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Autore: SkysCadet    12/06/2021    0 recensioni
La cittadina di Filadelfia sembra un borgo tranquillo, in cui la gente comune passa la giornata senza occuparsi degli strani avvenimenti che accadono da diverso tempo. Tuttavia, Simon si ritrova - suo malgrado - a combattere per la salvezza delle anime sfuggite al potere dei Lucifer. Tra questi c'è Joshua, un ragazzo con un dono particolare. Il giorno in cui Ariel - una matricola impulsiva dell'università di Filadelfia - lo incontra per la prima volta, capisce che in lui c'è qualcosa di diverso dagli altri ragazzi. Solo un nome sembra in grado di cambiare il corso degli avvenimenti, un nome che i Lucifer non possono nominare...
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Quando Ariel vide il cancello chiudersi alle spalle del ragazzo, una bruciante delusione le spezzò il respiro. Una delusione rivolta a se stessa, e a nessun altro. Mia madre ha ragione...

Una volta giunta a casa, chiuse la porta a chiave e, guardando la maniglia dorata, la fissò a lungo prima che la vista le si appannasse.

Che stupida! Si disse, salendo di corsa le scale.

Entrando in stanza, si sbottonò la camicia a fiori; inzuppata e ancora gocciolante se la tolse via, come a voler cacciare anche il ricordo di quella giornata.

Rimase senza maglia, provando un senso di gelo, che non era dovuto all'ambiente umido dell'appartamento e al suo stato. Alzò la serranda, e, guardando oltre il balcone, si ricordò di essere sua dirimpettaia. Cosa farai di così importante? Farai lo studente modello?

Sì, aveva individuato anche la sua finestra. Lo vide chiaramente mentre entrava nella stanza a petto nudo, in quella che doveva essere la stanza da letto. Il gelo si sciolse, sotto il calore di quel che avrebbe voluto continuare a vedere, ma che evitò, non appena intuì che il ragazzo stava per slacciare i jeans.

Lui sì, avrebbe voluto studiare per impegnare la mente in altri pensieri dopo una doccia calda. Per un tempo aveva dimenticato di essere a pochi passi da casa sua e quando prese consapevolezza che la sua finestra era in direzione della propria, si sentì osservato.

Nello stesso momento in cui Ariel si stava allontanando, Joshua alzò lo sguardo verso quella finestra, in cui più volte aveva scorto la figura della ragazza andare qua e là.

Si affrettò a prendere nuovamente la maglia per portarla al petto e coprirsi; si avvicinò di scatto alla sua tenda e con un rapido gesto coprì i vetri.

Sapeva che Ariel si era sicuramente accorta del suo repentino cambio di comportamento, ma non avrebbe mai saputo quel che Joshua aveva provato in quel breve lasso di tempo. Lui aveva rivolto lo sguardo a un insignificante rigagnolo d'acqua ai suoi piedi solo per non fissare il corpo di quella ragazza diventato ben visibile a causa di inevitabili trasparenze provocate da quella pioggia improvvisa. Nemmeno un ragazzo normale sarebbe rimasto indifferente.

Stupida camicia a fiori!

Esclamò tra sé, prima di dirigersi in bagno.

Dopo la doccia, si sistemò nella scrivania, con un toast al prosciutto al lato del libro di Diritto Romano e il telefono lontano dalla sua portata. Sfogliò le prime pagine e fece di tutto per concentrarsi sulle origini del diritto privato nell'antica Roma.

«"Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente, non danneggiare nessuno, dare a ciascuno il suo."» se lo ripeté un paio di volte ad alta voce prima di chiudere in uno scatto il libro dalla copertina rossa. Non ci riusciva, ci pensava. Come un tarlo che rode la mente, sentiva di aver perso un'occasione.

Poi- quasi agissero su di lui due nature differenti e in contrasto tra loro - si sentì in colpa, anche solo per aver avuto dei pensieri striscianti nei confronti di Ariel. Non che se la immaginasse accanto in un prossimo futuro: arrogante, sfacciata, vulnerabile, facilmente influenzabile, ma tanto fragile...

No, Joshua. No.

Ariel era insicura e bisognosa di protezione.

***

«Pronto, Joshua?»

