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Autore: alessandroago_94    03/06/2021    6 recensioni
Alex è un giovane uomo pieno di dubbi e di voglia di mettere in carreggiata la propria vita, che spesso gli appare senza senso. È infatti vittima di un’ossessione, quella riguardante una persona idealizzata, o forse un suo stesso personaggio inventato; il fantomatico G.
Alla ricerca costante di questa persona si aggiunge una ricerca interiore, quella riguardante sé stesso.
Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, l’agente James Barley, prossimo al pensionamento, si ritrova immischiato in una vicenda quasi assurda. Immerso in una società dell’orrore dove regnano bugie e disonestà, e dove sono solo i soldi a fare la differenza tra gli esseri umani, indagherà a riguardo di una clinica privata in cui si effettuano strani e proibiti esperimenti.
Le due vicende si intrecciano, anche se non si incontrano mai definitivamente. Possibile che anche questo racconto sia tutta una grande bugia? Un Limbo, appunto. Un Limbo dei Bugiardi. Un luogo immaginario in cui regnano solo le maschere.
Genere: Azione, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo ventitrè

CAPITOLO VENTITRE’

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Le lezioni della delusione, dell’umiliazione e dell’errore

colpiscono più a fondo di quelle di mille maestri”.

Johann Heinrich Fussli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se credevo che non potesse andare sempre tutto male, be’, mi sbagliavo. Perché nella vita non c’è mai limite al peggio.

in da quando sono tornato per qualche minuto all’aria aperta sono stato folgorato da una spiacevole sensazione, che non si è rivelata errata.

Mi hanno costretto a sedermi sul sedile posteriore di una volante e mi hanno scaricato davanti alla clinica. Sì, proprio quella clinica.

L’infermiere che mi ha aperto la porta l’ultima volta in cui mi sono recato a fare reclamo è stato colui che mi ha preso in consegna. Non ho nemmeno provato a urlare, né a ribellarmi; il mio destino è scritto.

Adesso sono qui, seduto nello studio di Morrow, con la certezza di aver perso tutto. È stato come un cerchio che si chiude, non potevo sfuggire a questo.

Con rassegnazione, aspetto che l’uomo mi dia udienza. Nel frattempo, due infermieri silenziosi e dall’aria nervosa controllano che la camicia di forza non si allenti.

“Buongiorno, agente speciale” fa il suo esordio il maturo psicoanalista, non appena fa il suo ingresso nello studio, “anzi, mi scusi! Paziente Barley”.

Ghigna, mentre si siede davanti a me. Fa cenno con la testa ai due infermieri, li manda via.

Chiudono la porta dall’esterno, mentre quello che fino a poco tempo fa era un indiziato si trasforma in inquisitore.

“Piaciuta la sorpresa?”

Resto ancora in silenzio.

“Dai, su con il morale. D’altronde, noi della clinica l’abbiamo salvata da un lungo processo in tribunale, che rigorosamente le avrebbe dato torto”.

“Non credo che sia finita tanto meglio, dottore” replico, parlando per la prima volta. E lo faccio con rassegnazione e impotenza. Morrow infatti sorride di nuovo.

Lui, l’uomo di pietra, eccolo finalmente divertito.

“No, ha ragione” smette di sorridere e torna serio. “Ha una terapia da affrontare, ora”.

“Con farmaci sperimentali provenienti da cliniche private di altri Stati?”

Questa volta, lo psicoanalista si regala una risatina profonda e ispirata.

“Sa che lei è pure simpatico, se si impegna? È un aspetto del suo carattere che non avevo mai notato” afferma, poi abbassa la voce con effetto scenico, “comunque, sì, sarà proprio così”.

“Non penso proprio” salto su io, sempre più nervoso, “qualcuno verrà a tirarmi fuori da questo buco di merda prima ancora che voi allunghiate un dito verso di me”.

Morrow torna imperturbabile, come suo solito.

