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Autore: Imperfectworld01    31/05/2021    1 recensioni
Corre l'anno 1983 quando la quindicenne Nina Colombo ritorna nella sua città natale, Milano, dopo aver vissuto per otto anni a Torino.
Sebbene non abbia avuto una infanzia che tutti considererebbero felice, ciò non le ha impedito di essere una ragazza solare, ricca di passioni, sogni e aspettative.
Nonostante la giovane età, sembra sapere molte cose ed essere un passo avanti alle sue coetanee, ma c'è qualcosa che non ha ancora avuto modo di conoscere: l'amore.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Scolastico, Storico
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Undici.

Primo giorno di scuola nella nuova scuola.

Dire che ero nervosa era quasi un eufemismo, diciamo che ero proprio nevrotica.

Soprattutto perché quella mattina mi ero svegliata alle cinque per via di quei terribili crampi al basso ventre che non mi davano pietà ormai da giorni.

Per darmi la carica e riuscire a superare quella giornata, bevvi ben tre tazze di caffè, una dopo l'altra.

«Non è possibile! Non è davvero possibile!» esclamai, cercando di tenere la pancia in dentro il più possibile.

«Nina, vuoi calmarti?» fece Benedetta, passandosi le mani fra i capelli dalla disperazione.

«No che non mi calmo!»

«Smettila, mettine un altro paio e basta.»

A quelle parole mi infiammai. «Un altro paio? Un altro paio! Sono i miei jeans preferiti, li ho comprati nemmeno tre mesi fa e volevo metterli oggi per il mio primo giorno di scuola. Non mi entrano! Come diavolo è possibile?»

«Stai ferma e fai provare me» disse. Prese i due lembi dei miei jeans e li avvicinò fra di loro per abbottonarli, prima di provare a tirare su la zip. «Ecco fatto, vedi? Con un po' di tranquillità si riesce a fare tutto.»

«Ah, parli proprio tu di calma e tranquillità? Saremo sorelle per un motivo!» feci con tono tagliente, prima di sospirare di sollievo per essere finalmente riuscita a chiudere quei jeans.

Nel farlo, la zip si abbassò di nuovo e vidi il bottone saltare in aria alla velocità della luce e andare a colpire il muro, prima di depositarsi a terra.

Rimasi in silenzio per un paio di secondi con il tic nervoso all'occhio che avevo da tutta la mattina, prima di prendere di nuovo a urlare. «Ecco, si sono anche rotti adesso! Ho una vita di merda, vedi? Fa tutto schifo!» continuai a lamentarmi, nel mentre che mi toglievo i jeans, incontrando un po' di difficoltà nel farli passare sotto il sedere.

A quel punto la porta si aprì e apparve Vittorio, già pronto, vestito e con lo zaino in spalla. «Allora, Nina, ci sei?» chiese con un sorriso.

Gli lanciai i miei jeans contro, beccandolo dritto in faccia. «No, levati dalle palle! Ma ti puoi fare i cazzi tuoi per una volta?» gridai, e lui, terrorizzato, non se lo fece ripetere due volte e richiuse la porta. «Non ci vado a scuola, non ci vado. Non mi interessa niente. Mi rifiuto» sbottai, lasciandomi sprofondare sul letto.

«Nina, smettila, hai quindici anni e ti comporti proprio come una bambina. Ora ti alzi, ti prepari e porti il tuo stupido culo dritto a scuola, altrimenti...»

«Altrimenti cosa?» la interruppi, con tono beffardo. Solo perché per una volta aveva deciso di comportarsi da persona matura, non stava a significare che poteva darmi ordini.

«Altrimenti ti picchio, come facevo quando eravamo bambine» rispose, portandosi le mani sui fianchi.

«Ho imparato a difendermi adesso, ti farei più male» ribattei.

«Sì, ma comunque sei ancora uno scricciolo.»

A quelle parole, il labbro inferiore cominciò a tremarmi incessantemente. «I miei jeans preferiti si sono rotti perché ho il culo troppo grosso e ho troppa pancia!» esclamai, prima che migliaia di lacrime iniziassero a sgorgare dai miei occhi.

Benedetta si portò una mano sulla fronte e scosse la testa. «Non ce la faccio più, Nina, e che diamine! Datti una svegliata e smettila di frignare. Ringrazia che mamma sia già uscita e non ti senta fare queste scenate inutili.» Dopo quelle parole, prese il suo zaino di scuola e uscì dalla stanza, lasciandomi sola.

«Ma certo... tanto a te che importa? Non puoi capire, nessuno riesce a farlo... a nessuno frega mai niente di me e dei miei problemi!»

Tirai su col naso e poi chiusi gli occhi, dando modo alle ultime lacrime di scendere dai miei occhi e depositarsi sulle mie guance. Poi pensai che doveva essersi già fatta una certa ora e che rischiavo davvero di perdermi il primo giorno.