«Sì, Padre, sono io. Ti disturbo?»

Decise di fare come Simon gli aveva sempre consigliato: chiamarlo per qualsiasi dubbio o necessità.

«No, figliolo, dimmi, ti sento preoccupato...»

Massaggiandosi la fronte con le dita, iniziò, chiudendo gli occhi stanchi: «Beh, giorni duri, Padre. Lucia ti ha detto qualcosa?»

«Tu lo sai che Lucia mi dice tutto.»

Joshua si morse il labbro inferiore, prima di avanzare quella domanda.

«Anche di Ariel e Acab?» Dal telefono non si udì suono, mentre il ragazzo, passandosi una mano tra i capelli si gettò con la schiena indietro, sprofondando nel materasso. «Certo che lo sai. È che mi sento in difficoltà in questo momento...»

«Lo sento, ragazzo mio. È normale.»

Joshua scattò seduto, facendo molleggiare il letto sotto di sé, mentre sul suo volto si disegnava un sorriso nervoso.

«Cosa è normale?» domandò, con voce acuta.

«E' normale avere dei dubbi. Il segreto è fare le scelte giuste, quelle che poi danno il corso alla nostra vita.»

Il ragazzo rimase in silenzio e, fissando un punto nel vuoto, serrò la mascella.

«Mi ha invitato a casa sua, Simon.» il tono utilizzato per pronunciare il suo nome fu come per avvertirlo di un imminente pericolo.

«Ecco cosa dovevi dirmi» un lungo sospiro e qualche istante di silenzio. «Ricordi l'episodio di Gesù, quando andò nella casa di quel fariseo e la prostituta gli lavò i piedi con le sue lacrime?»

«Sì, direi di sì.»

«Bene. Gesù era un uomo, come te e me.»

«Sì, ma...»

«Fammi finire. Non sta scritto che "Lui ebbe tutte le tentazioni ma in nessuna cadde"

Dal telefono di padre Simon si udì solo un colpo di tosse.

«Vai Joshua. Lei ha bisogno di salvezza, ha bisogno di essere amata, non come intende lei, ma come intendi tu. Ci siamo capiti, ragazzo mio?»

«Sì.»

«E...Joshua?»

«Sì?»

«Cosa disse Gesù di quella donna?»

Joshua fissò lo sguardo alla finestra di Ariel, da cui si vedevano le intermittenti luci bluastre di chi stava guardando la TV, mentre nel suo cuore tornava chiara la frase di Gesù Cristo: «"I suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato"» sospirò profondamente.

«Vai in pace Joshua, e compi la tua prima missione.»

Joshua chiuse la chiamata, lasciandosi cadere nuovamente nel letto, con il braccio che gli copriva gli occhi.

Si erano fatte le sette di sera. Ariel frugava in un sacchetto di patatine adagiate sul comodino di lato al letto, mentre guardava la TV, o -sarebbe meglio dire- tentava di trovare qualcosa di interessante da guardare.

Era con la schiena al muro, dietro i suoi occhiali riposanti, vestita del suo pigiama di pile grigio. L'umidità presa il pomeriggio l'aveva infreddolita a tal punto da sentire la necessità di un calore che la avvolgesse completamente. L'aria di ottobre, a Filadelfia, faceva questo effetto: a mezzogiorno, il calore poteva essere così intenso da dover camminare indossando indumenti a maniche corte; la sera, la temperatura calava vertiginosamente, entrando nelle ossa con l'impetuosità dell'aria marina.

Anche se lei non amava particolarmente l'autunno e l'inverno, quella sensazione di essere accoccolata alla morbidezza di un capo caldo la rassicurava.

Con aria annoiata, premeva convulsamente i tasti del telecomando quando i suoi occhi furono attratti dall'immagine di un uomo che, visto di spalle, riceveva frustate da un uomo romano; qualcuno contava il numero di volte che si sentiva lo schiocco del laccio.

Ad Ariel gli si bloccò un boccone in gola e con qualche colpo di tosse, si avvicinò allo schermo carponi, mentre una voce fuori campo dava delle spiegazioni storiche a riguardo.

