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Autore: Dira_    13/06/2021    5 recensioni
[Seguito de "Nella Selva Oscura"]
Castiglioscuro non è più un problema per le Silvani. Lo è il bosco, e ciò che contiene.
Un mostro si è risvegliato tra gli alberi e una barista di paese si è resa conto che non più essere soltanto quello.
Rosi deve tornare nell'Altrove, un mondo popolato da spettri, criptidi e mostri; deve trovare il coraggio di affrontarli e forse affrontare sé stessa.
Nell'Altrove è facile smarrirsi: puoi dimenticare di essere un mostro per scoprire il primo amore, puoi cominciare a dubitare che obbedire agli ordini sia sempre giusto. Puoi scoprire che no, non lo è.
Perché nell'Altrove vi è una sola certezza: una volta che lasci il sentiero, è allora che la storia comincia davvero.
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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7.
 
È morto un garzone del castello.
La voce si è sparsa anche nei comunelli vicini e la gente preferisce viaggiare di giorno.
Quella mattina il borgo è gremito di chiacchiere. Lungo la via principale Bice ode mezze frasi, parole mozzate che parlano di “lupo” e puzzano di paura, ma anche di confusione. I suoi vicini non conoscono l'Orbis Alius, ma non sono stupidi e vivono in quelle terre quanto lei: i lupi ci sono, ma nessun lupo attacca da solo e a quel modo, peraltro senza poi nutrirsi del cadavere. Uccidere per il gusto di farlo è cosa da cristiani, dice il vecchio Ciacco che siede sempre di fronte alla taverna, e gli amici accanto a lui assentono, perché Ciacco ha militato tra le fila dell'esercito di Siena e di certe cose è esperto.
Ciacco non si sbaglia, pensa Bice, chi ha affondato i denti nel povero garzone sarà anche bestia, ma il mandante è uomo. È Benedetto.
Bice non può permettersi di formulare quel pensiero ad alta voce. Non ha prove. E inoltre Lietta potrebbe venir coinvolta.
Vanno assieme nel bosco, di notte.
Sua sorella quella mattina si è piegata insolitamente docile alle sue richieste, acconsentendo ad accompagnarla nel bosco a far erbe. Bice spera di farne una bella scorta per non dover tornare di nuovo.
Si aggiusta una ciocca di capelli che le è sfuggita dalla cuffia; il sudore le scivola lungo la schiena e il caldo la rende irritabile. Non vede l'ora di tuffarsi nella fresca ombra del bosco, la via del paese è un sentiero battuto e secco, pieno di polvere che le brucia la gola.
Lietta accanto a lei è silenziosa, forse intuendo il suo stato d'animo. O forse no, forse pensa al maledetto Benedetto.
Deve fare qualcosa per quell'oscena tresca, ma cosa? Se racconterà tutto a suo padre, come dovrebbe, Lietta verrà punita duramente e poi chiusa in casa. Si seccherebbe come una pianta priva di acqua, la sua sorellina che vive e respira le piante e gli alberi come lei. Può davvero rovinarle la vita a quel modo?
Per proteggerla, sì.
Ma la gente, per dritto o per rovescio, verrebbe a sapere e Lietta verrebbe rovinata per sempre, nessun uomo vorrebbe più sposarla … Forse, allora, ne dovrebbe parlare con Fortunato; il suo bel soldato potrebbe minacciare Benedetto, intimargli di lasciarla in pace.
Presa da quei pensieri non si accorge di chi le sta attorno; neppure le interessa, ma quando Lietta si ferma bruscamente, capisce di dover fare altrettanto per non andare addosso a qualcuno.
Quel qualcuno è il parroco.
Bice non lo vede dall'ultima messa. Non le è mai piaciuto, sempre arroccato nella pieve, il suo piccolo regno da cui amministra la sua oncia di potere; ricorda come al funerale per la sua povera mamma abbia parlato più di dannazione e Inferno, che salvezza e Paradiso.
Non gliel'ha mai perdonata. È un uomo piccino, con gli occhi troppo vicini e il ventre sporgente che lo fa sembrare un rospo ben pasciuto. “Beatrice e Lietta!” le saluta. La tonaca è nera, immacolata, come se la polvere sulla strada non lo toccasse. “Dove andate figliole?”
 
***
 
Studia il passato, se vuoi prevedere il futuro
- Confucio.
 
