Videogiochi > Genshin Impact
Ricorda la storia  |      
Autore: meilunye    02/06/2021    0 recensioni
[Albedo/Aether ※ Reincarnation AU]
Un errore fatale porta Aether e Albedo a subire una maledizione, costretti a reincarnarsi per sempre ma senza mai incontrarsi nelle loro nuove vite. Finché...
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aether, Albedo
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Link originale: AO3
Fandom: Genshin Impact
Ship: Albether (Albedo/Aether)
Tag: Reincarnation AU
Conteggio parole: circa 7'000

 

Questa fic è una traduzione dalla mia originale in inglese, linkata qui sopra. È stata la più apprezzata tra le diverse fic che ho scritto per questa ship, e ho pensato di portarla anche in italiano. Chiedo scusa in anticipo se qualche frase dovesse suonare forzata o innaturale, non scrivo in italiano da un paio d'anni ormai ;-;

Ovviamente, questa storia contiene riferimenti a sangue, morte e simili (siccome è la base di ogni Reincarnation AU haha), ma non si scende troppo nei dettagli. ♥


 


 


find you

 

Uno spesso rivolo di sangue cadde al suolo, tingendo la neve del suo rosso acceso. Aether si portò una mano al ventre, premendo forte contro la ferita per fermare l’emorragia, tentando disperatamente di guadagnare una manciata di minuti prima di perdere i sensi.

Trascinandosi sulle ginocchia, le gambe troppo deboli per sostenere il suo peso, raggiunse a fatica la colonna spezzata di fronte a sé. Albedo era appoggiato contro la sua base, lo sguardo perso nel vuoto. La sua pelle era mortalmente pallida, terribilmente in contrasto con il colore brillante del sangue sparso sui suoi vestiti. Ma era ancora vivo, per ora.

Aether non avrebbe mai immaginato che potesse essere così doloroso. Addestrato sin da bambino al combattimento, sapeva che incidenti, ferite e persino la morte erano parte del contratto. Dava la sua vita in cambio di adrenalina e della soddisfazione di poter proteggere chi più amava, finché un giorno la fiamma nel suo cuore non si sarebbe spenta e la sua vista si sarebbe offuscata per sempre.

Ma ciò che scuoteva la sua anima non era il dolore. Era paura. Un terrore profondo, radicato nel suo petto, che lo opprimeva come un macigno. Non era la morte, no, quella non lo intimidiva affatto.

Si sedette, la schiena premuta contro il pilastro, a un soffio da Albedo. L’uomo lo mise a fuoco lentamente, aguzzando la vista fra le palpebre gonfie e pesanti. Alcune ciocche di capelli stavano già ghiacciando, e una ragnatela di gelo  ne irrigidiva le punte, e gli incorniciava il viso.

Aether sorrise, le labbra distrutte dal freddo, e si guardò attorno. I resti della creatura che avevano sconfitto giacevano sparsi sulla neve, il nero del suo corpo deforme mischiato alle macchie di sangue.

Era una causa persa. Tutti li avevano avvisati, suggerendo veemente di desistere e lasciare che se ne occupassero gli esperti, ma forse erano stati un po’ troppo superbi. Facendo affidamento sulle proprie abilità e sulla loro infallibile intesa, si erano rifiutati di aspettare l’intervento di ogni Archon, Guardiano o Yaksha, cercando di domare il demone da soli. Pensavano sarebbe andato tutto per il meglio, dato che era solo una creatura inferiore, che non necessitava di un eccessivo potere per essere sconfitto.

E beh, si erano sbagliati.

« Ehi », disse. Il suo cuore mancò un battito nel realizzare quanto fosse difficile parlare, fitte di dolore a ogni respiro, « Almeno c’è un bel panorama a salutarci ». Si sentiva stupido a prendersi gioco della situazione in quel modo, ma non c’era davvero altro che potesse dire.

Tutto ciò che provava era terrore. Presto Albedo non sarebbe più stato al suo fianco; e lui era pronto per tante cose, ma non per perdere la persona che amava di più, dopo esser stato privato della sua sola sorella e di ogni speranza di fare ritorno a casa. Il suo unico sollievo era la consapevolezza che non sarebbe durato a lungo: presto anche lui se ne sarebbe andato, e la solitudine sarebbe stata un male temporaneo.

Albedo tossì, e un rivolo di sangue scorse lungo il suo mento mentre tentava di rispondere.

« Perché? », sussurrò, « Perché sei venuto con me? ».

Aether sorrise debolmente. « Come potevo non farlo? », disse, « Ho giurato di seguirti ovunque ».

Albedo non reagì come previsto. Probabilmente aveva a malapena le forze per tenersi in vita e vigile a sufficienza da parlare. La ferita che gli attraversava lo stomaco era ben più cruenta della sua, dopotutto, ed era un miracolo che non fosse morto sul colpo.

« Se non fossi saltato all’ultimo secondo », disse, « Almeno tu saresti salvo ».

Aether scosse la testa, e vide le stelle. « Va bene così », disse, « Non posso vivere in un mondo senza di te ».

In qualsiasi altro contesto, questa frase sarebbe stata terribilmente romantica. Albedo sarebbe arrossito e avrebbe ridacchiato, per poi baciarlo, forse. Sarebbe stato un momento dolce e confortevole. Era tremendo pensare che il loro tempo fosse scaduto, che non avrebbero più avuto occasione di sfiorarsi reciprocamente i capelli, di sentire il calore di un abbraccio al mattino, di un leggero sfiorarsi di labbra prima di dormire.

Voleva piangere, ma non aveva sufficienti energie rimaste per quel minimo sforzo.

« Aether », Albedo lo chiamò, e lui ebbe un tuffo al cuore. Il suo nome suonava così dolce e piacevole se era lui a pronunciarlo, e quel tono flebile gli ricordava la sua voce impastata di sonno al mattino, quando si svegliavano accoccolati sotto alle coperte e si stringevano prima di alzarsi. « Ci avevano avvertiti di cosa sarebbe successo se quella creatura ci avesse toccato… Sono stato maledetto. Perché mi hai seguito nel medesimo destino? ».

