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Autore: Red_Coat    12/06/2021    1 recensioni
Questa è la storia di un soldato, un rinnegato da due mondi. È la storia del viaggio ultimo del pianeta verso la sua terra promessa.
Questa è la storia di quando Cloud Strife fu sconfitto, e vennero le tenebre. E il silenzio.
Genere: Angst, Guerra, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cloud Strife, Kadaj, Nuovo personaggio, Sephiroth
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'allievo di Sephiroth'
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(Voices - Tousse)
"Puoi sentire un milione di voci
che ti chiamano nella pioggia.
Tu sai che abbiamo un milione di scelte
quindi vai, esci, e lascia che piova
"

I boschi intorno al lago, il sole che faceva rifulgere il verde delle chiome degli alberi. Una corsa sfrenata per raggiungere la meta, suo padre che arrancava chiedendogli ridendo di fermarsi e lui bambino che esplodendo in altrettante risa gli rispondeva che non poteva, ch'era troppo eccitato all'idea della loro prossima avventura.
Era il momento più felice che ricordava di aver vissuto con suo padre, un momento di normalità prima dei tanti pieni di confusione, rabbia e paura.
E nonostante il tempo fosse passato e la morte li avesse divisi per sempre, continuava ad essere quello il ricordo più felice, quello a cui pensava ogni volta che il viso dell'uomo faceva capolino tra i ricordi. E anche adesso, nonostante lo stupore e lo sconcerto, mentre lacrime di dolore misto alla gioia di poterlo rivedere ancora una volta dopo l'incidente che aveva spento per sempre la sua vita in quel modo così doloroso e inaspettato, la tenerezza di quel ricordo inondò il suo cuore e per un attimo tornò ad essere quel bambino, scoppiando a singhiozzare come se gli avessero appena strappato il petto dal cuore.
 
«Papà ...» mormorò di nuovo, coprendosi la bocca con la mano nel vano tentativo di contenersi.
 
L'uomo gli sorrise, commosso e intenerito. Non parlò, lasciando che fosse suo figlio a farlo per primo. Del resto singhiozzava così forte che non ce l'avrebbe fatta a farsi ascoltare.
 
«I-io ...» bofonchiò in lacrime «Io come ...?» la frase si spense in un sussurro, aveva finito il fiato e dovette riprenderselo a forza di singhiozzi «T-tu ... perché sei qui?»
 
La domanda giusta in realtà era un'altra, ma non ci fu bisogno di chiarire.
 
«Sono sempre stato qui.» rispose «Qui, e dovunque avrei potuto trovare te o tua madre.» sorrise, poi aggiunse «Sapevo che non potevi vedermi, ma potevi sentirmi.»
«Ma ora posso!» sussurrò il più giovane «Io posso!» illuminandosi di una gioia che fece quasi tenerezza al suo vecchio genitore, ma che durò poco, almeno fino a quando l’istinto non lo spinse a chiedere «Com'è possibile che io...?»
«Per lo stesso motivo per cui hai potuto vedere Jim Parson.» fu la risposta.
 
E in un istante, giusto il tempo di realizzare cosa significassero quelle parole, tutto l'entusiasmo si spense facendolo ripiombare nella tristezza.
 
«No ...» mormorò, scuotendo il capo «Oh, no. Papà ...» fece mentre lo guardava annuire «Tu amavi questo pianeta. Lo hai sempre amato, non puoi ...»
«Ho amato di più te, Victor.» lo interruppe Yoshi Osaka, lasciandolo in silenzio ad ascoltare.
 
Lo vide tornare a sorridere come se non gl'importasse più nulla né del Pianeta, né di essere diventato uno spettro vagante.
Lui, che per Gaia avrebbe dato la vita.
 
«Non sai molto di me, del mio passato.» aggiunse quindi «Ma vedi ... la mia famiglia non era proprio una famiglia modello. Mio padre era un padre distante e assente, mia madre gestiva la casa e una volta cresciuto finì per non avere tempo per me.» sorrise «Loro ... non erano molto espansivi, anche se mi volevano bene. A volte ... mi sarebbe piaciuto avere qualche abbraccio in più, ma ...» scosse le spalle «Alla fine mi rassegnai, capii che non potevo fargliene una colpa. Ma mi ripromisi che se mai avessi avuto un figlio gli avrei dato tutto quello che sentivo mi fosse mancato da loro.»
 
Una lacrima comparve anche sul suo volto, mentre Victor restava in silenzio ad ascoltare suo padre che per la prima volta in vita sua si apriva come non aveva mai fatto prima d'ora con lui.
E mentre lo faceva, il suo pianto si calmò e lacrime nuove, più consapevoli, si affacciavano ai suoi occhi scivolandogli lentamente sulle guance.
 
«Io ... forse non sono stato il padre che volevi, ma ...»
«No.» stavolta fu lui ad interrompere, deciso «No ...» ribadì, aprendosi in un sorriso «Tu sei ... sei stato il padre migliore che io potessi sperare di avere. Sei stato ... il padre di cui avevo bisogno. Sono io che non ho saputo esserti grato abbastanza ...» le sue labbra tornarono a piegarsi in una smorfia di dolore «Io ... sono riuscito a capirlo solo quando ti ho perso.» concluse, in un soffio, e si sentì immediatamente ... vuoto, non seppe dire se in maniera positiva o no.
 
Quello che seppe, guardando il sorriso commosso di suo padre, fu che alla fine il momento tanto temuto era arrivato. Lo aveva lasciato andare.
Per tutta la vita avevano combattuto una guerra tra loro, ma per quanto quelle battaglie fossero potute essere tremendamente sfiancanti, avevano voluto dire che tenevano l'uno all'altro, e che non se ne sarebbero mai andati.
Anche quando Yoshi era morto, il ricordo di quelle battaglie aveva continuato a unirli. Ora invece ... all'improvviso, si ritrovarono a volersi perdonare, ma era tutta colpa della fine.
Tutte le storie ne hanno una, e questa era la loro.
Se avessero potuto, si sarebbero abbracciati forte e Yoshi gli avrebbe sussurrato che sarebbe andato tutto bene, che andava bene così.
Invece restò in silenzio ad ascoltarlo mentre, in un ultimo sussurro strozzato mormorava, quasi strappandoselo a morsi dalle labbra.
 
«È sempre così. Perché?»
 