“Questa è solo una sua illusione. La sua mente le sta suggerendo ciò sulla base del fatto che ancora spera di salvarsi, ma come di certo sa, la speranza è l’ultima a morire; fa parte dell’essere umano”. Breve pausa, mentre giocherella assorto con una penna sulla scrivania. “Ciò non fa una piega, ma nessuno la salverà. La Stradford, o signorina, come tanto voi tirapiedi adorate chiamarla, l’ha scaricata senza pietà, agente. Le ha insegnato dapprima la sua manfrina, poi semplicemente l’ha cestinata”.

“Era solo una matta, quella”.

“Oh, sicuro; in questa storia, i matti sono tanti” Morrow torna a sorridere, sornione, “ma le garantisco che l’unico a diventare pazzo per davvero sarà lei”.

Resto in silenzio, di nuovo affondato dalle sue parole cariche di disprezzo e di pessimismo.

“Un’ultima cosa, prima di iniziare la terapia. Ha presente il paziente Brown? Quell’uomo che era qui, proprio al suo posto, quando lei è venuto a farci visita l’ultima volta?”

Annuisco.

“Be’, lui era l’uomo che l’ha preceduta. Non ci crederà, ma abbiamo una ventina di persone che hanno tentato la sorte, prima del suo tentativo. Se ha presente quel bel plico di testimonianze e di indagini che le sono stati gentilmente recapitati dalla mia ex infermiera, ricorderà tanti nomi. Quei nomi può trovarli nella lista dei nostri attuali pazienti”.

E così dicendo, ghigna. Avverto all’improvviso tutta la tensione della situazione, uscendo da quella strana sensazione di impotenza.

Quindi questo pazzo mi aveva fato vedere quell’uomo…?

“Le ho appunto fatto vedere Brown per mostrarle in anteprima quello che le accadrà. Ora così ha già un’idea ben precisa di come si ridurrà, anche se credo fermamente che per lei sarà molto peggio”. Do uno strattone deciso alla camicia di forza, che però mi contiene egregiamente.

“Le dico questo solo per rassicurarla, in un certo senso; quella che ora l’ha condannata ha messo nei guai tanti altri, tutta carne da macello. La signorina Stradford è una dama ricchissima e dalle grandi ambizioni, ha sacrificato molte persone. Persone come lei, mio caro ex agente, tutte di estrazione povera. Persone che non potevano difendersi dalla forza della sua saccoccia piena di denaro sonante, condannate per sempre all’infelicità” sospira, ora, teatralmente, “ma d’altronde cosa ci dobbiamo aspettare, da una donna che ha sacrificato il suo stesso padre, pur di riuscire a creare una forzatura nella nostra clinica, e riuscire così a ficcanasare?”

Sussulto.

“Suo… padre…?”. Ma che cazzo sta dicendo, questo? Qui siamo proprio fuori di testa. Morrow è un pazzo, un pallone gonfiato che non sa quello che dice.

Devo scappare da qui… devo…

“Suo padre, sì, quell’onorevole senatore per cui sta combattendo tanto. Crede che un personaggio illustre e ricco sfondato fosse destinato a questo umile posto, nonostante avesse avuto una crisi di nervi considerevole e improvvisa? E, soprattutto, che questa improvvisa crisi sia frutto del caso? E, ancor più importante, perché è giunto qui così tanto frettolosamente?”

“Perché?” trovo il coraggio di chiedere, e per un solo istante mi dimentico di quel che sta per accadere. Non avverto più la spada di Damocle sul mio collo, tagliente e affilata, perché mi sento finalmente sulla pista giusta per scoprire tutto quello per cui ho combattuto, fino a meritarmi questa condanna. Fino a perdere tutto, dalla famiglia alla dignità.

“Perché sua figlia voleva che noi l’ammazzassimo non appena fossimo riusciti a scoprire quel che sapeva sul nostro conto” torna a ghignare il mio interlocutore, soddisfatto della mia domanda, “sua figlia d’altronde sogna di acquistare diverse industrie farmaceutiche strettamente legate alla nostra clinica. Questo le garantirebbe il monopolio di una buona parte del redditizio traffico mondiale dei farmaci. Per farci crollare ha lasciato che lo uccidessimo, così da fare la parte della giovane orfanella al cospetto dell’opinione pubblica, quella il cui padre è stato torturato prima di morire con un farmaco sperimentale in circolo nel sistema cardiovascolare. Senza contare il ricco patrimonio economico che, grazie al suo decesso, ha ereditato. E noi siamo stati gli unici ad averla accontentata…”.