Ancora una volta, Aether scosse la testa. Allungò una mano per avvolgerla attorno a quella di Albedo, stringendola forte. Non c’era traccia di calore, un freddo sconosciuto gli pungeva le dita persino attraverso la spessa stoffa dei loro guanti.

« Non preoccuparti », disse, accarezzando appena il suo pollice con il proprio, « Affronteremo insieme anche questa ».

Albedo tacque a lungo, così tanto da far temere ad Aether che fosse già sfuggito via, e il suo cuore prese a correre. Ma poi, lo sentì sospirare (un suono debole, fragile che gli frantumò il petto) e con la coda dell’occhio scorse un sorriso amaro sul suo viso.

« Per qualche assurda ragione, pensavo che sconfiggere un demone mi avrebbe portato a nuovi indizi sulla verità di questo mondo », mormorò, mentre la sua voce sfumava gradualmente, « Ma guarda come è andata invece ».

Una pesante sonnolenza avvolse Aether. Con un brivido di terrore, si accorse che la presa di Albedo sulla sua mano era scomparsa. Sapeva benissimo cosa volesse dire. D’ora in avanti non ci sarebbe più stato alcun “Ti amo” per loro, nessun contatto, nessuna parola. Se n’era andato. E lui era da solo con il suo sconforto.

Le prime lacrime scesero lungo le sue guance, la sofferenza così intensa da fargli dimenticare del dolore atroce. « Non preoccuparti », ripeté, benché le sue orecchie non potessero più udire le sue parole, « Ti troverò, lo giuro. A qualunque costo ».

Lanciò un’ultima occhiata al profilo di Albedo, sperando di poter incidere ogni dettaglio a fuoco nella sua memoria, per sempre. Si sarebbero incontrati di nuovo, ne era certo.

E si lasciò andare.
 

 

Dal momento in cui era venuto al mondo, Aether era sempre stato in cerca di qualcosa, semplicemente non sapeva di che cosa si trattasse. Poteva essere una persona, un luogo, un obiettivo. Lo dimenticò nell’istante stesso in cui imparò a camminare, a parlare, a combattere.

Tutti sono convinti di essere nati con uno scopo ben preciso. Aether non osava mettere in discussione se si trattasse di verità o di semplice illusione per scampare al terrore del sonno eterno, tuttavia sapeva di portare su di sé una sorta di maledizione. Era condannato a sentire sempre un vuoto, come se gli mancasse qualcosa, simile a una fame impossibile da saziare.

Non trovò mai la risposta che andava cercando. Ma da qualche parte, lungo il suo cammino, aveva trovato qualcosa che meritava di essere protetto. Era soltanto un soldato semplice, forse un po’ più coraggioso dei suoi pari (probabilmente poiché sentiva di non aver nulla da perdere o da rischiare, e perciò si lanciava in atti al limite della follia), eppure persino lui poteva avere un ruolo nella liberazione del suo popolo dalla tirannia.

Questa motivazione lo aveva guidato come un faro per i suoi diciotto anni di vita. E per tutto questo tempo, non aveva mai rinunciato alla sua ricerca. Si era solo visto costretto a metterla in secondo piano, per concentrarsi appieno sul raffinare la propria tecnica, addestrarsi per la battaglia, diventare un guerriero degno di fiducia.

E come conseguenza del suo costante disagio, non era mai riuscito a formare legami solidi. Tutto era troppo fragile, insoddisfacente. Gli amici lo avrebbero tradito, i compagni cadevano come mosche sul campo, le dichiarazioni d’amore ricevute lo trovavano indifferente. Al di là dell’adrenalina e dell’orgoglio, il solo sentimento che conosceva era l’anelito costante per quel misterioso qualcosa.



 

Un giorno, mentre sostava annoiato in un magazzino abbandonato assieme ad alcuni compagni, per ripararsi dalla pioggia scrosciante, si mise a scavare fra pile di macerie e oggetti sparsi per la stanza. E dietro sudicie tavole di legno, trovò un dipinto.

Nel momento in cui posò lo sguardo sulla tela, qualcosa si smosse dentro la sua anima.

« Ti piace? », il Grand Master gli disse, notando la sua concentrazione, « Non sono esperto di folklore, ma a giudicare dai vestiti si direbbe il Principe di Gesso ».

Quel nome scosse il suo petto. Aether lo guardò confuso, il cuore che batteva all’impazzata. Era una sensazione nuova, un calore che si diffondeva in ogni angolo e nicchia del suo corpo, un’intensa voglia di saperne di più che gli martellava in testa. Era questo ciò che gli altri definivano “interesse”?

« Chi? », domandò.

Il Grand Master si strinse nelle spalle ed estrasse il fiasco da una delle sue tasche. « Nient’altro che una leggenda », spiegò, allungando le gambe e appoggiandole su una cassa di legno, prima di bere un generoso sorso di birra, « Si dice che un certo alchimista, di nome Albedo o una roba del genere, abbia trovato la fonte della vita eterna, e altre scoperte importanti. Anche se fosse realmente esistito, è morto di sicuro, quindi direi che non ha proprio messo a frutto i propri studi ».

E con una risata sguaiata, l’argomento venne chiuso per sempre.

Nel profondo, Aether capì che era la conferma di cui aveva bisogno. Il suo obiettivo. La risposta che aveva rincorso per tutta la sua vita era racchiusa in quel dipinto trovato nel bel mezzo del nulla, per una mera coincidenza… o, forse, destino.

Ma come raggiungere una persona già defunta?



 

Un tuono risuonò nell’aria, congelando il sangue nelle vene di Aether. Era fermo in piedi nel centro del corridoio, circondato dalla luce fioca delle torce appese ai muri del castello.

« È meglio se ti riposi, Aether », il Grand Master appoggiò una mano sulla sua spalla, « Domani è il gran giorno ».

Aether deglutì, una paura sorda avvolta attorno al suo petto che minacciava di farlo svenire. Strinse l’orlo della propria maglia, aggrappandosi alla stoffa con le dita in cerca di conforto dai suoi stessi pensieri distruttivi.