"Come sappiamo, nel cristianesimo c'è l'effetto della numerologia. Il numero delle frustate, gli anni di Cristo e gli anni in cui Cristo ha operato con i discepoli. Non bisogna tralasciare nessuno dei significati nascosti nelle parole usate, non solo da Cristo, ma anche dai suoi seguaci. Altra caratteristica fondamentale è il significato di alcuni numeri che si ripetono frequentemente, come il numero sette..."

Ariel non capiva perché parte del suo sogno fosse all'interno di un programma televisivo, ma quando lo storico nominò il numero sette, nella mente di Ariel comparve come un flash il numero civico della casa di Joshua.

Il numero sette...

Una coincidenza, solo una coincidenza, Ariel.

A quella vista si era diretta verso la cucina a pian terreno.

Mentre ingurgitava avidamente l'acqua dal suo bicchiere di vetro, pensò a quell'immagine che ormai le appariva sfocata nei ricordi: un uomo insanguinato dalle troppe frustate.

Posò il bicchiere sul marmo della cucina e si ritrovò a fissare un punto imprecisato del vuoto in cui le stavano balenando in mente gli ultimi avvenimenti dovuti alla conoscenza di Joshua.

Quel nome le richiamava emozioni così contrastanti che dovette fare un'associazione di pensieri:

Un nome con due volti: un misterioso e alquanto attraente ragazzo dell'università e un uomo di spalle ferito a morte. Il primo era reale, il secondo solo un sogno che la turbava ancora a distanza di parecchie ore.

D'un tratto, si accorse che la televisione in camera faceva ancora sentire le sue voci indistinte.

Appena arrivò sull'uscio della camera si mise a cercare con lo sguardo il telecomando. Lo intravide tra le coperte di pile, e con un balzo saltò sul materasso ma, prima di spegnerla vide allo schermo una donna che, fissando intensamente la telecamera, con voce melliflua, diceva: «Apri la porta a Gesù Cristo, poiché Egli sta bussando alla tua porta»

«Seh, vabbè!» esclamò, prima di vedere solo il nero dello schermo piatto.

La ragazza premette il bottone rosso del telecomando e dopo un profondo sospiro, con ancora il telecomando in mano si rimproverò: «Ma che razza di canale stavo guardando?»

Ariel non credeva affatto a quelle che nel tempo aveva imparato a definire 'sciocchezze religiose', ma non appena udì dei colpi provenire dalla porta di casa, sentì un bruciante colpo all'altezza dello stomaco. «Gesù Cristo sta bussando alla porta, eh?» alzò il occhi al cielo con un sorriso nervoso, quasi a rivolgere i suoi pensieri al Creatore. «Sei molto divertente»

Lentamente e in punta di piedi si avvicinò alla porta, mentre un paio di colpi sembravano essere più sonori dei precedenti.

Si guardò distrattamente allo specchio posto all'entrata e non si piacque per niente: insomma, non aspettava nessuno, ma le sembrò decisamente meglio aggiustarsi dei ciuffi ribelli che fuoriuscivano dallo chignon.

Beh, a chi importa se una ventenne, da sola in casa, indossa un largo pigiama in pile? Si chiese, guardando il suo riflesso. Poco male, farò allontanare qualunque malintenzionato! Si convinse.

Girò le chiavi ancora inserite nella serratura, e, quando aprì la porta, sobbalzò, emettendo un lieve urlo di sorpresa: «Gesù!»

«Sì, tecnicamente, mi chiamo Gesù. Pensavo stessi dormendo, ti ho disturbata?»

Joshua era di fronte alla porta e la guardava con un sorriso che formava una fossetta sulla guancia e le mani nelle tasche della giacca di jeans. La stessa che aveva indossato il giorno del salvataggio sul bus.

Lo sguardo stranito di Ariel lasciò il posto a un lieve rossore sulle gote.

«Si, beh, avevi detto che non saresti venuto perciò... Non aspettavo nessuno.» commentò con voce bassa, spalancando e la porta facendogli cenno col braccio di entrare. «A parte Gesù Cristo...» concluse.

«Cosa?» domandò lui , con un largo sorriso.

Aveva avuto l'impressione che Quel Nome fosse stato ripetuto più spesso del solito e questo lo intrigava parecchio.