Allora feci un respiro profondo, riaprii gli occhi e mi alzai dal letto. Aprii un cassetto e tirai fuori dei pantaloni neri. Me li misi e poi infilai la polo bianca che indossavo al loro interno, prima di tirare su la zip e allacciare il bottone. Poi infilai le calze a fantasmino e un paio di ballerine nere.

Presi il mio zaino e successivamente uscii dalla mia stanza.

Benedetta se n'era già andata, mentre Vittorio era rimasto ad aspettarmi seduto sul divano. Non appena mi vide, si alzò in piedi e mi raggiunse. «Allora, possiamo andare?» domandò quasi spazientito, ed ero seriamente tentata di mandarlo a quel paese: mica l'avevo obbligato io ad aspettarmi, potevo andarci benissimo da sola a scuola. Anzi, me la cavavo meglio da sola.

Comunque poi pensai che per quella mattina avevo dato fin troppo spettacolo, perciò rimasi semplicemente zitta e mi avviai verso la porta di casa.

Vittorio mi seguì e insieme prendemmo l'ascensore, continuando a rimanere in silenzio. Io me ne stavo a braccia conserte, tenendo lo sguardo basso e tentando di trattenere altre lacrime.

Ma che mi succedeva quella mattina? Ero cento volte peggio del solito, tanto che, anche se non mi andava di ammetterlo, me ne rendevo conto da sola di essere insopportabile.

«Ma hai pianto?» chiese a un certo punto Vittorio, scrutandomi meglio in viso.

Sollevai di scatto la testa e lo fulminai con lo sguardo. «Già! E allora? Il fatto che pianga ti crea problemi? Be', risolviteli, nel caso» sputai con veemenza.

Vittorio sgranò gli occhi e rimase a bocca aperta per la mia aggressività. Pensavo che quella sarebbe stata la volta buona in cui mi avrebbe risposto per le rime, come avrebbe fatto chiunque altro e come avrebbe dovuto fare anche lui, invece nemmeno quello fu il caso. «Quanti caffè hai bevuto stamattina?» chiese, mantenendo quel tono pacato che mi dava sui nervi.

«Tre» risposi, riabbassando lo sguardo e iniziando a torturami le mani dall'agitazione.

«Ah ecco, adesso si spiega perché sei sul piede di guerra, e anche perché hai i denti marroni.»

Mi portai una mano sulla bocca. «I denti... cosa?»

Poi ripensai ai vari passaggi seguiti quella mattina da quando mi ero svegliata fino a quando ero uscita di casa, e arrivai a realizzare una cosa gravissima, oltre che imbarazzante: mi ero dimenticata di lavare i denti.

Ma ormai era troppo tardi per risalire.
Istintivamente iniziai quindi a passarmi l'indice sui denti e a strofinare, nell'illusione che servisse a qualcosa. «Hai una mentina?» chiesi a Vittorio, nel mentre che l'ascensore giungeva al piano terra.

«No, ma ho delle gomme da masticare» rispose.

«È uguale! Dammene una, ti scongiuro. E veloce!» esclamai e lui roteò gli occhi.

«Prima esci dall'ascensore almeno, che ne dici?» disse. Dopo che ebbi fatto come mi aveva detto, si infilò una mano in tasca e tirò fuori un pacchetto di gomme da masticare, prima di passarmene una.

«Va meglio adesso?» domandai, mostrandogli i denti e pregando mi dicesse di sì.

«Sì, all'incirca. Meglio di prima sicuro.»

Sbuffai. Che giornata disastrosa.

*

Una volta arrivata nella mia nuova classe, 2A, andai in cerca di un posto libero. Dopo averlo trovato, nella seconda fila centrale, mi sedetti. E fu in quel momento che avvertii qualcosa di strano.

Era qualcosa di... liquido, forse? Non era pipì, insomma, avevo imparato a farla senza pannolino ormai da molto tempo. Allora cosa diavolo era? Se non... no, impossibile. No, non proprio impossibile, in realtà. Prima o poi sarebbe dovuto arrivare quel giorno, anzi, io ero anche abbastanza in ritardo rispetto alla media.

Mi era arrivato il ciclo.

Dio, era ora.

E questo effettivamente spiegava molte cose. I crampi degli ultimi giorni, la mia fame da lupi, l'aumento di peso, il mio carattere ancora più intrattabile del consueto.

Cominciai a sorridere quasi senza rendermene conto. Avrei voluto annunciarlo al mondo intero, ma dubitavo che ad altre persone all'infuori di me sarebbe interessata la cosa.

Poi però pensai che essere stata colta alla sprovvista dal menarca aveva anche un importante aspetto negativo: non avevo un assorbente. Non potevo sporcarmi il primo giorno di scuola nella mia nuova scuola.

Così mi alzai dalla sedia, verificando rapidamente di non averla sporcata, e poi mi avvicinai a un gruppo di ragazze riunite a cerchio. «Ehi, ciao ragazze» dissi.
Queste mi squadrarono da capo a piedi, ma sul momento non ci diedi importanza, avevo altre cose a cui dare la precedenza. «Io sono Nina, sono nuova, mi sono trasferita da poco» mi presentai, simulando un sorriso.