Inutile negarlo: era terrorizzato. Ma al contempo, il fremito familiare nelle sue vene, l’adrenalina che scorreva nel suo sangue al solo pensiero della battaglia che lo attendeva, lo esaltavano enormemente. Era il solito brivido prima della guerra, quando sai che rischierai la vita e non avevi altra scelta se non dare il tutto per tutto, cercando disperatamente di evitare il risultato peggiore.

Finora, era sempre stato più che preparato, e vantava performance invidiabili. Questa volta, però, era un’eccezione.

« Sicuro di voler venire? », chiese l’uomo. Portò una mano sulla testa di Aether, scompigliandogli i capelli con affetto paterno. « Puoi ancora tirarti indietro, se vuoi ».

Aether desiderava poter gridare “Sì, la prego!” a pieni polmoni, nascondersi in un luogo sicuro dove nessuno l'avrebbe trovato, e fuggire fino al tramonto. Ma la sua posizione, il suo onore, il suo orgoglio non glielo avrebbero mai permesso. Aveva ragioni per cui lottare, e nulla da perdere dovesse cadere.

« Pensi che fallirò? », sbottò.

Fingere sicurezza era un’abilità che aveva guadagnato attraverso molti anni di addestramento, al pari dell’arte della spada e della strategia militare. Era di critica importanza tenere un profilo alto, dare sempre una buona impressione di sé, e non mostrare punti deboli o segni di indecisione. Altrimenti, la morte sarebbe arrivata a prenderlo come una truce coltellata.

O almeno, questi erano gli insegnamenti del suo maestro, inculcati nella sua mente dal giorno in cui gli era stata donata la sua prima lama.

L’uomo indietreggiò d'un passo e sorrise. Aether odiava quell’espressione carica di pietà e compassione. Non voleva che gli altri provassero ciò nei suoi confronti.

« Non dubito delle tue abilità, Aether », disse, « Ma sono certo che neanche tu le sopravvaluti ».

No, affatto. Aether stava mentendo spudoratamente. Non c’era modo di indorare la pillola: sapeva che sarebbe morto. Quella battaglia era una causa persa, soprattutto per lui. Le possibilità di sopravvivere erano scarse, ma nella peggiore delle ipotesi avrebbe aiutato la rivoluzione a fare un passo avanti verso il successo. Era un soldato di basso rango, nient’altro che una pedina sulla scacchiera di un sovrano, ma pur sempre parte di qualcosa di più grande.

« Mi sono sempre chiesto cosa ti spinga a tanto », l’uomo aggiunse, « Ma per quanto forte sia la tua motivazione, ti imploro di non gettare via la tua vita ».

Aether quasi grugnì, la sua voce molto più scortese del previsto. « Intendi cosa mi spinge al di là della libertà di Mondstadt e del suo popolo? », disse, « Cosa può esserci di più importante? ».

L’uomo lo fissò a lungo, facendolo scivolare nell’incertezza. Aether sentiva di essere letto, la sua maschera un inutile capriccio di fronte ai suoi occhi attenti. Lo aveva cresciuto, dopotutto, dal momento in cui lo aveva trovato in una culla alle porte della città. Nessun altro al mondo conosceva ogni anfratto della sua anima meglio di lui.

Ma sapeva anche quanto fosse testardo, e fu proprio questo il motivo per cui gettò la spugna. « Buona fortuna, dunque », disse.

E se ne andò senza dirgli addio.

Aether rimase immobile nel corridoio, solo. Da quando era diventato un così bravo attore? Non ricordava un singolo istante di onestà negli ultimi dieci anni, o forse anche oltre.

La verità era semplice: non lo sapeva. La sua spinta era forte, eppure sconosciuta a lui stesso. Non amava particolarmente odiare una parte di sé che gridava a gran voce, un urlo costante nella sua testa di cui non riusciva a decifrare il messaggio. Un codice segreto che lo spronava a proseguire, facendogli rischiare tutto ciò che aveva e forzandolo a distaccarsi da tutto il mondo… che, tuttavia, non avrebbe mai compreso.

Posò gli occhi sul dipinto appeso al muro. Era lo stesso che aveva trovato nel magazzino, l’oggetto che gli aveva rapito il cuore. Aveva richiesto che venisse appeso fuori dalla sua stanza, così che potesse ammirarlo ogni giorno e sentire la motivazione scorrere nelle sue vene quando non la percepiva più.

Il Principe di Gesso lo fissava di rimando dalla ruvida tela, e per un istante sembrò quasi sorridere non al mondo, ma a lui, come se potesse scrutare le profondità del suo animo. Era per colpa sua se la sua vita era stata così assurda.

Si avvicinò al quadro, accarezzando la cornice dorata con la mano, e percorse con le dita le guance dell’uomo misterioso.

« Chi sei? », sussurrò, « Perché mi stai chiamando? ».

Appoggiò la testa contro il dipinto. Ogni volta che i suoi occhi esitavano sul ritratto di Albedo, la sua mente correva via, immaginando come potesse essere la vita di un genio incredibile che aveva trovato mille risposte e scoperto i segreti insondabili del mondo, un traguardo cui lui non poteva neppure sperare di ambire. E si sentiva a casa.

E per poter seguire i suoi passi, sapeva di dover essere un eroe.

Anche se questo significava morire il giorno successivo.



 

Il cielo era a dir poco meraviglioso.

Continuamente impegnato con gli addestramenti, Aether non aveva mai ammirato per davvero le nuvole che si inseguono nel blu del cielo, né si era preoccupato di studiarne le sfumature e tonalità a ogni ora del giorno.

La schiena distesa a terra, mentre l’erba gli solleticava il viso e il suo corpo perdeva gradualmente sensibilità, Aether fece infine un respiro profondo.

Era pronto al fallimento. Era orgoglioso del modo in cui aveva combattuto: coraggioso come sempre (per quanto potesse considerarsi eroico un guerriero che salta di strage in strage per un bene superiore). Non un salvatore, come molti amavano definire il suo plotone, bensì un mero soldato senza patria.