“Perché l’avete ucciso, allora?” è il mio turno di chiedere. “Mi crede scemo anche lei, vero? La Stradford conta di farvi crollare diventando ancora più ricca e facendovi uccidere il padre, intessendo trame per riuscire a far svolgere una indagine pubblica per screditarvi e far crollare il sistema, per poi impossessarsene lei? Mi faccia il piacere”.

“L’abbiamo ucciso perché ci faceva piacere. A noi servono cavie umane e una vale l’altra. E… non mi ponga domande alle quali ho già risposto”.

Morrow batte la mano destra sulla scrivania e si scompone, come se si stesse per alzare in piedi.

“Se tutto questo è vero, vi distruggerà. In qualche modo, tutto il marcio che si nasconde nella vostra schifosa lotta emergerà”. Scrolla le spalle.

“Guardi, noi quell’anziano prima di ucciderlo l’abbiamo pure sottoposto a un breve ma efficace interrogatorio, per scoprire cosa e quanto sapeva, sia lui e sia la figlia. Siamo certi che, nonostante i soldi, la signorina non abbia i mezzi adeguati per scalfirci minimamente; per ogni amico importante che ha, noi ne abbiamo dieci ancora più influenti. Quindi potete mettervi tutti l’animo in pace, e d’altronde lei stessa non ha nobili intenti. E lei, carissimo paziente Barley, presto potrà riposare in pace”.

Do un altro strattone alla camicia di forza, che sembra di ferro.

“Non penso proprio” mormoro, con una risolutezza sorprendente.

“Be’, come meglio crede, però le dico già che la prima seduta della terapia appositamente studiata per il suo caso prevede un passaggio molto infido. Magari le farà bene, e starà molto meglio, ma forse potrà anche farle male!”

Cerco di alzarmi in piedi. Voglio fuggire, questo posto orribile è come l’inferno.

Morrow capisce le mie intenzioni e mi si avvicina, costringendomi a rimettermi seduto e composto con la forza. Proprio come l’avevo visto fare con Brown. Chissà se spintonerà anche me, tra poco…

“Paziente Barley, tra pochi minuti credo che sarà tutto finito. La sua coscienza sarà in pace” dice, candidamente, allungando poi un braccio per suonare il campanellino posizionato sulla scrivania; il segnale per l’infermiere.

“Vorrei solo che sapesse che lei in questo conflitto è l’unico innocente, in fondo, l’unica vittima del sistema; per questo ho ritenuto opportuno un ultimo atto di clemenza, raccontandole come stanno realmente le cose. Mi dispiace, davvero, mi dispiace” ferma con forza il mio ennesimo strattone, spingendomi contro la parete retrostante, “credevo fosse giusto spendere qualche parola per spiegarle la situazione e metterla in chiaro, immaginando la sua confusione”.

Smette di parlarmi appena l’infermiere nerboruto fa irruzione nello studio.

“Presto, portatelo nell’ambulatorio uno. Subito. Stendetelo sul lettino e fissatelo per bene, tra poco vi raggiungo con tutto l’occorrente” ordina poi perentorio anche all’altro personaggio in camice che si avventa su di me come un avvoltoio.

I due inservienti mi afferrano saldamente e mi spintonano, ormai in lacrime e impotente, verso quella che pare l’ultima parte del mio triste calvario.

 

Mi hanno saldamente legato mani e piedi, dopo che mi hanno tolto la camicia di forza. Mi hanno tagliato i vestiti con un cutter e poi me li hanno letteralmente strappati di dosso, lasciandomi solo con le mutande.

Per mettermi a tacere mi hanno infilato un aggeggio in bocca, sembra una palla di gomma, che mi soffoca se provo a lamentarmi.