«Ciao» risposero in coro. E nient'altro.

Io però non avevo intenzione di spostarmi da lì. Rimasi immobile, continuando a fissarle una a una.

Dopo una manciata di secondi, allora, ecco che parvero sbloccarsi e iniziarono a dire il proprio nome a turno e stringermi la mano.

Angelica, Eva, Irene e Sabrina.

«Da dov'è che ti sei trasferita?» chiese una di loro, Irene forse.

«Torino. Be', in realtà sono nata a Milano, poi mi sono trasferita a Torino, e poi sono ritornata qui. Storia lunga» risposi con un sorriso imbarazzato. «E... ecco, perdonate la schiettezza, ma qualcuna di voi avrebbe un assorbente da prestarmi?» andai subito al sodo.

Subito dopo assunsi un'espressione compiaciuta e sperai che nessuna di loro l'avesse colta. Avevo sempre desiderato dire una frase del genere. Qualcosa di così normale, tipico dei discorsi fra ragazze, ma che per anni non avevo avuto modo di dire. Per di più, era imbarazzante e fuori dal normale, ogni volta che qualcuno chiedeva a me se avessi un assorbente, dover ammettere che non ne avevo perché non ne avevo bisogno.

Ma nessuna di quelle quattro ragazze lo sapeva. Per loro non ero fuori dalla norma. Non avevo nulla che mi rendeva diversa da loro. Se non che il mio aspetto era ancora quello di una dodicenne, sebbene avessi preso qualche chilo. Ma adesso sarebbe cambiato tutto.

«Sì, sì, certo, ce l'ho io, non ti preoccupare» fece Angelica, dirigendosi verso il suo zaino di scuola e tirando fuori dal taschino, attenta a non farsi notare dagli altri presenti in classe, ciò che le avevo chiesto. Poi tornò da me e aprì la mano, mostrandomi una sorta di bastoncino di cotone avvolto in una plastica trasparente.

Corrucciai la fronte. «Che... che cos'è?»

«Un tampone. Sai, da infilare... dentro» replicò, ma ciò non chiarì la mia confusione. Avevo già visto degli assorbenti, e nessuno aveva quell'aspetto. Erano più grandi e più allungati.

«Dentro dove?»

Angelica si scambiò uno sguardo con le altre sue compagne e ridacchiarono tutte insieme. «Non saprei, su per le narici magari! Secondo te?» fece una di loro.

Simulai una risata. «Ma sì, certo, stavo scherzando!» esclamai, prima di dar loro le spalle e avvicinarmi verso il mio zaino. Presi dei fazzoletti e un piccolo specchietto che, per fortuna, mi ero portata dietro. Dopodiché uscii dalla classe e mi misi alla ricerca del bagno delle ragazze.

Mi sentivo così a disagio mentre camminavo, e non solo perché ero nuova lì dentro e non sapevo neanche dove stavo andando. Ogni persona con cui incrociavo lo sguardo sembrava mi stesse prendendo in giro... era quasi come se tutti lo sapessero.

Ogni volta che vedevo un gruppo di ragazzi o ragazze parlare sottovoce e sghignazzare subito dopo, avevo come la sensazione che ridessero di me.

A un certo punto scossi la testa per riprendermi. Smettila, Nina, non sei il centro del mondo e nessuno sta badando a te.

Poi incrociai un bidello e gli chiesi dove fosse il bagno delle ragazze. Mi guardò torvo e se ne andò senza nemmeno rispondere.

«Che gentile...»

Poi sobbalzai nel momento in cui sentii una porta che veniva aperta alle mie spalle. Ne uscì una ragazza che mi guardò male, visto che ero in mezzo ai piedi.

E poi realizzai che la stanza da cui era appena uscita era il bagno delle donne. Allora ecco perché il bidello mi aveva guardato male quando avevo chiesto indicazioni.

Entrai allora in bagno e mi avviai dentro una delle tre porte libere. La chiusi a chiave e iniziai a darmi da fare per capire come muovermi. Misi per il momento i fazzoletti in tasca, poi tolsi la plastica che avvolgeva l'assorbente interno e lo osservai.

Era grande all'incirca quanto il mio mignolo. Come avrebbe fatto un aggeggio del genere a contenere tutto quel... sangue?

Mi tirai giù i pantaloni e le mutandine e piegai leggermente le ginocchia. Poi, con lo specchietto che tenevo nell'altra mano, tentai di capire come diavolo fare.

Più avvicinavo la mano alla mia intimità e più le mani mi tremavano. Dopo poco tempo persi la pazienza. «Io neanche lo vedo il buco!» esclamai, sull'orlo ormai di un'altra crisi di pianto. «Come fa a esserci tutto questo flusso se il buco è minuscolo?»

E poi, sentii un suono che mi fece crollare il mondo una volta addosso per l'ennesima volta quella mattina: la campanella di inizio lezioni.

 

   
 
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