Stringendo forte i pugni quasi fino a farsi male e ricominciando a piangere.
Già. Perché si apprezzava l'ombra solo dopo aver gustato il sole?
La domanda più difficile di tutte.
Quale padre, Yoshi aveva spesso risposto ai suoi perché da bambino, ma questa volta non sapeva che dire, e allora sorrise e facendo qualche passo verso di lui decise di essere sincero.
 
«Non lo so, Victor.» gli disse, appoggiando una mano sulla sua spalla.
 
L'ex first class rabbrividì tornando a guardarlo negli occhi.
Quel tocco gli gelò l'anima, ma se era l'unico modo per continuare a sentire la vicinanza di suo padre anche dall'oltretomba allora fu ben felice di goderselo tutto.
Socchiuse gli occhi e sorrise appena, lasciandolo fare.
Quando finalmente riuscì a riaprirli la mano di suo padre lo lasciò andare, ma subito dopo lo vide porgergliele entrambe, quasi invitandolo ad afferrarle.
 
«Ma forse c'è qualcosa che posso fare per aiutarti.» lo sentì dire, e stavolta fu sicuro.
 
Con uno sguardo Yoshi Osaka lo invitò a prendergli le mani e con un sorriso lo rasserenò.
 
«Sei un maledetto, adesso. Farà un po’ male, ma credo tu debba sentire ciò che ho sentito io.» lo avvisò quindi.
 
Victor lo guardò negli occhi, sicuri e scuri come un pozzo profondo, come i suoi.
L'ultima volta che si era fidato e aveva preso quelle mani era ancora un bambino e non sapeva nuotare. Allora gli aveva salvato la vita, stavolta forse sarebbe stato anche meglio. Annuì, e senza esitazione accettò l'invito, appoggiando i palmi delle mani su quelli aperti di suo padre, che gli sorrise.
 
«Ora chiudi gli occhi.» gli disse.
 
Lo fece, e il marchio iniziò a bruciare. Strinse i denti per sopportarlo, mentre la mente tornava con fatica a riempirsi di voci. All'improvviso anche l'ultimo ostacolo si spezzò, e come un fiume in piena milioni di voci poterono finalmente parlargli chiaramente.
Erano uomini e donne di ogni età, persone stanche di quel continuo peregrinare in tondo senza una meta; coscienze che cercavano una pace diversa da quella del lifestream, il silenzio e il nulla eterno, per un motivo o per un altro.
C'erano bambini abbandonati dai loro genitori ch'erano morti da soli senza conoscere nulla delle loro origini, persone affette da un qualche tipo di handicap fisico che aveva reso la loro vita un inferno e che non li aveva abbandonati nemmeno dopo la morte, uomini e donne morti di morte violenta che non avevano mai trovato qualcuno disposto a dare un senso al loro dolore.
Tutte quelle voci adesso, nei pochi istante in cui fu in grado di resistere, cercarono di raccontargli la loro storia e farsi sentire, fargli sentire il loro appoggio in quella crociata contro il Pianeta che il resto dei suoi abitanti considerava assurda e dannosa.
 
«Sono stanco di correre, voglio solo riposare.»
«Mamma? Papà? Perché sono solo? Non voglio più sentirmi perso.»
«Urlerei ... se la natura mi avesse concesso di farlo. Puoi sentirmi?»
«Aiutami, ti prego. Fallo smettere!»
«Non ha senso. Tutto questo non ha senso.»
 
Tutte quelle voci. Tutte quelle storie. Erano come il rombo di mille tuoni, un fragore che rimbombò nella sua testa fino a fargli male. I loro sentimenti inascoltati erano forti e ardenti come le fiamme di un incendio mai domato, ignorato anzi, da chi aveva giurato di proteggere tutte le creature del Pianeta e invece ne aveva deliberatamente ignorate così tante! Quella rabbia e quel dolore pesavano come macigni. In miliardi di secoli di storia, lui era l'unico Antico ancora in vita ad aver accettato di ascoltarli. Lui, un maledetto.
E per quanto volesse continuare a farlo, quel dannato marchio non gli permise di andare oltre. Avrebbe tanto voluto dare spazio alle loro storie, sentiva davvero di avere qualcosa in comune con loro, con tutti loro, ma il cuore si fece troppo pesante e a partire dalle vene del braccio sul quale era incisa la maledizione il sangue nelle sue vene iniziò ad ardere così forte da farlo urlare di dolore, a ribollire così tanto da fargli sembrare che stesse per esplodere.
Fu suo padre ad interrompere il contatto, tirandosi indietro e permettendogli di cadere a terra in ginocchio, reggendosi il braccio dolorante e portandoselo al petto, lì dove il cuore doleva così tanto da mozzargli il fiato.
Non era un altro infarto, ma ci era andato vicino.
La vista offuscata dal dolore e dalle lacrime, non riuscì nemmeno a vedere il volto dispiaciuto di Yoshi Osaka.
Ecco. Ecco cos'era stato a fargli cambiare idea sul destino del Pianeta.
Tutte quelle storie, e una sola preghiera: "Permetteteci di riposare, per favore. Preferiamo il nulla a questo."
Annaspò alla ricerca d'aria, e quando finalmente dopo un po’ gli spasmi abbandonarono il suo corpo permettendogli di riappropriarsene, guardandolo negli occhi Victor riuscì tra le lacrime a sorridere.
 
«Grazie ...» mormorò «Per avermi permesso di ascoltarli.»
 
Suo padre sorrise a sua volta, tristemente.
 
«Ho fatto solo ciò che avevo promesso.» rispose «Quando hai intrapreso questa missione per Sephiroth, nel lifestream molte anime hanno iniziato ad inquietarsi, ma loro ... loro hanno iniziato a sperare.»
 
Victor sospirò, traendo a sé ancora qualche boccata d'aria prima di tentare di rialzarsi. Gli girò un po’ la testa, le gambe tremarono e il braccio indolenzito iniziò a formicolare.
Ma una volta in piedi si sentì ... finalmente capito. Non solo dall'unica persona che non aveva mai accettato il suo percorso di vita, ma anche da tutti coloro che lo avevano aiutato ad aprire gli occhi. In fondo lo aveva sempre saputo, che quel dannato viaggio nel lifestream non aveva senso, che non era che un'altra eterna prigione. Anime costrette a girare in tondo, a restare lì in attesa di qualcosa, qualunque cosa, che desse un senso al loro peregrinare. Ora che ne aveva la conferma però, un'altra domanda si affacciò alla mente.
 