Sono immobile e in silenzio, solo le lacrime a imbrattare il mio viso e a impiastricciare i miei poveri occhi.

Quando arriva Morrow, si sofferma ad appoggiare una siringa piena di liquido prima di avvicinarsi a me e di strapparmi l’oggetto dalla bocca.

Riprendo fiato, urlando.

Lui si china su di me e mi sferra un sonoro e doloroso ceffone.

“Gliel’ho detto, mi dispiace; per favore, stia calmo e non peggiori la situazione” dice, poi scambia giusto due rapide parole con un altro figuro a me ignoto, appena giunto nell’ambulatorio. “Questo è il dottor Mallox, ex primario di neurologia dell’ospedale pubblico di New York. Sarà lui a portare avanti questa prima, importante seduta”.

Mugugno e urlo di nuovo con tutta la forza che mi rimane, lui però non fa una piega.

“Arrivederci a mai più, ex agente speciale Barley” mi dice, prima di lasciare l’ambulatorio. Nel frattempo, l’omaccione avvicina al lettino un macchinario strano, sembra una radio, appoggiato su un tavolino con le ruote. A suo fianco, quelle che sembrano cuffie.

“L’elettroshock…” mugugno, atterrito.

Mallox indossa la mascherina chirurgica e non posso notare la sua espressione.

“Sì, certo” si limita ad affermare.

“Io… cazzo, mi liberi! Sa che… sono una vittima, io non posso…”.

Mi mette la cuffia sulle tempie, poi avverto la sua pressione sui due lobi opposti del cranio.

“Per questa seduta, per tranquillizzarla, vediamo di fare un piccolo intervento sui suoi neuroni e sul suo sistema nervoso” dice il medico senza nemmeno darmi un minimo d’ascolto.

“Per favore, mi liberi, cazzo! Non faccia una stronzata, mi avrà per sempre sulla coscienza…!”

“I miei studi sono più importanti della sua umile vita” sono sicuro che stia sorridendo, mentre mi dice questo, “non mi è mai stato concesso fino ad ora di portarli avanti. Pensi positivo; i risultati di questo intervento le permetteranno di essere un esempio e i suoi sviluppi saranno utili per la medicina mondiale; aiuteranno a breve tante persone pazze come lei”.

Ok, anche questo è totalmente fuori. Sudo freddo, urlo, strepito, prego, piango; niente spezza la follia di questi uomini che ormai mi hanno condannato.

Entrambi gli infermieri si affacciano su di me e riempiono il mio campo visivo, mentre quello che mi ha accolto mi inietta qualcosa nel sangue, pungendomi nell’avambraccio destro.

“Presto il suo cervello le darà pace. Avverte ancora tutta quella confusione, provocata dalla realtà che la sua mente distorce?” mi chiede.

“Non sono pazzo!” grido.

Di fronte al mio ennesimo urlo, stringe gli strumenti attorno al mio cranio e si prepara alla prima scossa, costringendomi a mordere l’aggeggio utile a evitare la perdita della lingua. L’ultima cosa che vedo è il bianco accecante delle pareti di questo laboratorio, dove tutto è diabolico.

La scossa giunge repentina, mi getta all’improvviso nel buio più completo, poi… mi spengo, semplicemente. Per sempre.

 

Che fine del cazzo, vero? Povero James Barley. Certo che avrei anche potuto dargli un lieto fine, però immaginando ora questa trama non avrei potuto fare molto di meglio.

Nemmeno il mio James era innocente, poiché si è fidato troppo, e nella vita non bisogna mai fidarsi di nessuno. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio, recita un famigerato detto popolare.

Nel frattempo cammino nel buio della campagna, la gente dorme ed io sono fuggito di soppiatto di casa, come se fossi ancora un adolescente in preda a chissà quale crisi ormonale. L’ultimo sogno ha distrutto il mio morale e questa vita monotona mi ha sfinito, spero che tutto si concluda in fretta.