«Niente, niente.» cercò di mascherare la sua figura impacciata in un tono acuto, avendo capito di aver lasciato sfuggire quel pensiero sarcastico dalla mente alle labbra.

Ariel, senza nemmeno ricordarsi di fargli togliere la giacca, accennando a minimi gesti di galateo, scomparve dietro l'isola della sua cucina posta poco dopo l'ingresso. Prese il bollitore pieno d'acqua e lo posizionò sul fuoco del fornello. Intanto Joshua si era diretto nel soggiorno da cui si accedeva grazie a un open space, subito alla sinistra dell'entrata. Si guardò intorno, mentre di tanto in tanto arrivavano alle sue orecchie i rumori di stoviglie adagiate in malo modo su una superficie di marmo. Così decise di far capolino nella cucina. «Penso che il primo regalo da farti sarebbero delle tazze di plastica.»

Ariel sobbalzò a vederlo lì, oltre l'isola fatta di armadietti bassi. «Ah, beh, grazie, ma mi trovo meglio con le stoviglie di ceramica e vetro.»

«Dovresti pensarci, invece. Vista la tua statura è pericoloso maneggiare questo genere di oggetti sulla punta dei piedi.»

Lei, che stava proprio cercando di prendere un vassoio posto in alto, alzata sulle punte, si sentì punta nell'orgoglio e, quando si girò con un sopracciglio inarcato e braccia incrociate, venne colpita al naso da una mandorla lanciata dal suo ospite.

Non seppe se essere più stupita o divertita. Joshua rise compiaciuto e, prendendo una manciata di quei frutti secchi, posti al centro del mobile in una ciotola, si diresse nel soggiorno, masticandone un paio.

Lo osservò percorrere l'ingresso e andare dritto verso la mensola della parete attrezzata in cui c'erano cd e vinili di ogni tipo. Lui si bloccò incuriosito da alcuni libri messi in posizione orizzontale e lo sentì sussurrare i titoli: «Uhm... I dolori del giovane Werther. Quanta sofferenza» commentò. «Romeo e Giulietta...Un classico. Non ami leggere» le disse vedendo che si avvicinava con il passo lento e gli occhi attenti a non far cadere le tazze dal vassoio che reggeva. «Sì, preferisco ascoltare musica. Ma questo l'avrai già notato da te, dato che ti piace curiosare.» Non che a Ariel dispiacesse quella bella presenza che ficcava il naso nei suoi piccoli tesori.

«E tu? Ami leggere?» gli chiese avvicinandosi.

«Sì!» La guardò, mettendo in bocca l'ultima mandorla. «Ho letto abbastanza.»

«Tipo?»

«Tipo Il Codice da VinciAngeli e Demoni...»

«Non l'avrei mai detto...» rifletté lei ad alta voce, mentre lui continuava a dare un'occhiata alla libreria.

«Aspetta. Ma...» Joshua prese un libricino con la copertina in pelle nera, grande quanto il palmo d'una mano. «Questa è la Bibbia della Chiesa di Smirne. Come fai ad averla?»

Lei inarcò un sopracciglio. «Non ricordavo di averla portata con me.» La prese dal suo palmo e la osservò, accarezzando con l'indice l'inserto color oro sulla copertina: una colomba ad ali spiegate sotto la scritta 'Bibbia di Smirne'. «E' un regalo.»

«Di chi?»

«E' una lunga storia e non mi va di parlarne» concluse con gli occhi lucidi prima di posare il libro sulla mensola sopra la tv.

Tirò su col naso al ricordo del padre che gliela donava il primo giorno che Ariel avrebbe dovuto partecipare alla sua prima lezione teologica.

«Che sbadata! Accomodati.»

Quel particolare aveva smosso dei dubbi nel cuore di Joshua, ma cercò di non darvi troppo peso.

Si accomodò nell'angolo del divano a tre posti, ricoperto di un tessuto grigio e morbido, posto nella parete di fronte ad una grande TV, a cui lati si scorgevano i dischi e i libri osservati poco prima.

La sala aveva una luce soffusa proveniente da un abat jour posta sul tavolino di legno al centro della stanza. Era un luogo che, comunque, gli trasmetteva calore e tranquillità, a differenza di ciò che gli suggeriva il suo l'animo irrequieto.