“Esco, vado a fare delle commissioni,” disse Rosi rivolta alle due donne della sua vita.
Cate, che era dietro al bancone, le rivolse a malapena un cenno di saluto, concentrata sul preparare la colazione ai suoi siciliani. Marina, che era di fretta perché in ritardo a lavoro, le lanciò invece un'occhiata più lunga, ma si limitò comunque ad un cenno disimpegnato.
“A stasera tesoro!”
Rosi come al solito aveva dormito poco; i sogni, forse perché adesso non li rifiutava, erano più vividi e questo la immergeva in una strana atmosfera lontana, come se si trovasse dentro un acquario.
Per questo quando si incamminò per le vie del paese non si accorse subito di essere seguita. Avere le cuffie nelle orecchie – un suo vecchio vezzo adolescenziale – probabilmente non contribuiva a renderla attenta. All'altezza del vicolo dove c'era la casa dei genitori di Silvia si accorse però di non essere sola. A quell'ora poteva incontrare solo qualche arzillo compaesano uscito per la sua passeggiata di salute.
Con la coda dell'occhio realizzò però che chi la stava pedinando … era sua madre.
Che cavolo sta facendo?!
Non poteva fare la sua stessa strada per andare al lavoro; per uscire dal paese doveva andare in macchina … e non poteva aver deciso di imitarla nelle sue commissioni, perché allora l'avrebbe chiamata e raggiunta.
Rosi spense la musica con un colpo di dita sullo schermo del telefono e deglutì; avrebbe dovuto voltarsi e chiamarla. Per dirle cosa però?
Se la stava seguendo c'era un motivo e doveva avere a che fare con l'Altrove.
Le hai detto che stai pensando di riprendere la carriera da Sorvegliante, no? Si sarà fatta delle domande … e data delle risposte.
Aveva scoperto le indagini parallele di Ettore e Tobia? L'affabile Marina Silvani aveva occhi e orecchie ovunque. Se c'era qualcuno che poteva scoprire quello che stavano combinando, era lei.
Rosi rallentò per accendersi una sigaretta e la donna, lesta, si infilò in un vicolo.
Non ci posso credere!
Quella storia aveva del ridicolo eppure al tempo stesso era angosciante.
Forse è stata davvero lei a nascondere il lupomanaio … e a risvegliare il serpe regolo.
Non era pronta ad affrontare una verità del genere. Dubitava lo sarebbe stata mai. Perché se Marina si fosse rivelata il cattivo di quella storia lei sarebbe stata sua complice.
Hai chiuso gli occhi … e il regolo è arrivato. Hai chiuso gli occhi e hai condannato Tobia.
È anche colpa tua.
Accelerò, mentre udiva i passi dell'altra seguirla. Li ignorò finché non fu di fronte alla Stazione dei Carabinieri. Infilò l'androne senza voltarsi indietro.
 
***
 
“Brigadiere, c'è una visita pe'lei, l'ho fatta accomodà nel su' ufficio!” annunciò Ferruzzi quando Ettore entrò nel Comando Stazione con uno sbadiglio e pochissima voglia di prender servizio.
Meditò se chiedere un caffè prima di iniziare la giornata. “Già a quest'ora?” sospirò.
L'appuntato scelto gli strizzò l'occhio. “Sì, ma badi che è gradita!”
Oddio, sarà mica quel gattaccio …
Tra i suoi uomini si era ormai consolidata la voce che fosse uno stramaledetto gattaro e adesso, di fronte all'ingresso, campeggiava una grande ciotola di croccantini appaiata ad una d'acqua. Per i su' gatti, aveva commentato Ferruzzi e purtroppo il plurale aveva ben donde d'esserci.
Dopo la prima sciagurata visita di Ariele, una piccola truppa di felini sostava infatti di fronte alla stazione e anche quella mattina avevano dovuto fare una gimcana per evitare che le maledette bestiacce gli riempissero di pelo i pantaloni dell'uniforme.
Entrò in ufficio, dove Binella lo accolse con un rigido saluto militare: da quando l'aveva strapazzato in Piazza era diventato il modello del perfetto carabiniere.
Soffocò un sorrisetto. “Riposo,” impostò la voce per sembrare ancora una volta in collera e funzionò, da come l'altro deglutì nervoso. “Almeno tu mi sai dire chi mi aspetta in ufficio?”
“La Rosina!”
Ah, già, che ci dovevamo incontrare per andare nel bosco a parlare con il fantasma del soldato medievale …
Storie di ordinaria amministrazione per il Brigadiere Mangiola, carabiniere dell'Altrove.
 