«Prima della maledizione ...» disse, riprendendo fiato «Perché non li ho mai sentiti?»
 
Suo padre sorrise tristemente.
 
«Credo che tu conosca già la risposta ...» gli disse.
 
Si. Si, la conosceva. Avrebbe anche solo sfiorato l'idea di salvare il Pianeta se avesse saputo?
Era troppo rischioso per Gaia e i suoi protettori permettere a quelle voci di essere udite. Ma ora che aveva comunque deciso di giocargli contro, ora udirle era stato ciò di cui aveva bisogno per non arrendersi.
 
«Inoltre ...» aggiunse il vecchio Osaka «Loro sono una piccola folla rispetto alle altre migliaia di anime che hanno accettato il loro fato. Un coro troppo piccolo per essere udito al di sopra di altre miliardi di miliardi di voci che inneggiano all'eternità.»
 
L'ex first class annuì, comprensivo, e mentre nel suo cuore il desiderio di esaudire quelle preghiere cresceva, all'improvviso il lupo canto di nuovo, e anche l'ultimo tassello andò al suo posto.
Si voltò ad ascoltarlo, e in quel canto ritrovò la stessa forza di quelle mille mila voci affrante.
E finalmente capì.
 
«Fenrir ...- mormorò, incantato -Ma certo ... ecco per chi combatte.»
 
Non era più solo il suo dolore, ma quello di tutte quelle coscienze che gli assomigliavano così tanto. E che non aspettavano che la sua vittoria.
Tornò a sorridere, e voltandosi per l'ultima volta verso suo padre vide nel suo sguardo orgoglio per quel figlio ch'era riuscito ad essere ciò che nessuno avrebbe mai nemmeno scelto di diventare. L'eroe degli ultimi.
 
«Sono fiero di te, Victor. Non dimenticarlo mai, ora che la battaglia finale si avvicina.» gli disse, visibilmente emozionato.
 
Poi, mentre lo osservava sorridergli commosso, si voltò a guardare il vecchio palazzo di fronte a loro, in cui giacevano i ricordi più belli e al contempo i più struggenti di quell'anima in pena.
 
«Ora va.» gli disse «Anche loro aspettano di salutarti. E non temere, ci saranno anche se non potrai vederli.»
 
Gli occhi dell'ex first si riempirono immediatamente di lacrime difficili da trattenere.
 
«Lo so ...» mormorò, una smorfia a contorcere le sue labbra pallide e sottili «Ci sono sempre stati ... nonostante tutto.»
 
Una lacrima scivolò lungo la sua guancia pallida e si schiantò a terra. La mano destra si levò ad afferrare la collana che conteneva le loro foto, e il medaglione che gli avrebbe permesso di vendicarli e salvarli.
 
«Ma non è un addio.» disse, ritrovando sicurezza «Non lo è, lo prometto. Darò la mia vita pur di riavervi tutti con me, in un modo o nell'altro. Pur di potervi rivedere ... anche solo un'ultima volta.» decretò, ricominciando a tremare.
 
Yoshi Osaka sorrise, annuendo.
 
«Lo so ...» replicò fiducioso prima di scomparire «E noi saremo lì ad aspettarti, a qualsiasi costo. Quindi sii sempre te stesso, e non dimenticare per chi combatti. Non dimenticartene mai ...»

 
"C’è fuoco nella pioggia
e io riesco a sentire il tuo dolore
che dipinge tutte le cicatrici.
I colori del cambiamento.

Non lasciare che ti buttino giù
vai e cadi come una stella
la stella che sei"

(Voices - Tousse)

 
***
 
La tomba di Reno era proprio accanto a quella di Reeve, appena fuori dalla struttura medica in cui Rufus Shinra era ricoverato. Il suo geostigma era peggiorato negli ultimi tempi, altre due macchie erano spuntate sul collo e sulla schiena, e anche se piccole rimanevano comunque dolorose. I momenti febbrili erano aumentati, ma nonostante tutto l'ultimo discendente degli Shinra non demordeva e i momenti di incoscienza erano sempre brevi, accompagnati da lunghi attimi di silenzio durante i risvegli.
Ed era proprio nell'attesa che si risvegliasse che Tseng ed Elena, gli unici a restargli ancora accanto senza alcun tornaconto, avevano deciso di far visita a quelle tombe. Da quando Reno era morto non erano passate che un paio di settimane, ma a causa del canto del lupo che incupiva i loro cuori e delle misere condizioni in cui si erano ritrovati a versare, sembrava fosse trascorso molto più tempo.
Dal giorno dopo la sepoltura, Tseng aveva preso a visitarla spesso, fino a che, appena due giorni addietro, Elena non se n'era accorta e aveva deciso di seguirlo.
Non gli era dispiaciuto. Averla accanto rendeva il suo cuore meno pesante, e quando il lupo cantava trovava nelle sue lacrime il conforto di non essere solo. Così avevano deciso di continuare a visitarlo insieme, mano nella mano come due superstiti ad una guerra che non era ancora finita.
Quel giorno Elena portava stretto tra le mani un mazzo di papaveri rossi. Le avevano ricordato il colore dei capelli del collega scomparso, così aveva deciso di portarglieli.
Si staccò per un istante da Tseng e li appoggiò sulla lapide, accanto a quelli del giorno prima, dei gigli viola.
Si sforzò di sorridere.
 
«Ciao Reno.» iniziò «Ho visto questi papaveri e non ho potuto fare a meno di pensare alla tua tinta improponibile.» sorrise, strappando un sorriso commosso anche all'inflessibile wutaiano, che chinò il capo e si coprì gli occhi con le mani, bloccando le lacrime con i polpastrelli ben premuti sulle palpebre.
«Spero che ti piacciano ... ci manchi tanto...» concluse, abbassando anch'ella il volto.
 
Sentì di non riuscire più a parlare, quindi si alzò e si strinse a Tseng, iniziando a piangere come una bambina e chiedendo scusa per questo.
Il wutaiano fissò impassibile la lapide, gli occhi rossi e i pensieri ben fissi al presente.
 
«Non fa niente.» le disse, accarezzandole i capelli biondi «Conoscendolo, penso che gli piacciano.»
 