***

«Quindi l'avresti fatto anche per un uomo, un cane, o una donna barbuta...» rise Ariel.

I due avevano iniziato la conversazione sorseggiando dalle tazze fumanti. Ariel si era rannicchiata nell'angolo con le ginocchia strette al petto, quasi a nascondere la sua figura impacciata.

«Sì.»

Rispose lui, dopo averla guardata oltre il fumo che evaporava e sapeva di limone, disteso e appoggiato col gomito sulla spalliera del divano.

«Beh, wow!» esclamò inarcando un sopracciglio e posando la tazza di vetro sul tavolo di legno, stringendo le braccia al petto. Lui capì dove voleva andare a parare.

«Mi dispiace deludere le tue aspettative su di me, ma si dia il caso che io non sia come gli altri ragazzi di questo mondo».

Il giovane si era sporto verso la sua direzione, guardandola con un'espressione astuta.

«Ah beh, che tu non sia tanto normale ormai è acclarato, ma non pensavo fossi di un altro pianeta.» Ariel si avvicinò al suo viso socchiudendo gli occhi per continuare con tono sarcastico: «Quindi, chi sei? Superman?»

«Sì, brava! Continua a fare del sarcasmo.» commentò lui, ritornando al suo angolo dopo aver posato la tazza sul mobile.

«No, dai, non te la prendere! Ma, a meno che tu non sia Gesù Cristo...» iniziò, lasciando andare le parole proprio come un fluire di pensieri che sfuggivano al suo controllo, rimodulando il tono di voce pacato. «Io, di te, non ho proprio capito nulla; l'unica certezza che ho è che sei sempre lì, pronto a salvarmi. Mi hai detto che vivevi nella Chiesa di quel Pastore... Ma dove sono i tuoi?»

«Non sono più qui.» Le rispose con occhi vacui e il volto rivolto al tappeto posto sotto il tavolo di legno scuro, prendendo a giocherellare nervosamente con la sua collana d'argento.

«Andiamo!» esclamò lei, nonostante il ragazzo apparisse abbastanza provato. «Forse ho capito: tuo padre è Dio e tu sei stato concepito per opera dello Spirito Santo!» scherzò, sperando di fargli comparire una risata.

Non sapeva come mai volesse capirne di più sul suo conto facendo quelle battute sentite e risentite a scuola. Sapeva solo che voleva colpirlo al centro del cuore per vedere fino a che punto, un ragazzo come lui, fosse capace di mentire.

«Beh, se ti fa sentire meglio, i miei genitori sono morti in un incidente. Contenta?»

Joshua iniziò a sentire la rabbia bruciargli lo sterno, mentre le labbra si stringevano delineando una linea sottilissima sul suo volto spigoloso.

La ragazza venne avvolta da un gelo che le colpì il petto fino al punto di comprendere che anche il suo respiro avrebbe potuto ferirlo.

Però, ancora una volta, voleva conoscere il motivo di una fede così irrazionale e non si sarebbe fermata nel suo fiume di parole fino a quando non si sarebbe sentita soddisfatta.

«E allora perché...» iniziò, avvicinandosi a lui, a sfiorare il suo ginocchio. «Spiegami: perché dovresti credere in Dio?»

«Perché tutta la vita non ho fatto altro che incolparlo di tutto quello che mi è successo». Gli occhi lucidi di Joshua fecero sparire in Ariel quel velo di superiorità che l'aveva spinta a porre quella domanda: era sincero e lo dimostrava ogni fibra tesa del suo corpo. «Per troppo tempo Gli ho sputato in faccia tutto il mio dolore. E mentre mi stavo autodistruggendo, Lui...» la commozione di Joshua la ferì come un dardo, inondandola del forte desiderio di abbracciarlo, ma resistette contro ogni sua volontà. «Lui invece è venuto a cercarmi.»

«Hai visto Dio?»

La domanda di Ariel gli era stata rivolta come una pura e semplice curiosità intellettuale.

«Sì, nel volto di un uomo.»

Gli occhi verdi di Joshua la fissarono riuscendo a scorgere oltre quell'apparente gabbia la scintilla di chi vuole conoscere la verità.