La lancia che gli aveva perforato il ventre, disarcionandolo, non lo aveva colto di sorpresa. Semmai, ne fu… sollevato. L’anelito per  l’ignoto, la malinconia, l’inspiegabile nostalgia sarebbero presto scomparse.

Fra le proprie palpebre socchiuse, prima che la sua vista si offuscasse e i contorni delle nuvole iniziassero ad amalgamarsi con il blu del cielo, lo vide di nuovo. Vivo, fuori dal dipinto, in carne ed ossa. Tendeva una mano verso di lui.

E fu allora che ricordò.

Ricordò tutto. Il loro primo incontro sulla montagna, il loro viaggio spalla a spalla, l’innamoramento, tutte le loro prime volte, fino al giorno fatidico in cui avevano deciso di affrontare un nemico troppo forte, i loro corpi coperti di sangue mentre morivano mano nella mano, e la maledizione che li aveva colpiti.

Un nome balenò nella sua mente. Tutto era così limpido e chiaro; come aveva potuto dimenticarsene per tutto quel tempo? Come aveva potuto vivere ignorando chi fosse realmente Albedo? E perché erano nati in tempi così distanti?

« Trovami », lo sentì sussurrare.

In questa vita, era stato in ritardo. Ma nella prossima, sarebbero stati insieme di sicuro.

Aveva giurato di inseguirlo, dopotutto.
 

 

Albedo provava di rado interesse per qualcosa.

“È solo un bambino capriccioso”, era il mantra ricorrente nella sua famiglia. Sin dalla nascita era stato definito un bimbo insofferente, impossibile da compiacere, il viziato principe di una casata di nobili decaduti. Sempre alla ricerca di qualcosa di meglio, quando non aveva nulla da desiderare, in possesso di qualsiasi cosa il suo cuore volesse.

Per quanto le persone si sforzassero di disprezzare lui e il suo comportamento, però, non potevano non constatare la perfezione in tutto ciò che faceva. Come biasimarli, del resto. Era un lettore vorace, e un bambino curioso fino al midollo. Memorizzava e capiva tutto alla velocità della luce, non importa quanto fosse complesso o astratto, era intelligente e disponeva di ottime capacità manuali, per non parlare delle maniere impeccabili che aveva appreso a memoria. Qualcuno lo definiva persino un genio, destinato a grandi cose.

Ma in realtà, non tenendo in conto i suoi concerti perfetti, le sue magnifiche opere d’arte, il suo linguaggio colto e la sua condotta esemplare, Albedo era un ingranaggio rotto a cui mancava da sempre un elemento vitale. Non si era mai sentito parte di alcun luogo o gruppo, né tantomeno a casa, apprezzato da qualcuno. La sua intera rete di relazioni era finta, basata su mera apparenza e continue bugie, lungi dall’essere un esempio di amore o affetto esulante da soldi e ricchezze.

E questo lo uccideva lentamente da dentro. Poteva capire ogni cosa senza difficoltà, tranne se stesso. Cosa c’era di sbagliato nella sua vita, quando poteva ottenere qualsiasi cosa bramasse con uno schiocco di dita?



 

Albedo sedeva accanto ad Alice, gli occhi incollati sul pavimento.

Il silenzio era opprimente. Non che si aspettasse nulla di diverso da una cerimonia cupa come un funerale, ma questo era eccessivo. Essere in prima fila lo innervosiva ancor più, come se tutti stessero osservando lui, pronti a individuare qualsiasi errore o distrazione nella sua condotta. E sapeva di aver ragione. La sua intera vita era basata su giudizi esterni, al pari di ogni altro nobile.

Non era il primo funerale a cui assisteva. Purtroppo, la morte è parte della vita di ogni uomo, vi era abituato. Aveva molti parenti, e tante eredità erano state riscattate negli anni.

Ma mai prima d’allora si era sentito così emotivamente vuoto. Forse ciò che lo infastidiva era non conoscere neppure l'identità del defunto. Eppure, anche questo era già accaduto in passato: ricordava a malapena i volti di metà delle persone che aveva celebrato in matrimoni e ricorrenze, onestamente.

“L’Eroe”, lo chiamavano, “La stella caduta”, “Il salvatore”... Così tanti epiteti, così poco significato. Erano tutte parole a vuoto per lui, che non era nato né cresciuto nel regno confinante, e tutto quel che poteva fare era fissare il prete, cercando di silenziare ogni suono esterno e scivolare nei suoi pensieri. Le sue mani stringevano la stoffa dei suoi pantaloni, il sudore che scorreva lungo i suoi palmi.

Il suo cuore non si placava. Qualcosa non andava.

Assistette all’intera cerimonia con la testa altrove, pallido come un fantasma. E non poté essere più lieto quando Alice infine si alzò, segno che la sofferenza era giunta al termine. Scattò in piedi, seguendola lungo i corridoi affollati e desiderando non essere mai venuto.

Tuttavia… la curiosità lo corrodeva.

Perché gli importava così tanto, comunque? Era niente meno che l’ennesimo estraneo. Non aveva alcun legame con lui, nessuna ragione per rimpiangerlo. Eppure…

Distratto, si scontrò con un passante, e l’intero volto pulsò di puro dolore. Si scusò, ricevendo soltanto un’occhiata furiosa in risposta, e accelerò il passo per raggiungere Alice, il naso ancora in fiamme.

« Albedo », sentì Alice attirare la sua attenzione, « Cosa succede? Non è da te essere così teso in un evento sociale ».

Albedo strinse con le dita il collare della camicia, cercando disperatamente di allentare la cravatta e fare un respiro profondo, soffocato dalla tensione.

« È che... », trovare le parole giuste per dar voce ai propri dubbi fu più arduo del previsto, « Penso sia terribile non sapere neanche il nome della persona di cui ho appena assistito al funerale ».