La voce tremula, nonostante tutti i suoi sforzi. Elena allora alzò il volto a guardarlo, e incrociando quelle due gemme scure sentì qualcosa dentro di sé esplodere. Era stufa di vederlo piangere. Sorrise.
 
«Davvero?» mormorò speranzosa.
 
Il collega sorrise malinconico, seguitando ad aggrapparsi ai suoi occhi come all'unico appiglio rimasto per non cadere nel baratro della disperazione.
Annuì, stringendola ancor più dolcemente.
 
«A me piacerebbero.» disse, e quello fu l'ultimo passo verso un momento che entrambi attendevano da tempo, senza mai aver avuto il coraggio di confessarselo.
 
Elena si allungò sulle punte per colmare la distanza tra le loro labbra, e Tseng invece di allontanarla decise di facilitarle il lavoro. All'improvviso si ritrovarono coinvolti in un bacio così colmo di disperata passione da durare a lungo, e lasciarli affannati e spiazzati a guardarsi tremare. Sorrisero, restando in silenzio a scrutarsi. Non c'era nemmeno bisogno di dirsi "ti amo". I loro cuori parlavano da soli battendo all'unisono e così forte da essere chiaramente udibili al tocco delle loro dita tremanti.
Tseng le prese le mani, e a quel bacio ne seguì un altro meno intenso ma più dolce, suggello di ciò che aveva significato quell'attimo per lui.
 
«Sono felice che tu sia qui con me, ora.» confessò.
 
Sorridendo tra le lacrime, Elena sfiorò nuovamente appena quelle dolci labbra e rispose, emozionata.
 
«Ti amo, Tseng ... non avrebbe senso stare altrove, per me.»
 
Stavolta un paio di lacrime sfuggirono al controllo dell'uomo, ma non fecero in tempo a bagnargli le guance. Una voce sconosciuta e minacciosa l'interruppe, schernendoli.
 
«Oh, ma che carini. Il Niisan aveva ragione, questo sembra proprio il momento adatto per le presentazioni.»
 
Si voltarono, mettendo mani alle loro pistole.
A qualche metro da loro, Kadaj avanzò lentamente, seguito da Loz e Yazoo, le armi pronte all'azione.
 
«Sempre saggio il nostro Niisan.» commentò divertito il pugile, suscitando un coro di risatine da parte degli altri due.
 
Tseng ed Elena nel frattempo li fissarono con astio, tenendosi per mano. Era chiaro quale fosse il piano di Osaka. Ma perché aveva mandato loro e non era venuto di persona ad affrontarli? Dov'era in questo momento?
 
«Non ci arrenderemo senza combattere.» li avvertì il wutaiano, puntando la sua pistola contro di loro.
 
Per tutta risposta, Yazoo si fece mortalmente serio e alzò la canna della Velvet Nightmare verso il suo cuore.
 
«Provaci, avanti.» lo sfidò, un sogghigno malefico sulle labbra sottili «Vediamo quanto riesci a resistere.»
 
