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Autore: JohnHWatsonxx    05/06/2021    0 recensioni
Raccolta di one-shots Johnlock in cui ogni capitolo è ispirato da una canzone dell'album 'Plus' di Ed Sheeran
1. The A Team -Post!Reichenbach
2. Drunk -Uni!lock
3. U.N.I. -Uni!lock
4. Grade 8 -post quarta stagione, What If?
5. Wake Me Up -Soulmate!AU
6. Small Bump -What If 3x3 pre-slash (Tw: aborto)
7. This -post quarta stagione
8. The City -Post!Reichenbach
9. Lego House -kid!lock AU
10. You Need Me, I don't Need You -Retirement!lock
11. Kiss Me -post quarta stagione
12. Give Me Love -Post!Reichenbach
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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This.

L’effetto farfalla, ricordava John, era la locuzione della teoria del caos secondo cui da piccoli eventi si generano conseguenze disastrose. Come se una farfalla sbattesse le ali in Costa Rica e una tempesta di sabbia di abbattesse nel Nord Africa.

Non l’aveva mai capita, quella teoria, perché non riusciva ad immaginare come una cosa talmente insignificante potesse causare così tanto oltre la sua portata. E per anni, ogni volta che si imbatteva in documentari e forum che ne parlavano non riusciva ad andare oltre, e a vedere che, a volte, è possibile.

Ci pensava anche in quel momento, mentre leggeva il suo giornale quotidiano, sulla sua poltrona, mentre Rosie si divertiva a lanciare i suoi cubi di legno tra le gambe di uno Sherlock assorto nel tweettare qualcosa riguardo la cenere o il tabacco.

Era tranquillità, quella che si percepiva nel salotto del 221b di Baker Street? Si, e John adorava ciò che erano diventati, gli sforzi per arrivare fin lì e la pace, loro premio sempiterno. Ma allo stesso tempo pensava a cosa potesse rovinare la loro vita: fino a quel momento c’erano state solo grandi difficoltà, grandi draghi da ammazzare e grandi morti da subire. Niente di insignificante che potesse ostacolarli. Tutto andava alla grande, e John accantonò l’effetto farfalla nella sua mente.

*

Ci pensò qualche giorno dopo, alla teoria, quando Sherlock fece incastrare un’unghia del suo esperimento nella porta del microonde e furono costretti a buttarlo. Ma anche lì, piccola cosa per piccola conseguenza. Non era esploso l’appartamento, nessuno dei tre si era fatto male.

Sherlock si limitò ad alzare le spalle e a sorridergli, decidendo di spostare il suo laboratorio al 221c, con l’approvazione della signora Hudson, che non vedeva l’ora di vedere quella cucina pulita e fuori da ogni pericolo per la piccola Rosie.

L’effetto farfalla si stava rivelando una cosa inutile.

*

Quando ci ripensò, per la terza volta in quella settimana, dovette ricredersi. In effetti qualcosa, qualsiasi cosa, poteva trasformarsi in un elefante nella stanza, talmente enorme da non far passare l’aria, o le emozioni, o qualsiasi sensazione.

Erano appena tornati a casa dopo aver risolto un omicidio, uno di quelli passionali che Sherlock prende in carico quando è annoiato. Si erano fatti una bella corsa per bloccare l’omicida, un uomo di quarant’anni lievemente sovrappeso che aveva ucciso la moglie che lo tradiva. Non era stato difficile fino a quando lui non aveva tirato fuori una pistola e, sempre correndo, la puntò verso di loro e sparò alla cieca.

In quel momento Sherlock si buttò a terra, inciampando su un pezzo di ferro che non aveva visto e –Dio- John aveva pensato davvero di averlo perso. Quell’attimo, tra lo sparo e il detective che tornava ad alzarsi, al dottore parve un’eternità. I pensieri gli si affollarono uno dopo l’altro nella testa, primo tra tutti “no, non di nuovo, non adesso” e poi ancora si chiese come avrebbe fatto, a guardare la sua bambina e vederla piangere perché il suo zio preferito non sarebbe più tornato a casa.

Ma poi Sherlock, per fortuna, si era alzato, sgrullandosi i pantaloni, ignorante sui pensieri che avevano attraversato la mente del suo collega, e avevano ripreso a rincorrere l’uomo, trovandolo poco dopo appoggiato a una parte, troppo stanco per continuare a correre.