Alice lo fissò con sorpresa. Lo shock era comprensibile: dopotutto, quando mai il suo freddo, distaccato figlio adottivo aveva espresso interesse verso qualsiasi cosa? La sua impassibilità era un marchio di fabbrica.

« Da quando ti importa? », domandò, la nuda e cruda verità simile a un coltello che gli pungeva lo stomaco, « Non l’hai chiesto. E non lo conoscevi, fidati. Nemmeno io sapevo chi fosse, siamo qui solo per pura diplomazia... ».

Una voce sconosciuta alle sue spalle interruppe il discorso. « Giovanotto », un’anziana signora parlò, appollaiata in un angolo della sala da tè, « Desideri sapere di più sul conto della Stella caduta? ».

Alice gli strattonò leggermente la manica. Nel loro linguaggio segreto, quel gesto significava soltanto una cosa: “Pazzo avvistato, andiamo via”. Probabilmente era quello che stava pensando, indicando con il mento l’uscita della stanza. Tale era la natura di quella donna, sempre impeccabile all’esterno, ma con l’animo inguaribile di una combinaguai. Mille volte erano stati complici, sfuggendo elegantemente dalle persone che si prendevano troppa confidenza o che semplicemente puzzavano di guai.

Ma non questa volta.

« Scusa », sussurrò, e si avvicinò al tavolo della signora, prendendo posto sulla sedia di fronte. Sì, desiderava avere più informazioni. Per una volta, bramava che le nozioni gli venissero riversate addosso di sua spontanea volontà, invece di riceverle passivamente al passo altrui. « Con piacere, signora, se non le dispiace ».

La donna sorrise. Sembrava quasi che avesse atteso quel momento per una vita intera. Si schiarì la gola con un colpetto di tosse, e iniziò il proprio racconto, con voce calma e pulita.

« Quando ero più giovane », disse, « Lo vedevo correre di qua e di là tutto il tempo. Era un bambino brillante, e scalmanato fin dall’infanzia. Non sono sorpresa che fosse diventato un uomo così bello e coraggioso ».

Albedo sorrise, profondamente a disagio, e i primi segni di pentimento gli affollarono la mente. D’accordo, forse non era stata la decisione migliore del secolo. Non gli andava molto di sentire le fantasie sconclusionate di un’anziana, cercava soltanto una risposta ai propri dubbi. Ma Alice lo aveva già abbandonato lì, quindi non aveva modo di tirarsi indietro.

« Ma sai, anche se tutti lo chiamano in tanti modi », continuò, ignara del suo sconforto, « Stella caduta… Salvatore… Sole incarnato… Sono soltanto soprannomi ».

L’interesse di Albedo fu colpito di nuovo. « Questo l'avevo intuito »,disse, « Ma il suo vero nome è sconosciuto, o cose del genere? ».

La donna ridacchiò. « Oh, no », disse, « Certo che no. Gli epiteti sono semplicemente più nobili alle orecchie dei popolani, più adatti a essere tramandati di leggenda in leggenda. Il suo vero nome era Aether ».

Il suono di quel nome infranse la sua mente come vetro soffiato. La chiave per aprire lo scrigno delle sue memorie perdute era di nuovo in suo possesso, e dolorosi frammenti di un passato lontano gli invasero la testa. La sua vita gli scorse davanti agli occhi; non questa, bensì una precedente. Ricordò il terrore nell’affrontare il demone, la sensazione di essere trafitto e del sangue che sgorgava da ogni centimetro del suo corpo, e la morbidezza del collo di Aether mentre moriva, stretto al suo petto caldo.

Si portò una mano al cuore, assalito da un dolore improvviso. Corse via, ignorando sia la voce distante di Alice che gli intimava di tornare indietro, sia l’anziana che cercava di proseguire il racconto, diretto alla sala delle cerimonie.

Spinse via tutti i passanti, tralasciando il galateo e le buone maniere, e si fece largo fino a raggiungere la bara da vicino. E non appena i suoi occhi si posarono sul dipinto fissato alla lapide, comprese di aver fallito.

Aether era morto lontano, i loro destini divisi, i loro cammini paralleli e mai congiunti.

Cosa ne sarebbe stato di lui ora, della loro promessa di ritrovarsi nelle loro vite successive, ad ogni costo? Aveva a malapena superato i vent’anni di età, lo attendevano così tanti anni bui e vuoti senza Aether. Un’intera esistenza da trascorrere senza il suo calore. Che crudele il fato per fargli ricordare tutto così presto, riempiendo il suo intero futuro di tristezza e solitudine.

Ma alla prossima occasione, oh sì, lo avrebbe cercato di nuovo.

Stavolta non avrebbe dimenticato. E si sarebbero incontrati di sicuro.

 

 

Fino ad allora, Aether non aveva posseduto nulla.

Non era altro che un viandante, sopravviveva grazie a sporadici lavoretti di paese in paese e a quei pochi spiccioli che guadagnava offrendo il proprio aiuto a tutti coloro che incontrava. Era giovane e nel pieno delle sue forze, capace di portare a termine pressoché ogni commissione, il che lo rendeva un valente aiutante per tutti i bisognosi.

Quando era poco più che un bambino, aveva perso tutto. Il rumore dei fucili oltre la soglia riecheggiava ancora nelle sue orecchie, rimbombava nel suo petto. La guerra non aveva pietà neppure per i più piccoli. Ma era stato abbastanza fortunato da nascere in una famiglia benestante, con un tetto sulla testa e una madre che lo amava alla follia.

Amava particolarmente raccontargli favole prima della buonanotte. E ora, esse erano tutto ciò che gli restava di lei, una raccolta amorevole di leggende che non avevano alcuno scopo nella sua vita, ma gli riscaldavano il cuore nelle fredde notti all’aperto.

Le sue storie avevano lasciato una ferita aperta nel suo animo.

Sin dal primo racconto, aveva iniziato a vederlo. Bastava chiudere gli occhi per un misero secondo, perché le visioni lo assalissero. Un giovane uomo vestito di pizzi e merletti, con ciuffi di capelli biondo cenere che ondeggiavano al vento. Gli dava le spalle, camminando lentamente verso la luce, e Aether lo inseguiva, senza tuttavia mai raggiungerlo. Il sogno finiva sempre in frantumi, nel momento esatto in cui le loro dita si sfioravano, così vicino eppure così distante. Lo stesso incubo, giorno e notte.