***
 
Come l'esterno, anche l'interno del palazzo era piegato su sé stesso, e ogni cosa sembrava reggersi solo per miracolo in piedi; i muri di cemento armato erano crepati in più punti, in alcuni l'intonaco era venuto via mostrando il muro nudo e le travi d'acciaio che lo sostenevano; le scale erano l'unica cosa ancora salda, sorprendentemente. Qualche gradino era mancante e altri erano spezzati, ma non era nulla che non si potesse risolvere con un po’ di prudenza e un buon salto. Ogni pianerottolo era pieno di vetri rotti e l'aria gelida della notte invadeva ogni cosa.
Tuttavia, non erano né i muri cadenti né i gradini mancanti o le finestre saltate a creargli problemi. Da ex 1st class, Victor Osaka aveva attraversato e vinto numerose battaglie e anzi se avesse voluto avrebbe benissimo potuto vantarsi di aver addirittura superato il record di tutti first class conosciuti, tranne ovviamente quello del suo maestro e Generale.
Eppure nessuna di quelle prove, neanche la più impossibile e dolorosa, lo aveva preparato a questo.
Quell'edificio, un tempo pieno di vita e al centro di una delle vie più trafficate della città, ora era solo un cumulo spettrale di macerie in mezzo al nulla. E del negozio di musica col pianoforte a coda che piaceva tanto a suo figlio non era rimasto più nulla.
L'esplosione era stata abbastanza potente da spazzare via gli edifici più fragili, e quello evidentemente lo era.
Rimanevano i ricordi, e grazie ad essi ad ogni passo in più su quella scala il suo cuore diventava pesante come un sasso e fragile come cristallo.
Era arrivato a metà quando si fermò, il fiato corto e il viso in fiamme, gli occhi di nuovo rossi di lacrime.
Allungò una mano verso il petto, a stringere saldamente il ciondolo con la foto di Hikari e la bambolina regalo di Keiichi.
Chiuse gli occhi, cercando di scacciare l'angoscia, ma per un breve istante credette di non farcela. Sentì le gambe cedere, e appoggiando la mano libera contro il muro si accasciò su sé stesso.
"Non ce la faccio..." pensò, senza avere nemmeno la forza di parlare "Non posso ...".
C'era un'energia troppo forte in quel luogo, un'aura   troppo pesante. Come se tutti gli spettri di Midgar si fossero posati sul suo cuore, e a pensarci bene poteva anche essere così, perché per lui la sua famiglia era diventata Midgar, dal momento in cui li aveva stretti a sé sul marciapiede che costeggiava il binario alla stazione dove si erano ritrovati.
Aveva combattuto per loro, anche dopo averli persi. E ora l'unica cosa che continuava a mantenerlo in vita era la possibilità, anche se remota, di riuscire a liberarsi da quella maledizione e riuscire a portare in salvo le loro anime, in un posto dove non fossero costretto a vagare senza meta in cerca di conforto. In un posto dove avrebbero davvero potuto riposare in pace, anche senza di lui.
Eppure, nonostante questo, ora rimaneva in bilico tra il dolore e la consapevolezza, combattendo la peggiore delle battaglie: quella contro sé stesso e i propri demoni.
Stava per perdere, cadendo in ginocchio, quando all'improvviso il suono dolce di un piano forte lo ridestò.
Lo riconobbe immediatamente, era quello che aveva comprato a Keiichi e che aveva troneggiato in salotto fino alla sua morte. E quella melodia era la preferita di suo figlio, un dolce allegretto che era stato anche uno dei primi brani da lui imparato.
Rialzò di colpo il capo, guardando verso l'alto e ascoltando il battito del suo cuore chetarsi ad ogni nota.
Sorrise, mentre le prime lacrime inumidivano le sue labbra. Le parole di suo padre tornarono a riecheggiare nella sua mente.
"Loro sono con te, anche se non puoi vederli."
Eccone la prova. Suo figlio, il suo piccolo genietto, aveva comunque trovato il modo di farsi sentire, pur non potendolo fare. E quella musica, dolce e allegra quasi quanto la sua vocina, riuscì finalmente a dargli la forza necessaria per completare il tragitto che lo divideva dalla meta.
Quando arrivò, dietro la porta blindata chiusa a chiave la musica suonava ancora, più forte, ma stavolta era il lento che avevano ballato al suo ritorno dal secondo viaggio alla ricerca di Sephiroth.
Ricordò le risa dei suoi genitori mentre danzavano, la gioia di Hikari nel rivederlo e quel dolce bacio che gli aveva dato per accoglierlo. Aveva scordato molte cose della sua vita precedente a quella tragedia, ma il sapore dei suoi baci ... sarebbe rimasto per sempre indelebile nella sua memoria, ovunque si fosse ritrovato a vivere. Anche se la missione fosse fallita e lui fosse stato condannato a diventare una mera ombra di sé stesso, quella sensazione sarebbe rimasta per sempre a ricordargli che anche lui, un tempo, era stato un umano degno di essere amato.
Sospirò, asciugandosi gli occhi con la pelle nera dei guanti, e tremante infilò la chiave che ancora portava in tasca e la girò nella serratura, ritrovandosi così faccia a faccia col suo mondo distrutto.
Tutto era rimasto esattamente come lo aveva lasciato, tranne che per qualche strato di polvere in più, i vetri rotti e i quaderni di matematica di Keiichi sparpagliato per il soggiorno.
Il fiato gli si mozzò in gola nel rivedere quella scrittura chiara, così simile alla sua, ben impressa sulla carta con un inchiostro blu ancora vivido. Avanzò lentamente, a piccoli passi, fissando quei fogli senza guardarsi intorno. Era già difficile così, senza che la memoria corresse a ripescare altri struggenti stralci di vita passata.
Il pianoforte suonava ancora, nella stanza del bambino, quando le sue mani frementi afferrarono uno dei quaderni e una lacrima sfuggita al controllo corse a bagnarne la carta.
Gli occhi iniziarono a bruciare, le labbra a contorcersi dolorosamente e il respiro a farsi sempre più doloroso, ma s'impose di farcela.
Avrebbe dovuto, poteva. Era stato addestrato a sopportare dolori molto più acuti di questo.
Eppure tutto crollò miseramente quando, raggiunta la camera da letto del suo primogenito, vide i tasti del pianoforte muoversi da soli, rapidi e armonici, come spinti da mani invisibili.
Keiichi era lì. Non poteva vederlo, ma c'era, e quando entrò nella stanza mentre suonava si voltò e gli sorrise, illuminandosi.
Le sue piccole dita paffute spinsero gli ultimi tasti, poi quel breve concerto fatto apposta per lui finì e il giovane si alzò, appoggiando il palmo della mano destra sulla superficie liscia dello strumento. Suo padre sgranò gli occhi quando vide il brillante fiore giallo che era riuscito a far apparire, e per un istante lo fece anche lui.
Era un fantasma da tanto ormai, eppure riusciva ancora a fare quelle cose. Doveva essere perché il legame col pianeta era più forte ora, visto che ne era parte. Probabilmente se suo padre fosse stato in grado di sentirlo glielo avrebbe chiesto, e avrebbe ottenuto una risposta. Ma a ben pensarci non era molto importante. L'importante era riuscire a fargli sentire che c'erano ancora, lui e sua madre. Che non avevano mai smesso di esserci nonostante tutto, perché a differenza di ciò che tutti pensavano il suo cuore non aveva mai perso la luce. Aveva ragione suo nonno Yoshi. A volte essere un eroe poteva davvero diventare difficile, soprattutto quando per tutti si era invece il nemico da combattere.
Gli fece tanta tenerezza, e gli dispiacque non poco non poterlo abbracciare forte. Ma poi lo vide avanzare e prendere delicatamente in mano quel fiore, portandoselo al naso e inspirandone il fresco profumo, e il sorriso che fece, confortato e commosso, lo rincuorò ugualmente.
Victor guardò nel punto in cui si trovava, proprio al suo fianco, sentendo una strana, familiare energia provenire da lì e immaginando che fosse per via della sua presenza.
Gli sorrise paterno, schioccando gli un occhiolino che liberò una lacrima rimasta incastrata tra le ciglia, lasciandola correre ad attraversare la guancia.
 
«Bravo, il mio piccolo genio.» mormorò, amorevolmente, con quel filo di voce rimastagli «Ti voglio bene anch'io.»
 
Keiichi si riempì d'orgoglio, e stavolta dovette lottare davvero molto per resistere all'impulso di abbracciarlo. Sapeva che il tocco di un fantasma poteva essere spiacevole, e lui non voleva lasciare alcun ricordo brutto di sé stesso al suo amato papà.
Allungò una mano verso la nota più acuta del piano e la suonò, come ultimo saluto, guardando il sorriso di suo padre prima di tornare a malincuore nel lifestream, sperando di esser riuscito a portare almeno un po’ di gioia in quel cuore stanco.
Quando scomparve, il fiore all'improvviso smise di brillare, diventando un comune fiore giallo, come quelli vicino alla casa di Aerith.
Victor lo guardò, e sentì il cuore spezzarsi di nuovo. Perché? Perché non aveva potuto vederlo? Avrebbe dato tutta la sua intera vita per un ultimo minuto insieme a suo figlio, e invece ... gli era stato così vicino, eppure non aveva potuto né sentirlo, né toccarlo, solo immaginare le sue reazioni.
Quale genere di essere senziente era in grado di elaborare una condanna così crudele solo per sua esclusiva difesa? Quale genere di essere poteva essere in grado di chiedere perdono dopo aver inflitto una simile maledizione?
Perfino lui, che tanto aveva ucciso, non era mai stato in grado di alzare la spada contro un bambino e mai lo sarebbe stato, se non per permettergli di rivedere i suoi genitori già tornati al pianeta.
Alzò gli occhi verso il letto ancora sfatto del piccolo, e vide il suo primo peluche, un orsacchiotto che era appartenuto a sua madre prima che a lui e che gli aveva fatto compagnia nei suoi primi anni di vita, quando ancora non sapeva chi fosse realmente suo padre.
Ricordava ancora le parole con cui lo aveva ringraziato
 
«Ti somiglia, lo sai papà?» gli aveva detto «Anche tu sei tenero e buono dentro. Sei il papà migliore del mondo!» aveva infine esclamato abbracciandolo.
 
