoi, basta che non spacci droga in casa.»

«Non credo di capirti, Sahan» replicai, del tutto sincero.

«Non… non sono il tipo che fa queste cose se non ho… dei… uhm…»

«Sentimenti?»

Sahan era in palese imbarazzo – infatti non mi guardava negli occhi, credo fissasse la mia fronte – e annuì. Visto che mi era più chiaro il suo problema sorrisi e allungai le mani verso di lui. Dopo un momento di esitazione si fece avanti e io intrecciai le mani dietro la sua schiena.

«Sono stato un po’ troppo spinto? Ti ho messo paura?»

«Oh, suvvia, Raim… paura… non ho mica tredici anni» protestò lui, non proprio convincente.

«No, ma ho idea che tu non abbia in questo campo un gran curriculum… almeno ne hai uno?»

Non so perché glielo chiesi. Per come ero cresciuto, per gli ambienti che avevo visto e la gente che avevo incontrato mi sembrava impossibile che un ragazzo sano e bello come era Sahan potesse raggiungere i ventotto anni senza neanche una ragazza – o un ragazzo – che lo portasse fino a quel punto. Per questa ragione il suo ostinato silenzio mi lasciò sempre più basito di secondo in secondo.

«Sahan?»

«Solo una parola, Raim, dì solo una parola su questo e ti sbatto quella padella sul naso.»

Altro che parola: il mio cervello si spense completamente, non avrei potuto dirla neanche se avessi voluto. Non replicai neanche quando Sahan tentò di incalzarmi a seguito del mio sguardo inebetito, ero troppo preso da un contorto ragionamento.

Da ragazzo non mi era mai importato se uscivo con una ragazza vergine o no, e anzi, preferivo che non lo fossero per non assumermi scomode responsabilità o incappare in una troppo emotiva che avrebbe trovato in questo una ragione per appiccicarsi a me. No, non ero mai stato un ragazzo romantico, ero un piccolo bastardo come molti altri ma mi vantavo, almeno, di non aver parlato d’amore a vanvera per incantare qualcuna.

Però – e qui il mio cervello si contorceva in modo incomprensibile – pensare che Sahan non fosse stato mai di nessuno e di nessuna era qualcosa di emozionante. Mi piaceva pensare che non ci fosse nessun altro in tutto il mondo che lo conosceva così intimamente, che lo avesse toccato, che lo avesse visto esposto come accadeva in quei frangenti. Mi piaceva l’idea che io potessi essere l’unico a vedere – ad avere – quella meraviglia che era Sahan Micheaux.

«Insomma, di' qualcosa» sbottò Sahan, indispettito. «Mi stai mettendo in imbarazzo!»

«Ah… no, solo… com’è successo? Hai steso tutti con un taser?»

«Io… di che stai parlando? Tutti chi? Io ho lavorato, non avevo tempo per… sciocchezze!»

«Una relazione sentimentale per te è una sciocchezza?»

«Non voglio parlare di questo» sentenziò, incrociando di nuovo le braccia.

Avevo intuito le sue ragioni e le sue paure, e anche se mi incuriosivano e stupivano in egual misura ci sarebbero stati altri momenti in cui le condizioni sarebbero state migliori per parlarne. Avevo ancora le mani intrecciate dietro la schiena di Sahan e lo avvicinai un po’ a me, sorridendogli.

«Allora non serve che parli» gli dissi, mettendoci più dolcezza che potevo. «Vuoi che parli io di quello che provo per te?»

Così a bruciapelo reagì con finta indifferenza, distogliendo lo sguardo e scrollando le spalle, ma non fece neanche mezzo passo per allontanarsi da me o per sfuggire al mio abbraccio, quindi stava bene dov’era.

Mi appoggiai al bordo del ripiano dietro di me e iniziai a parlargli del primo giorno al Liaison, di quello che avevo pensato di lui nei primi momenti della nostra conoscenza. Bastarono un paio di frasi perché tornasse a puntare i suoi occhi castano-verdi nei miei, ma continuai a raccontare di tutto quello che avevo pensato di lui in tanti momenti passati insieme da allora in avanti.

Quel giorno non ci baciammo, e dovetti aspettare una settimana prima che succedesse. Dopo quello passò un altro mese, ma alla fine diventammo una coppia a tutti gli effetti e iniziammo a dormire insieme nella mia camera da letto.

   
 
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