Il riposo era un’utopia per lui.

Per questo aveva intrapreso un viaggio senza meta, per tenersi impegnato ed essere esausto prima di coricarsi, scacciando via ogni sogno con la propria stanchezza.

Dopo tutti quegli anni, aveva smesso di credere alle coincidenze. Ovunque si recasse, un frammento volante di informazione gli ricordava quello sconosciuto ipnotico. Non sapeva se si sbagliasse o meno, se forse il suo cervello avesse plasmato una persona dal nulla, assegnandole tratti distintivi e preferenze che in realtà non esistevano affatto. Aveva preso in considerazione l’idea di essere semplicemente pazzo.

Un fiore dai petali bianchi che cresceva coraggioso sull’orlo di un dirupo, il cui riflesso si infrangeva sulle onde blu del mare? Nel suo sogno, l’uomo ne aveva uno intrecciato fra i capelli. Un passante di nobile estrazione sociale, vestito di tutto punto? Aether passava interi minuti a fissarlo, ricordando i medesimi abiti nelle sue visioni. Un artista di strada intento a dipingere al limitare della piazza? Mille volte aveva scorto pennelli e matite fare capolino dalle tasche dello sconosciuto.

E così via, per ogni minimo dettaglio su cui la sua vista si concentrasse per più di un battito di ciglia.

Doveva essere reale.

Ma se anche fosse così, dove si erano incontrati? Quando era piccolo? In un’altra vita? Doveva trovarsi là fuori, da qualche parte. Una sirena che lo chiamava a gran voce, attirandolo verso il grande ignoto con tutto l’ardimento di un esploratore.

E così, viaggiava. E camminava, camminava, camminava. Tutta la sua vita non era stato altro che un continuo vagabondare, con alcuna certezza di dove il cuore lo avrebbe condotto. E continuava a raccogliere brandelli di lui, di quell’uomo misterioso che stringeva con forza la sua volontà, ricostruendo quel complicato puzzle pezzo dopo pezzo.



 

Il clima di Dragonspine era decisamente il più rigido che avesse mai visto.

Gli era stato consigliato di non abbandonare il sentiero e di portare con sé quante più sorgenti di calore possibile, poiché un incantesimo proteggeva la sommità della montagna, intrappolandola in un gelo perenne. Qualcuno aveva persino cercato di impedirgli il passaggio, sicuro che sarebbe morto congelato senza l’attrezzatura adatta.

Ma niente riuscì a fermarlo. Aveva pura determinazione dalla sua, e sapeva che un’enorme verità giaceva in cima al monte.

Senza remore, Aether camminò per giorni lungo i fianchi innevati, gli stivali immersi fino all’orlo nella coltre bianca mentre si arrampicava per le cime tortuose, il suo corpo esausto che faticava a reggere il passo. Poteva sostare e riposare per una manciata di istanti, altrimenti le sue dita si arrossavano e prendevano a bruciare come fuoco vivo nel freddo polare di quella tempesta eterna.

Trovò ciò che stava cercando dopo giorni, quando era prossimo a perdere ogni speranza e arrendersi, considerando l’idea di tornare alla base della montagna, o trascorrere su quei pendii le sue ultime ore di vita. Cercando riparo da un’improvvisa nevicata, si ritrovò in una grotta.

Dormì profondamente, stordito dalla spossatezza. Solo dopo essersi risvegliato prestò attenzione al luogo attorno a sé, maledicendosi mentalmente per essere stato così negligente. E lo vide: nell’angolo della caverna, le ginocchia strette al petto, c’era qualcuno.

Aether saltò all’indietro, e un grido di sorpresa uscì dalle sue labbra. Era troppo spaventato per controllare la propria voce, incurante del rischio di causare valanghe o di attirare pericoli esterni.

Lo raggiunse a gattoni, esaminando il suo corpo da vicino. Sembrava un giovane, più o meno della sua stessa corporatura, magro ma con un accenno di muscolatura. Indossava una spessa uniforme, familiare ai suoi occhi, sebbene non riuscisse a ricordare con esattezza dove o quando l’avesse vista prima di allora. Le ossa delle sue gambe sembravano rotte in diversi punti, e i pantaloni erano stracciati e logori, segni di artigli che stracciavano la stoffa all’altezza del ginocchio.

“Un animale selvatico?”, pensò.

Anche senza controllargli il polso, era chiaro come il sole che aveva smesso di respirare da moltissimo tempo, l’orlo della sua giacca già rivestito da uno spesso strato di ghiaccio.

Si scusò sottovoce con la povera anima, prima di frugare nelle sue tasche in cerca di oggetti di valore, o almeno qualcosa che potesse aiutarlo a identificarlo. Sul suo petto trovò un ciondolo, e alcuni logori frammenti di carta.

Spinse delicatamente sul pulsante, applicando quanta più pressione riuscisse con le dita intorpidite dal gelo, e l’oggetto si aprì con uno scatto.

Aether quasi svenne non appena i suoi occhi misero a fuoco il contenuto.

Era… il suo stesso riflesso.

Disegnata con tratti sbiaditi di gesso, gli angoli del foglio stracciati e consunti (probabilmente durante la lotta con l’animale che lo aveva aggredito) al punto da rendere il testo scritto a mano illeggibile in più punti. Eppure, ricostruire il messaggio fu un’impresa semplice, e ciò che lesse gli spezzò il cuore in mille desolati pezzi.

« Aether, mio amato », lesse ad alta voce, assaporando il retrogusto amaro di ogni parola, « Ti sto cercando. Albedo ».

Il panico gli invase la mente. Scoppiò in un pianto silenzioso, tentando disperatamente di respirare a fondo e riprendere il controllo. Posò delicatamente una mano sulle guance dell’uomo, per sollevargli il viso quanto bastava da guardarlo meglio.