Il calore di quel ricordo sciolse definitivamente ogni riserva e lui si sentì improvvisamente esausto.
Perciò si sedette su quel letto, ancora sorprendentemente pregno del dolce profumo del piccolo, prese il peluche tra le mani e stringendolo forte sul petto vi immerse il viso, inspirando forte, e si lasciò andare ai singhiozzi fino a che non fu così stanco da cadere in un sonno profondo, sognando quella vita che avrebbe potuto avere se il destino avesse avuto anche solo un minimo in più di pietà nei suoi confronti.
Al funerale di Keiichi e poi dopo la morte di Hikari, aveva creduto di aver versato tutte le lacrime di cui era capace.
Evidentemente però gliene era rimasta ancora qualcuna, in quel suo fragile cuore di pietra grande come quel mare a cui la natura l'aveva legato.
 
***
 
Lo scontro tra i due turks superstiti e i tre fratelli alieni fu ciò che avevano promesso, sorprendentemente intenso, anche se non tanto lungo come questi ultimi si erano aspettati.
Il loro Niisan aveva detto loro di non sottovalutarli e così avevano fatto, constatando quanti assi nella manica avessero accumulato.
Per la prima parte avevano agito in difesa, schieramento compatto, studiando le mosse dei due innamorati che spalla a spalla avevano preferito puntare su una strategia di attacco e difesa.
Le cose però si erano fatte decisamente più interessanti dopo che Tseng aveva sganciato su di loro una granata, nascosta chissà come e quando nella manica della giacca.
Ovviamente non ebbe effetto su di loro, ma per vendetta Kadaj piantò la doppia lama della sua katana nella sua spalla, e quasi in contemporanea Yazoo sparò un colpo dritto alla gamba.
Il turk represse a stento un urlo di dolore, ma l'averlo colpito riuscì comunque a distrarre Elena dalla lotta contro Loz, che nel frattempo l'aveva tenuta impegnata.
 
«Tseng!» urlò la giovane voltandosi e vedendolo accasciarsi su se stesso e cadere in ginocchio.
 
A quel punto Kadaj, usando il potere di una materia consegnatagli dal suo Niisan, lo stregò con una magia del sonno prima ancora che lei potesse anche solo provare a reagire.
 
«No!» urlò, divincolandosi e lanciandosi contro gli altri due.
 
Un pugno elettrificato la raggiunse dritto nello stomaco, facendole morire in gola un ringhio di rabbia.
Cadde in ginocchio a pochi passi dal suo amato, e l'ultima cosa che vide prima che l'incantesimo soporifero facesse effetto anche su di lei fu il ghigno soddisfatto dei tre e il volto impolverato e pallido del suo superiore, caduto proprio accanto alla lapide della tomba di Reno.
Un'ultima lacrima disperata attraversò la sua guancia con rapidità. Così ... era questa la loro fine?
 
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Il rifugio che avevano trovato era una vecchia cascina abbandonata appena fuori dalla zona contaminata, ma non abbastanza da invitare altri ad avvicinarsi. Era il luogo perfetto, anche perché era una casa a due piani e aveva un seminterrato pieno di cose interessati, tra i quali attrezzi da fabbro e catene.
Ne usarono alcune per legare i prigionieri ancora addormentati, poi si fermarono ad osservare il loro lavoro.
 
«Il Niisan sarà soddisfatto.» sorrise Loz.
«Dovremmo chiamarlo?» aggiunse Yazoo, e così fece Kadaj, ma non ricevette risposta.
 
Il telefono era staccato.
 
«Che starà combinando?» mormorò preoccupato il pugile.
 
Il più piccolo si fece pensieroso. Sospirò, poi risolse.
 
«Forse so dov'è. Vado a riprenderlo.»
«Noi restiamo qui con i prigionieri?» lo prevenne Yazoo.
 
Si lanciarono un sorriso e uno sguardo complice.
 
«Non credo che abbiano la forza di scappare, ma è meglio essere prudenti.» aggiunse.
 
Quindi voltò loro le spalle e risalì al piano di sopra, tralasciando l'idea di afferrare uno zaino e ficcarci dentro tutte le provviste che sarebbe riuscito a trovare.
Se il suo Niisan si era rifugiato dove pensava, non sarebbero servite. Un aiuto per raggiungere la destinazione però sarebbe stato utile, e ancora una volta gli apparve incontro Keiichi, che lo guidò fin dentro la sua vecchia casa.
Trovò Victor addormentato nel letto di suo figlio, il viso ancora rigato di lacrime e il peluche stretto tra le braccia, sul cuore.
Keiichi gli lasciò un delicato bacio sulla fronte, poi si voltò a guardare zio Kadaj e gli scoccò un occhiolino, infine scomparve, lasciandolo solo con un nodo in gola.
Si avvicinò lentamente, pensando che fosse una fortuna non avere un corpo fisico e quindi riuscire a non far rumore con i propri passi.
Vedere il suo Niisan così però riuscì comunque a farlo piangere.
Si asciugò le guance, fece un sospiro e delicatamente, cercando di non svegliarlo, gli rimboccò le coperte, visto che tremava di freddo.
Poi uscì dalla stanza con la stessa cautela, raggiunse il salotto e si sedette sul divano di fronte al camino spento, lasciandosi andare finalmente ad un breve pianto catartico.
Avrebbe dovuto cercare qualcosa di confortante da offrirgli al risveglio, ma prima aveva solo bisogno di sfogarsi un po’.
 