Salirono le scale in silenzio, prima Sherlock, poi John, che si era visto costretto a riprendere in mano le redini della sua mente prima di avere il coraggio di seguire il suo amico di sopra. La signora Hudson si stava occupando di Rosie e le sentiva ridere dall’atrio, quindi le lasciò continuare, preferendo salire al suo appartamento e sedersi sulla sua poltrona.
Quando entrò, poco dopo Sherlock, trovò quest’ultimo in piedi, che lo fissava col suo sguardo indagatore.

“C’è qualcosa che ti turba?” provò a chiedere, anche se John sapeva che era un’affermazione. Non gli si poteva nascondere niente a quel genio, e questo poteva essere visto come una condanna, o una benedizione. I segreti rovinavano i rapporti, era convinto John.

Annuì. “Quando quell’uomo ha sparato, tu sei inciampato e sei caduto. E io ho pensato –cavolo, è morto davvero- perché non avevo visto niente, e tu eri a terra dopo che quello ci aveva puntato l’arma contro. Ed io- sono andato in panico. E quando ti sei alzato è stato come rivederti, in quel ristorante”

Sherlock continuò a guardarlo, confuso. “Ma il proiettile era almeno a tre metri da me, John” asserì.

“Lo so, è stato irrazionale, io non avevo visto niente” si lamentò il più basso, muovendo freneticamente le mani, strofinandole sulla sua camicia ormai stropicciata.

Era stato un pensiero che lo aveva annegato nei ricordi peggiori, quelli in cui tutte le volte Sherlock ha rischiato la vita (o è morto) davanti a lui o per lui. L’episodio della piscina, il maledetto tetto del Bart’s, l’ufficio di Magnussen, l’ospedale di Culverton Smith: posti vuoti, all’apparenza normali, ma con una storia dietro, dei trascorsi da fargli rizzare i peli sulle braccia. John era provato ed ogni volta –ogni maledettissima volta- che Sherlock rischiava anche solo di farsi un graffio, lui aveva paura: di perderlo, di non poter avere una seconda possibilità, di vedere andare via anche lui.

E fu la paura a fargli muovere un impercettibile passo avanti quando Sherlock si prese gioco della sua ansia.

“Suvvia John, non essere ridicolo”

E lo aveva fatto, aveva strusciato il mocassino sul pavimento, pronto ad avvicinarsi al suo migliore amico. E fare cosa, picchiarlo, ancora? Sono cose che farebbero gli amici?
No, John voleva solo… far capire, pensava, quanto il solo pensiero di vederlo morto fosse troppo caldo, troppo recente. Non aveva intenzione, non lo aveva più fatto, mai più da quando erano usciti da quell’obitorio. E non c’erano stati problemi tra oro, in quegli otto mesi: si toccavano, si stringevano la mano, si abbracciavano, addirittura. Non ci dovevano essere problemi.

Eppure.

Eccolo lì, il battito d’ali d’una farfalla. Perché quando John si era mosso in avanti Sherlock, semplicemente, era scattato all’indietro, chiudendo per un attimo gli occhi. E John aveva spalancato i suoi, perché un conto era avere paura della morte, un conto era avere paura di lui.

Il dottore si tirò indietro lentamente, mentre Sherlock, gli occhi ora aperti, ma chini verso il pavimento, tornava a rilassare le spalle, avvertendo la mancanza di un pericolo.

“Tu –provò a parlare John, ritrovandosi all’improvviso con la gola secca- hai paura –provò a deglutire, senza riuscirci- hai paura… di me?” esalò alla fine, completamente svuotato.

Sherlock non sapeva come rispondere: non aveva paura di John, era la persona di cui si fidava di più al mondo, ma non poteva neppure negare che quel movimento brusco di John gli fosse stato indifferente. Forse era solo una scottatura, ma non poteva avere paura di lui, no, non era scritto nel suo DNA.

“È stato un riflesso, mi dispiace” decise infine di dire, trovando il coraggio di guardarlo in faccia.

Aveva gli occhi rossi, le labbra strette e le sopracciglia curve, a creargli strane ombre sul viso che il detective non aveva mai visto.