«E chi era?»

«Padre Simon. Quello che Acab ha infangato in trenta secondi della sua misera esistenza.» Un lampo di nervosismo attraversò il verde intenso dei suoi occhi influenzando l'intensità della sua voce; così continuò: «Simon è stato mandato da Dio per salvarmi la vita e nessuno potrà togliermi questo convincimento.»

Ariel lo guardò sbarrando gli occhi: al fatto che il Pastore l'avesse salvato, avrebbe potuto crederci facilmente, ma che fosse stato mandato da Dio, le risultava piuttosto difficile da digerire.

«Sì, ma...» imperterrita «Perché Dio ha fatto morire i tuoi genitori?»

A quella domanda, Joshua sorrise abbassando il volto. Quando alzò lo sguardo si avvicinò ad Ariel e, prima di rispondere, la guardò dritta negli occhi. «Sarebbe stupido dare la colpa a Dio del fatto che mio padre fosse imbottito di ecstasy mentre era alla guida, non trovi?»

Rimase lì, a contatto con le sue gambe per studiare la sua reazione. Ariel, che sembrava aver perso tutta la reattività che l'aveva contraddistinta fino a quel momento, restò immobile come un cubetto di ghiaccio vicino al calore.

Quindi Joshua le rivelò:«Si era drogato e si drogava all'insaputa di mia madre.»

«Beh...» biascicò lei «In ogni caso, non mi si convince tanto facilmente.» La mente di Ariel non riusciva ad articolare risposte adatte vista la pericolosa vicinanza Joshua.

«Nessuno sta cercando di convincerti. Sei tu che mi hai chiesto di parlare. Io ti sto solo rispondendo.»

Joshua, invece, si sentiva libero di mostrare parti del suo carattere che da diverso tempo non mostrava più a nessuno. Così, vista la vicinanza di Ariel, le prese tra le dita una ciocca di capelli e gliela sistemò dietro l'orecchio. Guardarla arrossire lo destabilizzò.

Così si allontanò da lei, poggiando le spalle nell'angolo del divano. Si era perso in quegli occhi profondi e grandi, inalando un profumo di vaniglia e sandalo che gli suggerì azioni di cui si sarebbe pentito.

«Diciamo che vedo il tuo Dio in maniera diversa, adesso.» Soggiunse lei, in un colpo di tosse, spostando gli occhi alle ginocchia.

«Beh! Credo che ne sarà entusiasta. E' venuto sulla terra per mostrare all'umanità cosa significa amare il prossimo; è stato frustrato trentanove volte ed è stato crocifisso ingiustamente; ti ha salvata sotto i tuoi occhi un paio di volte e ha mandato un suo fedele a salvarti la vita da un cane infernale che poi si è dissolto nel nulla. Ho detto tutto?»

«Adesso sei tu a prendermi in giro»

«No, assolutamente, dico sul serio. È un passo avanti. Ho messo dei dubbi ai tuoi dubbi.»

«E' che sono molto razionale...»

«Stai scherzando? Chiunque sarebbe rimasto tale dopo aver visto una belva diventare polvere in pochi secondi. Sono cose che capitano a tutti, no?»

«La smetti?»

«Sto solo dicendo, Ariel, che Dio ti vuole parlare, ma tu gli rispondi in maniera sarcastica. Che faresti se fosse lui a risponderti così?»

«Non capisco.»

«Segni, Ariel, non li hai visti? Ti ha dato un sogno e poi ti ha dato la prova che c'è qualcosa di più di quello che puoi vedere.»

La ragazza tentò di nascondersi dietro la sua corazza agnostica poggiando il mento sulle ginocchia.

Lui si considerava quel vento caldo che lei stava aspettando e avrebbe voluto dimostrarglielo, in qualche modo. «Ariel...» sussurrò poi, curvandosi verso il suo viso. Le sfiorò la guancia col dorso della mano e quel tocco le provocò scariche elettriche che veloci attraversarono gli arti fino a farle scalpitare il cuore.