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Quando riemerse dal sonno profondo in cui era caduto, la prima cosa che sentì fu il confortante calore di una coperta sulle spalle, e l'odore fragrante del caffè.
Di mise a sedere, ancora intontito, chiedendosi di chi fosse tale premura.
La luce del corridoio era accesa, anche se non c'era abbastanza elettricità per mantenerla costante, ma dal salone non proveniva alcun rumore.
Guardò il peluche stretto tra le mani, con le dita ne accarezzò la testa e controvoglia lo lasciò andare, riponendolo sul cuscino.
Quindi si alzò e si diresse in cucina, dove trovò Kadaj impegnato a sfogliare quello che riconobbe essere uno degli album fotografici della sua nuova vita Midgar. Era incuriosito e assorto, chino sul tavolo. Eppure si accorse subito della sua presenza.
Sollevò il capo e sorrise, mentre lui restava inebetito ad osservarlo, trattenendo il fiato.
Avrebbe dovuto essere ... arrabbiato?
 
«Niisan. Sei sveglio, finalmente.» gli sorrise il suo fratellino.
 
No. Non poteva. Tutto ciò che provava era un senso di melodrammatica tenerezza.
Era come un bambino più piccolo che cercava di conoscere meglio l'uomo che gli aveva salvato la vita, anche se a onor del vero era stato Kadaj a salvarlo.
 
«Caffè?» gli chiese questi, che nel frattempo si era alzato e aveva versato un po’ del contenuto della caffettiera posta sul fornello in una tazza, ignaro fosse proprio la sua.
 
O forse lo sapeva?
Lo guardò negli occhi e lo vide arrossire.
 
«Sai, io non ne ho bisogno ma ho pensato che a te avrebbe fatto piacere. Ci ho messo un po’ per capire come prepararlo, scusami se il risultato sarà pessimo.» si schermì.
 
Finalmente, dopo aver assistito a quell'ennesimo tentativo di tirargli su il morale, Victor si sciolse in un sorriso e prese la tazzina.
 
«Grazie.» disse, riavendosi completamente.
 
Il più piccolo annuì, aspettando impettito il suo verdetto.
Si portò prima la tazzina al naso, per saggiarne l'odore, ch'era fragrante e deciso.
Poi ne bevve un sorso. Era un po’ freddo per i suoi gusti, lo preferiva quasi ustionante, ma tutto sommato ...
 
«È buono.» decretò sorridendo di nuovo e finendolo.
 
Kadaj si aprì in un sorriso radioso.
 
«Dici davvero o mi stai solo compiacendo?» chiese, ancora un po’ sulle spine.
 
Osaka emise un sospiro divertito.
 
«No, dico sul serio. È un po’ freddo, ma è buono.» aggiunse, convalidando la sua opinione.
«Bene.» fece allora il più giovane, sfregandosi le mani.
 
Calò un brevissimo istante di algido silenzio in cui entrambi cercarono di capire se porre alcune domande e dove trovare il coraggio di farlo. Alla fine decisero per la diplomazia.
 
«Quando sei arrivato?» chiese quindi l'ex first class, ritornando serio.
«Tre ore fa.» gli rispose suo fratello -Non so da quando tempo stessi già dormendo.-
 
Meglio così. Osaka sorrise appena, annuendo.
Poi, prima che Kadaj potesse fare un qualsiasi riferimento a ciò che aveva imparato dall'album, tornò a chiedere, riportando la conversazione su binari per lui più confortevoli.
 
«A che punto è ... quella questione?»
 
Ancora una volta senza esitazione, Kadaj fu pronto a fornirgli tutti i dettagli.
 
«Risolta.» disse «Li abbiamo presi e li abbiamo portati in un vecchio edificio nel settore 2. Secondo ciò che abbiamo sentito dire quella zona non è contaminata ma è abbastanza vicina a quelle che lo sono da tenere lontani i curiosi. E in più la casa ha un seminterrato con vari attrezzi interessanti.» su quest'ultima frase si aprì in un ghigno che Victor condivise.
«Perfetto.» disse cupo.
«Quindi ... ora ci riprenderemo la madre?» domandò impaziente Kadaj.
«Non ancora, no ...» fu la risposta sempre più cupa del maggiore «Ricorda cosa abbiamo deciso. Prima il dovere, poi il piacere.» un mellifluo ghigno emerse sulle sue labbra «E a proposito di questo, ho qualcosa che potrebbe rendere tutto più interessante. Ma dobbiamo andare a prenderla.»
«Andiamo allora.» acconsentì il più piccolo, ma la cosa non era così semplice.
 
Per raggiungere l'obbiettivo, dovettero scalare ciò che rimaneva del quartier generale della Shinra fino a giungere al laboratorio del professor Hojo, quasi del tutto intatto.
Sulla soglia, Kadaj ebbe un fremito.
 
«La Madre ... lei è stata qui?» domandò.
 
Fino a quel momento tutto gli era sembrato così strano e distante, perfino il turbamento di Victor. All'improvviso però anche per lui divenne tutto molto più difficile.
Osaka lo fissò cupo. Sospirò.
 
«Si.» disse soltanto «Ma non preoccupartene più, ho già mandato all'inferno la mummia rinsecchita che ne era responsabile.»
 
Con la coda degli occhi, mentre fingeva di decidere che strada prendere, vide il suo fratellino stringere i pugni e il suo sguardo farsi più iroso.
 
«Bene.» lo sentì mugugnare «Ben gli sta.»
 
Victor sospirò di nuovo.
 
«Ora occupiamoci degli altri.» risolse iniziando a camminare verso una porta a vetro su cui era affisso un cartello che proibiva l’accesso ai non addetti.
 
Ovviamente ora che tutto era andato, quella regola era abbondantemente superata.
 
«Una volta raggiungere questa sala come abbiamo fatto noi era quasi impossibile.» ghignò soddisfatto, per poi rompere il vetro con un paio di colpi di pistola e una gomitata.
 
All'interno della piccola stanza, illuminata solo dai neon di emergenza, trovarono ad accoglierli un ambiente che Victor, come ogni Soldier, conosceva molto bene: la sala delle iniezioni.
A differenza di tutte le altre operazioni, quelle venivano effettuate direttamente da scienziati esperti nel laboratorio, soprattutto le prime, più dolorose.
Kadaj s'incantò a fissare le capsule di contenimento, spente in quel momento, e alcuni dolorosi flashback che non capì gli tolsero il fiato spingendo alcune lacrime ad affacciarsi ai suoi occhi.
"Non avrei dovuto portarlo qui." pensò rammaricato Osaka "Sarei dovuto venire da solo."
Come se lo avesse sentito, il ragazzo tentò in ogni modo di riprendersi, sorridendo forzatamente e ripetendo, quasi scusandosi.
 