Se il messaggio era stato un indizio importante, quel che vide fu la prova schiacciante. Era la persona che lo tormentava nei suoi sogni. Incontrarlo fu doloroso, molto più del previsto. Il mistero che lo aveva tormentato dall’infanzia era stato infine risolto… un minuto troppo tardi.

Ora ricordava. Quante volte avevano ripetuto lo stesso copione dal principio? Per quante vite, attraverso quanti secoli? Dimenticandosi l’uno dell’altro alla nascita, bramando sempre qualcuno di sconosciuto, eppure non arrivando mai a toccarsi, a trascorrere del tempo assieme, a sperimentare di nuovo l’amore.

Quella maledizione era terribile. Ma si rifiutava di credere che non l’avrebbero mai infranta - no, dovevano. Se la loro volontà di trovarsi fosse stata abbastanza forte, un giorno avrebbero deviato il crudele corso del destino.

Questa volta, erano più vicini. Le loro vite si erano scostate di poco più di una manciata di giorni.

Aether avrebbe combattuto per il loro lieto fine. A costo di sacrificare tutto.

« Ti troverò, Albedo », sussurrò nel silenzio assordante della grotta, « Non arrenderti, continua ad aspettarmi ».

Albedo gettò via il pennello e lo osservò rimbalzare sul piedistallo, per poi cadere a terra e affondare nel soffice tappeto al centro della sua stanza. Sospirò, lasciando che tutta la frustrazione gli riempisse i polmoni prima di espirare con rabbia.

Lo odiava. Odiava tutto, ultimamente, ma soprattutto detestava non capire se stesso, né il prodotto delle sue stesse mani. E continuava a succedere.

Lanciò uno sguardo allo schermo del computer, nascosto per metà dalla tela. Foto di mille campi fioriti erano allineate sul desktop, in tinta con gli schizzi e i bozzetti fissati alla lavagna bianca sul muro.

Come aveva detto il suo insegnante, era ora che facesse pratica con i paesaggi, l’unica cosa in cui non era troppo dotato. Era un mago nel dipingere ogni persona, che fosse reale o immaginaria, e ogni animale o pianta. Tutti i professori che avevano esaminato i suoi lavori negli anni definivano le sue opere come “tese”, racchiudenti un anelito verso l’ignoto. E, agli occhi di tutti, erano molto vicini alla perfezione, uno Streben Romantico, persino.

Non poteva essere più in disaccordo.

Quella non era la sua vera arte. Ciò che dipingeva quando era libero, svincolato da regole e compiti, era totalmente diverso, e terribilmente frustrante.

Guardò l’ultimo frutto delle sue fatiche. Sì, i fiori erano lì, piccoli fari dorati sul verde dell’erba, con tanto di fango che faceva capolino tra i ciuffi rigogliosi… ma non era il soggetto principale, anche se avrebbe dovuto esserlo.

In primo piano, c’era un ragazzo. Dai capelli biondi, più brillanti del sole, e dal sorriso cortese. Era bellissimo, senza dubbio, e la sua aura gentile aveva il potere di rasserenare persino la più sola delle anime, benché fosse poco più che una macchia di vernice su una tela.

Ma non la sua.

La sua era soltanto colma di confusione, e tremava di paura per la propria sanità mentale.

Non sapeva chi fosse quella persona. Non aveva mai chiesto a nessuno di posare per lui al di fuori delle lezioni, e certamente non conosceva qualcuno che fosse così attraente. Non gli ricordava neppure un personaggio di finzione, né una celebrità. Era uno sconosciuto, forse una proiezione della sua fantasia.

Eppure, trovava il modo di apparire in ogni suo disegno, negli scarabocchi con cui riempiva distrattamente gli angoli dei propri appunti, sin da quando aveva due anni e aveva preso in mano una matita per la prima volta.

Vedendosi consegnati a ogni semestre una miriade di illustrazioni dello stesso soggetto, i suoi insegnanti nelle varie fasi scolastiche lo avevano definito la sua “musa”. Ma gli era stato detto anche che l’arte riflette i propri desideri reconditi, ciò che la propria anima brama profondamente senza che il cuore ne sia consapevole.

E allora, che senso aveva? Chi era quel tizio che lo tormentava? Perché non riusciva a scorgere altro che il suo volto, quando voleva concentrarsi sul paesaggio intorno a sé e non su un mondo di fantasia?

E soprattutto… perché provava attrazione per quel personaggio inventato?

Sentiva la sua lucidità infrangersi giorno dopo giorno.


 

Il giorno della mostra incominciò nel peggiore dei modi.

Giunto al terzo caffè nell’arco di un’ora, con le dita tremanti per l’eccesso di caffeina che scorreva nelle sue vene, tenendolo in vita come un’ancora di salvezza, Albedo era in piedi al centro del corridoio, lo sguardo perso nel vuoto mentre ascoltava senza prestare attenzione il decimo rimprovero dell’insegnante.

Alla fine, aveva ignorato il tema e consegnato quel ritratto.

Non era ciò che gli era stato richiesto. Era in terribile contrasto con ogni altro dipinto nella galleria, tutti pieni di paesaggi floreali, colline dai contorni definiti, e nuvole setose. Sapeva che sarebbe stato così, eppure si era rifiutato di ricominciare da capo, vista l’ora a cui aveva finito.

Sarebbe stato un tentativo a vuoto, comunque. Per quanto cercasse di scappare, quella musa immaginaria lo seguiva ovunque. Chiedergli di tagliarsi una gamba sarebbe stata una pretesa più ragionevole piuttosto che vederlo disegnare qualcosa senza riferimenti a quell’uomo. Aveva quasi accettato di essere uscito di senno, dopo aver trascorso troppo tempo nei suoi sogni ad occhi aperti e non abbastanza fuori.

Aveva deluso tutti, naturalmente. I professori che lo avevano incoraggiato e che gli avevano fatto ottenere il suo posto nell’esposizione, anteponendolo a tanti altri potenziali candidati, lo fissavano ora con disappunto, lanciando ogni tanto delle occhiate cariche di disprezzo al dipinto errato che non avevano fatto in tempo a rifiutare. Aver mancato il tema della mostra era una macchia indelebile sulla reputazione perfetta della sua accademia.