L'ultima domanda che Joshua le aveva rivolto, l'aveva lasciata in un oblio di pensieri e vortici di considerazioni e quando lo vide intento a disegnare con lo sguardo i lineamenti del suo viso, in un primo momento, non capì, ma, un istante dopo, avvertì il desiderio di gustare quelle labbra che sembravano chiamarla. I loro respiri si mischiarono al sapore agrodolce di un bacio sfiorato e subito negato.

Lei si ritrovò a guardare l'angolo vuoto del divano con il cuore che chiedeva risposte battendo incontrollato contro la cassa toracica.

Si voltò verso la porta con gli occhi lucidi, guardando le spalle di Joshua già vicino alla porta. «Ariel...Io...»

La voce di Joshua era flebile, quasi un sussurro.

«Cosa sei, tu?»

Di nuovo quella domanda. «Sono solo un ragazzo che vuole aiutare le anime a capire ciò di cui hanno veramente bisogno.»

«E tu che ne sai di cosa io ho bisogno?»

Si liberò, quindi, delle lacrime che le riempivano le iridi brune, proprio quando il volto contrito di Joshua si rivolse verso di lei.

«Tu hai bisogno di essere amata, Ariel. Veramente. Non come pensi tu o come pensa la maggior parte delle persone nel mondo. L'amore non è solo quello che immaginiamo, l'amore è un donarsi continuo, come quell'atto dell'uomo che hai visto nel tuo sogno. Quando vorrai, io ci sarò per qualsiasi cosa. Ora devo andare.»

Ad ogni parola, Ariel aveva sentito il suo cuore riempirsi come dissetato da un'acqua mai provata prima; quando vide quella porta chiudersi lentamente le si dipinse un sorriso. Quello che le aveva detto aveva dato un significato alla sua azione così forte quanto salvifica.

Alla fine, era tutto vero: aveva bisogno dell'amore di un padre che l'aveva abbandonata e lasciata da sola nelle sue moltissime esperienze di amori fugaci che non andavano oltre il suo corpo.

Ma Joshua non l'aveva vissuta allo stesso modo. Si ritrovò nel pianerottolo a guardare la strada deserta senza riuscire a levare la schiena dalla porta di Ariel. Inalò l'umidità notturna di ottobre e sputò via l'aria dalle narici.

Si allontanò con sofferenza; le mani nelle tasche dei jeans, i denti stretti sul labbro inferiore.

Una volta sicuro di non essere visto da nessuno, sentì di sfogare il rimorso verso un palo della luce. Le nocche della mano iniziarono a sanguinare

Lui era carne, non era perfetto, non era quello Ariel pensava. Non era Gesù Cristo.

Era solo un ragazzo che avrebbe voluto baciare quelle labbra e, forse, andare poco oltre.

Lo aveva fermato l'altra natura, appunto, quella di Gesù Cristo, che risiedeva nel punto più puro del suo cuore. E, dentro di sé, sapeva che quella resistenza era anche dovuta alla fede incrollabile nella persona di Padre Simon che gli aveva insegnato a guardare una donna con il rispetto dovuto ad una madre.

Le donne, diceva Simon, non sono solo pelle; sono mente, cuore, prima di tutto.

E mentre saliva l'ultimo scalino prima di arrivare alla porta, nella mente gli risuonarono le parole del Padre, dette più volte alla platea della chiesa di Filadelfia: "Amati fratelli! Sì, dico proprio a voi! Mariti, fidanzati... Sta scritto che l'uomo deve amare la moglie come Gesù Cristo ha amato la Chiesa. E come l'amò? Lui ha dato la vita. Dunque, amatele come le ama Gesù Cristo: date la vita per loro ."

Mentre inseriva la chiave nella serratura, sorrise di sbieco, pensando che forse era proprio quello il motivo per cui Simon era così tanto odiato dalla Confraternita delle Sette Chiese.

Lui predicava in maniera diversa: parlava di un amore vero, quello che lui viveva ogni giorno, mentre i suoi confratelli si preoccupavano di impartire regole religiose.

Chiuse l'uscio dietro di sé. Si fasciò la ferita con dei tovaglioli e si diresse nel soggiorno, lasciandosi cadere sul divano. Avrebbe dormito sicuramente fino all'indomani.

Aveva scelto quella via e l'avrebbe percorsa, fino in fondo.

 

   
 
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