“No, Sherlock, non sei tu quello che deve scusarsi. Sono stato un terribile amico, forse lo sono ancora” ribatté il medico. Ma c’era altro. La mente di John non riuscì a fermare quel treno di pensieri.
“Non- non lo sono, Sherlock. Non sono la persona che Mary pensava che io fossi, e non lo diventerò mai. Io ti ho fatto cose terribili, ti ho trattato come non viene trattato neanche il peggiore dei criminali e sei il mio fottutissimo migliore amico, cazzo. E se un giorno trattassi Rosie come ho fatto con te? Mia figlia-“

“No John, no” lo interruppe il detective, avvicinandosi. “Non pensarlo. Sei cambiato, sei diverso, sei sempre stato il migliore tra i due. Mi hai salvato, quel giorno, non ti ricordi come sono andate le cose? Culverton mi stava uccidendo, e tu sei entrato e mi hai salvato la vita, come hai sempre fatto”

Sherlock lo abbracciò, perché ora non aveva più paura di farlo, perché da quel giorno, il contatto con John era la cosa più bella che potesse avere, un qualcosa di talmente prezioso e bello e unico nel suo genere da togliere il respiro a Sherlock come un qualunque essere umano lo farebbe davanti ad un’opera d’arte.

“Tu hai paura di me” asserì di nuovo il dottore, soffiando sulla camicia del consulente, senza ricambiare l’abbraccio.

“Se, come dici tu, ho paura di te, perché ti sto abbracciando?” chiese il più alto, accarezzando i capelli dell’altro.
Vedere John così fragile come non lo era mai stato prima della morte di Mary gli faceva male ma allo stesso tempo bene. Era la parte del suo migliore amico che più preferiva, esattamente come John adorava lo Sherlock che giocava con Rosie.
“Se ho paura di te perché vivo con te? Perché accudisco tua figlia con te? Pranziamo insieme, lavoriamo insieme. È stato un riflesso, niente di cui preoccuparsi” continuò stringendoselo di più al petto.

E poi, la tempesta.

Nella mente di John si susseguirono tutti i momenti a partire da quel passo falso, le parole, i gesti, le premure l’uno dell’altro, che in cinque minuti lo portarono ad una realizzazione dalle dimensioni colossali. Il suo cuore, che batteva forte, veloce, all’unisono con quello di Sherlock, e le sue braccia attorno a lui, gli fecero pensare che quello era il suo posto. E, forse, l’unico modo per convincersi che Sherlock non aveva paura di lui, sarebbe stato avvicinarsi all’inverosimile.

Perché un passo falso e una farfalla, all’improvviso, fecero realizzare a John che era innamorato di Sherlock, perdutamente, irrimediabilmente.

Quindi alzò gli occhi per incrociare quelli dell’altro. Ed erano così belli, così trasparenti, e piccoli, e neri nonostante normalmente fossero grigi. E John pensò che fosse la cosa più naturale del mondo, utilizzare gli stessi mocassini che avevano fatto del male a Sherlock, per alzarsi sulle punte, come mai aveva fatto con nessuna, e stampare un breve bacio sulle sue labbra, e il detective non si era allontanato, non aveva avuto nessun riflesso, nessuna traccia di paura.

Questo.*

John si leccò le labbra per saggiare il sapore delizioso di Sherlock su di sé. “E’ vero, forse non hai paura” sussurrò, chiudendo gli occhi ancora rossi, che cercavano di non piangere.
Sherlock si incantò nel guardare da così vicino il viso di John, e nello scoprire nuove imperfezioni e nuove rughe e nuove pieghe e nuove perfezioni.

Non riuscì a trattenere un sorriso quando parlò. “Mi butterei da tutti i palazzi di Londra solo per cadere tra le tue braccia*” e poi non si trattenne e lo coinvolse in un nuovo bacio, più lungo, più intenso, più bello.

Questo, pensò John, è l’inizio di qualcosa di meraviglioso*.


*Queste frasi sono tratte dalla canzone, quella di Sherlock è leggermente modificata.
"This is the start of something beautiful"
"And I'll throw it all away
And watch you fall into my arms again"



NdA. Questa è una storia piccina, esattamente come la canzone, una delle più belle dell'album secondo me, perchè è semplice e mozzafiato allo stesso tempo. Spero di avervi trasmesso la stessa cosa
-A

 
   
 
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