Alla fine giungo al mio obiettivo con il sudore che già cola lungo la mia schiena, nonostante sia notte e sia aprile fa già abbastanza caldo. Le rotaie della ferrovia sembrano attendermi.

Questa è la mia ultima scelta, quella finale.

Mi sono rotto il cazzo di tutto e di tutti, ormai pure le storie che immagino finiscono di merda. Tanto vale che anche io faccia la stessa fine.

Mi accoccolo tra i binari con gli occhi che mi bruciano dalla stanchezza e dal sonno, stremato e senza più forze fisiche e mentali.

 

Ehi… ma cosa sto facendo?!

Mi riprendo dopo un po’, non so quanto. Sono ancora in mezzo a quei binari. Nessun treno è passato, niente di niente, mi avvolge solo il silenzio della notte.

Probabilmente, e per fortuna, il coronavirus ha fermato tutto il traffico notturno.

Mi rialzo da terra e passo le mani lungo il mio pigiama, con il corpo intirizzito e dolorante. È ora di tornare a casa.

Penso all’improvviso ai miei genitori, non sapendo se si sono accorti o meno della mia fuga. Ai miei animali, alle mie piante che a casa attendono solo me. Stavo facendo una cazzata perché un coglione non mi fila nemmeno di un soffio!

Realizzo come stavo per buttare a puttane tutta la mia giovane vita per la più grande stronzata del mondo. Non me la prendo molto con me stesso in realtà, sono troppo stanco e provato mentalmente per farlo, tuttavia riprendo la mia marcia verso casa con uno sguardo diverso rivolto alla realtà. Ho tutto e non mi manca niente, arriverà anche il resto. G non è niente per me ed io non sono niente per lui; ci compensiamo, quindi.

Ho delle priorità e dei sogni e non saranno il mio egoismo infantile o il virus a portarmeli via. La mia vita… è unica.

Unica.

Un unico, importante, prezioso dono che va oltre tutto quello che posso ricevere dal prossimo, perché non posso pretendere di essere amato da altri quando io stesso non mi rispetto e mi umilio fino ad avere incubi e  pensare al suicidio.

Mentre cammino verso casa, solo nel bel mezzo di un grande campo di foraggio appena tagliato, avverto il primo e tenue canto dei grilli e delle raganelle, con la mente che non si ferma più, fino a comprendere come questo, proprio questo qui, sia per me un nuovo punto d’inizio.

So che quando ho iniziato a narrare queste stronzate ho pensato e immortalato le medesime parole, ma questa volta davvero, ho capito. Ho appreso la lezione.

Da domattina, giuro, sarò un Alex migliore.

Appena rientro in casa, ritrovo i miei genitori in piedi in cucina, con la luce accesa.

“Oddio, Alex, cosa hai combinato?! Dove sei stato?” domanda subito mia madre, in apprensione. Anche mio padre lo è.

“Avevo solo bisogno di un po’ di aria fresca” rispondo.

I loro sguardi interrogativi e turbati non si distolgono da me, almeno fin quando non abbraccio prima mamma e poi il babbo. Non l’ho mai fatto prima d’ora. Tra noi, solo freddezza e distanza.

Ma, ora, tutto cambia. Lo so, è una notte importante, e Jovanotti di certo ci canterebbe sopra E’ la notte dei desideri

Domani chiamerò ancora mio padre con il soprannome di dinosauro, e tornerò distante da mia madre. Forse no. Forse sì. Ma di certo avrò una certezza, ovvero quella di saper apprezzare quel che la vita mi ha dato; ho i miei genitori qui, nonostante i loro mille e più difetti, e tanto affetto, soprattutto da riservare a me stesso.

Ancora tanto mi attende da vivere e G sarà presto un ricordo, perché verrà un giorno in cui mi innamorerò e sarò ricambiato con un calore vero, esemplare… e quel giorno vorrò viverlo, perché quello sarà il mio giorno.

Niente e nessuno potrà portarmelo via, nemmeno me stesso o le mie paranoie.

Lotterò per questo. Fino in fondo.

 

 

   
 
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