Quando l’atmosfera si faceva opprimente, e visitatori e insegnanti di altre scuole sussurravano tra loro commenti velenosi sulla sua opera, Albedo si alzava e fuggiva in bagno o vicino ai distributori, in cerca di tempo con se stesso.

Se ne stava lì, fermo in mezzo al corridoio, e si fissava la punta delle scarpe, rifuggendo il contatto visivo con la folla. La calma gli pervadeva nuovamente le vene, e tutto sfumava gradualmente in una nebbia piacevole e tranquilla, finché la sua batteria sociale non si riempiva del tutto.

Ma una volta, fu interrotto da un frastuono terribile. Qualcuno si era scontrato nell’atrio, e scuse urlate a gran voce riecheggiarono per l’intera galleria, strappandolo alla sua concentrazione.

Albedo si voltò, in cerca della fonte di quel rumore fastidioso. E fu allora che la vide: una lunga treccia di capelli dorati che volteggiava nella stanza, spiccando come un faro nel turbine di cappotti monocromatici e giacche a tinta unita.

La stessa sfumatura dei capelli del suo tormento.

Doveva assicurarsi di non essere pazzo. Corse di nuovo alla sua postazione e sbatté con violenza il bicchiere di caffè sul tavolo, gli occhi che rimbalzavano di visitatore in visitatore, cercando quello sconosciuto.

E lo trovò. Intento a fissare il dipinto che Albedo aveva realizzato, un perfetto riflesso del suo viso, il ragazzo era proprio di fronte a lui, le mani strette con decisione attorno alla tracolla della sua borsa, e apparentemente senza fiato.

Forse era inquietato. Onestamente, sarebbe stato comprensibile: non capita tutti i giorni di trovare la propria faccia illustrata in un quadro, realizzato per di più da un tizio a caso che non hai mai visto prima in vita tua, e che era agitato tanto quanto il diretto interessato.

Ma quando stava per fare un passo avanti e chiedergli scusa, i loro sguardi si incontrarono.

E tutti i pezzi del puzzle scivolarono al loro posto.

I ricordi tornarono tutti assieme, prepotenti come un uragano, causandogli un forte giramento di testa. Sapeva, dal modo in cui gli occhi dell’altro ragazzo si colmarono di lacrime e le sue guance prendevano colore, che lo stesso stava accadendo anche a lui.

Il sangue, la maledizione, lo scorrere del tempo… Quanto era passato? Quante vite si erano lasciati alle spalle, sempre l’uno in cerca dell’altro, incapaci di raggiungersi e stringersi forte?

In un improvviso impeto di entusiasmo, Albedo smise di pensare. Corse verso di lui e saltò, il cigolio delle suole delle sue scarpe contro il pavimento di marmo che riecheggiava nella stanza. E sorprendentemente, il ragazzo dai capelli dorati non si irrigidì né indietreggiò, anzi avvolse le braccia attorno alle sue spalle, stringendolo forte al petto.

Era un calore familiare. Un calore che mai avrebbe pensato di poter provare di nuovo.

« Aether », sussurrò contro la base del suo collo, rifiutandosi di muovere alcun muscolo, « Sei Aether, vero? ».

Gli occhi della folla si posarono su di loro, abbracciati al centro della stanza senza traccia di pudore. Albedo sentiva il peso dei loro sguardi, ma non gli importava affatto. La gioia di essersi ritrovati era troppo forte, una speranza troppo brillante per essere compresa dagli altri, e troppo importante per essere disturbata da una manciata di estranei.

Alzò gli occhi per incontrare i suoi di nuovo, e li trovò gentili proprio come quelli dei suoi ricordi, come quelli dei suoi sogni. Erano assieme, e al sicuro.

« Sì », il ragazzo confermò, « E tu sei Albedo ».

Anche la sua voce era uguale. Forte, sicura, eppure gentile.

Era così strano, come un’allucinazione. Non si erano mai incontrati prima in questa vita, semplicemente sapevano cosa fosse successo negli anni. Chiunque li avrebbe presi per folli, e difficilmente avrebbero creduto alla loro storia.

Ma non importava.

“Abbiamo sofferto abbastanza, adesso?”, era l’unica domanda che Albedo riuscì a porsi prima che le loro labbra si sfiorassero. Si baciarono come se bramassero contatto fisico da secoli, ricordando il dolore nel toccarsi e non percepire nulla, il calore dei loro corpi ormai svanito nel gelo della neve. Aether aveva un gusto particolare. La sua bocca aveva il sapore che pensava dovesse avere il sole, straniero come una landa lontana e sconosciuta, eppure familiare e confortevole come quella famiglia che non aveva mai avuto.

E anche quando si separarono, non smisero di abbracciarsi. Continuarono ad aggrapparsi l’uno all’altro come se ne andasse delle loro vite, rifiutandosi di indietreggiare di un solo passo. E finalmente, stretto fra quelle braccia, Albedo sentì ogni frammento dei suoi sogni e delle sue speranze assumere un significato, e il suo mondo si tinse di colori più accesi. Non si era reso conto prima di quanto tutto fosse spento e vuoto, ma era chiaro adesso. Ne era valsa la pena, alla fine.

« L’avevo detto che ti avrei trovato », Aether bisbigliò contro il suo orecchio, « Anche se non immaginavo di incontrarti qui, fra tutti i posti al mondo ». Ridacchiò sottovoce, ed era il suono più bello che Albedo avesse mai udito.

Aspettarlo era stato l’esame più difficile che potesse immaginare. Migliaia di anni erano trascorsi dalla loro separazione, un oceano di vite si erano intrecciate alle loro, in una spirale crescente di frustrazione e solitudine… ma adesso era tutto finito.

Finalmente, erano a casa.

E non si sarebbero divisi mai più.

   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Genshin Impact / Vai alla pagina dell'autore: meilunye