«V-va bene. Va tutto bene, sto bene. Davvero.»
 
Victor sorrise.
 
«Prendiamo quello che ci serve e andiamo.» disse, quasi a volerlo rassicurare.
«Cosa ci serve?» fece allora Kadaj, curioso, vedendolo avvicinarsi ad uno degli armadietti.
 
C'era una serratura computerizzata, ma senza energia sufficiente ad alimentare sia quella che le luci di emergenza era praticamente inutile. La fece saltare con un altro colpo di pistola, quindi aprì l'anta di ferro e ne estrasse, delicatamente e ghignando, quello che sembrò un blister di siringhe piene di uno strano liquido verdastro.
 
«Queste ...» spiegò perfidamente soddisfatto, mentre suo fratello lo fissava incredulo «Sono la radice della forza di un soldier ... e anche lo strumento di tortura più efficace che l'uomo sia mai stato capace d'inventare, soprattutto per un corpo che non è abbastanza forte da reggerne anche mezza dose.»
 
La punizione perfetta per chi si era sempre arrogato il diritto di decidere delle vite altrui.
 
***
 
Intanto ...
 
Yuffie respinse l'attacco dello zombie, poi con un balzo claudicante tornò a nascondersi nel folto della giungla, dietro un enorme palma.
Sentì il cuore battere talmente veloce nel suo petto da farle male, mentre il morso alla gamba iniziava a pulsare. Il braccio grondava sangue, gli occhi erano zeppi di lacrime.
Quello che l'aveva appena attaccata ... era uno dei suoi ragazzi.
Li aveva trovati alla fine. Due erano morti, il terzo li aveva uccisi dopo essersi trasformato in zombie.
Prese un antidoto dalla bisaccia e si concesse un attimo per riprendere fiato, reclinando il capo e lasciandosi andare alle lacrime.
Cosa stava accadendo al Pianeta? Possibile che li odiasse così tanto?
 
\\\
 
Da quando Osaka lo aveva lasciato solo con Lucrecia, Vincent Valentine aveva avuto tutto il tempo necessario per riflettere se accettare o meno il trattato di pace del first Class.
Le rivelazioni che si erano fatti a vicenda li avevano sconvolti, ma a differenza di Victor che non aveva alcuna intenzione di fermarsi, per un istante Vincent Valentine ci aveva pensato.
Avrebbe potuto aspettare la morte con lei, chiudendo finalmente gli occhi per sempre e riunendosi alla donna amata un attimo prima del viaggio nel cosmo.
Più pensava a ciò che Osaka aveva detto, più capiva che aveva ragione. Ora il suo unico compito era quello di lasciare che ci fosse una giustizia anche per quel bambino che non era riuscito a salvare. Victor era nato per questo, lui doveva solo lasciarlo fare. Perfino la bestia dentro di lui gli dava ragione. Era strano ... qualsiasi cosa fosse accaduta durante quello scontro che non ricordava, alla fine Osaka era riuscito a domare perfino Caos. O era una tregua? Non sapeva come sentirsi, ma una scelta andava presa quindi aveva deciso così.
Ma una drammatica telefonata di Yuffie lo costrinse ancora una volta a cambiare rotta.
La ragazzina era in grave pericolo, uno zombie l'aveva attaccata e ridotta molto male, perciò gli chiese, ovunque si trovasse, di correre a salvarla.
O meglio, questa avrebbe potuto essere la sua richiesta, se avesse avuto abbastanza forza. La chiamata però s'interruppe bruscamente, la sentì sospirare pesantemente e a seguito di un tonfo intuì che dovette essere svenuta.
Non poté ignorarla, così raggiunse il più presto possibile il luogo da lei indicato e la trovò nascosta dietro una gigantesca palma. Dello zombie che l'aveva aggredita non c'era traccia, e per fortuna perché lei era ridotta veramente male.
Perdeva sangue da una gamba, ch'era gonfia e livida, ed era ferita in più punti. Inoltre era pallida come un cencio.
Tentò di svegliarla, ma non ebbe fortuna. Il polso batteva a malapena, segno ch'era legata alla vita da un sottilissimo filo.
Cercò nella bisaccia una pozione e gliela fece bere, poi la prese in braccio e con le ali di Caos la portò nell'unico posto abbastanza vicino in cui qualcuno avrebbe potuto curarla: Midgar.
 
***
 
Per tutto il resto del giorno, mentre il telefono dei suoi turks squillava a vuoto e alcuni inservienti della struttura dove Rufus si trovava ricoverato si davano da fare per cercarli, con un'ombra funesta nel cuore l'ultimo erede di quella un tempo gloriosa dinastia era rimasto a fissare il verde della vegetazione fuori dalla finestra della sua stanza, il telefono sul comodino e un pessimo presentimento nella mente.
Tseng non aveva mai lasciato il suo capezzale, né disobbedito ai suoi ordini, a meno che qualche pericolosa forza maggiore non glielo avesse impedito.
E in quel momento ne conosceva solo una abbastanza potente in grado di farlo.
Non mangiò, dopo le cure serale andò a letto ma non chiuse occhio, pensandoci.
A notte fonda, quando il sonno stava per avere la meglio, il suo telefono squillò, e sullo schermo apparve il nome di Tseng.
Rispose subito, chiamandolo per nome, ma quel tono autoritario gli morì in gola quando dall'altro capo udì un sogghigno perfido.
 
«Ciao Shinra.»
 
La voce di Victor Osaka lo paralizzò.
 
«Benvenuto nel peggiore dei tuoi incubi. Emozionato?»















NDA: Buonasera a tutti. Questo capitolo è stato molto intenso e difficile da scrivere, non riuscivo a non piangere e inoltre gli impegni mi hanno tenuta lontano dalla scrittura per un pò. Comunque sono molto contenta del risultato. Ora si fa sul serio. Avete finito i fazzoletti? Niente paura ... anzi no, correte subito a farne scorta perchè ne abbiamo ancora, fino alla fine :D
Spero vi sia piaciuto! Alla prossima!
   
 
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