Rosi era in piedi di fronte alla finestra del suo ufficio, a fumare. Stava guardando giù ma si voltò quando lo udì arrivare. “... ma tutti 'sti gatti?” domandò con una sfumatura canzonatoria nella voce. “Avete cominciato a sfamarli?”
“Lo fa Ferruzzi,” borbottò sedendosi dietro la scrivania e massaggiandosi la sella del naso. “Son qui per farmi la posta, credo...” notando l'espressione perplessa dell'altra realizzò di colpo che no, di quello non avevano mai parlato. “E' … la mia … capacità, no, si dice così? Parlo coi gatti.”
Le sopracciglia di Rosi schizzarono praticamente all'attaccatura dei capelli. “Ma tu detesti i gatti.”
“Pensa comm'song fortunato...”
Rosi serrò le labbra per non scoppiare a ridere e ciccò l'ultima cenere della sigaretta prima di spegnerla sul davanzale. “Sono stati loro a far partire tutto,” aggiunse Ettore di malavoglia, “sono stati loro a cercarmi e dirmi che qualcosa si stava risvegliando.”
Rosi si sedette di fronte a lui facendo una smorfia. “Una volta si diceva che ce n'erano così tanti perché cacciavano i topi, ma sono sempre stati qui per tenere le nostre case pulite da altro.”
“Dalle creature?”
“Di topi ne abbiamo sempre avuti pochi...”
Ettore sospirò. “Non è che siano molto d'aiuto. Non è come parlare con nu'cristiano.”
“Immagino...”
“Davvero?”
“Io sogno il passato, quello quanto pensi che sia chiaro?”
“Mezze allusioni e sogni … ecco come conduciamo le indagini,” Ettore aveva un perenne mal di testa da quando Ariele gli aveva parlato per la prima volta. Pescò un blister di anti-infiammatori da un cassetto e ingoiò una pasticca senza acqua. Rosi non disse niente per qualche attimo, giocherellando con l'accendino.
“Mia madre mi pedina,” buttò fuori di colpo.
Ettore batté le palpebre preso in contropiede. “In che senso?”
“Nel senso che mi ha seguito dal Bar fino a qui, nascondendosi non appena facevo tanto di voltarmi, ecco in che senso!” rispose rabbiosa. Rosi era così: un grumo di emozioni talmente stretto che solo la rabbia riusciva ad uscire.
E doversi occupare di un mostro pericoloso e di madri fedifraghe eccome se la faceva incazzare.
“Perché l'avrebbe fatto?”
“Non gliel'ho chiesto … vogliamo vedè se è qui fuori a fammi ancora la posta?”
“Direi di no,” non raccolse la provocazione. “Potrebbero esserci due possibili spiegazioni comunque … o si preoccupa di chi frequenti nel Chiaro o cerca di capire che stai facendo nell'Altrove.”
“Direi la seconda.”
“Oppure la prima,” osservò. “Non stiamo facendo mistero di frequentare Tobia, e Tobia non è considerato bene in paese.”
“Mia madre va da lui, da sola, almeno una volta a settimana, non è quello!”
Ettore sospirò; non voleva dar corda alla rabbia di Rosi, ma non era neppure San Tobia, che prendeva schiaffi in faccia senza fare una piega. “Allora è ufficiale, ci ha scoperti?”
“Che altra spiegazione potrebbe esserci?”
“Potevi chiederglielo.”
Rosi deglutì fissando lo sguardo sull'accendino che spegneva e riaccendeva a scatti. Doveva essere bollente, ma non pareva farci caso. “Avevo paura della risposta,” mormorò.
Ettore avrebbe voluto abbracciarla. Quel compito però non spettava più a lui, se mai l'aveva fatto. Il cuore di Rosi era incandescente proprio come quell'accendino, un tizzone che non andava toccato se non si avevano gli strumenti adatti. C'era chi li aveva, ma al momento era a prendersi cura dei suoi morti in mezzo al bosco.
“Non è detto che sia tua madre il sorvegliante che ha fatto tutto 'sto macello,” ribatté quieto. “Potrebbe aver scoperto che stiamo indagando, ed è preoccupata che tu possa metterti nei guai con la Confraternita. È una mamma, dopotutto... Non abbiamo prove che sia coinvolta, e una persona è innocente fino a prova contraria.”
Rosi sbuffò una risatina. “Ha ragione Cate, sei proprio una guardia.”
“Fiero di esserlo,” ribatté con un sorriso.
Rosi gli scoccò un'occhiata esitante. “Grazie...” prima che potesse chiederle il motivo, aggiunse, “per esserti invischiato in questa storia … pensi che sia il tuo dovere, ma non sei un sorvegliante come lo dovevamo essere io e Tobia. Sei un buon amico per Tobia … e per me.”
Quelle poche parole erano il chiodo definitivo su quello che era stata la loro relazione, ma Ettore, nonostante gli sarebbe mancato il sesso da fuoco d'artificio, ne fu sollevato. I triangoli stavano bene in geometria, non tra le persone … e poi avevano decisamente altre gatte da pelare. “Marò, Rosì, mo' mi fai commuovere,” motteggiò mettendosi una mano sul cuore. “Se vi lascio soli finite male, che amico sarei?”
Rosi stiracchiò un sorriso. “Uno pessimo, suppongo.”
“Esatto!” Si alzò in piedi facendole cenno di fare altrettanto mentre calcava il cappello e recuperava la pistola dal cassetto. “Dai, andiamo dal Nero. Si va a caccia di fantasmi!”
 
***
 
Quella mattina Caterina si era svegliata da sola.
Era stupido esserci rimasta male, se ne rendeva conto; Maddalena le aveva detto chiaro e tondo che voleva mantenere la loro relazione segreta, e svegliarsi con l'altra parte del materasso fredda e vuota era parte di quell'accordo …
Però.
Caterina morse il proprio panino mentre accanto a lei gli altri rumoreggiavano, ingozzandosi di manicaretti preparati da Rosi la sera precedente.
Smettila di pensarci.
Erano nel prato antistante l'abbazia di San Galgano e un sole cocente scottava pietre e mattoni della costruzione. Nell'aria si spandeva, intenso e dolcissimo, profumo di erba e fiori. Era una bella giornata, non c'era spazio per i pensieri tristi.
Tutto attorno a loro piccoli gruppi di turisti passeggiavano all'ombra imponente della costruzione, un gigante gotico il cui tetto era crollato secoli prima, si raccontava durante un violento temporale. L'abbazia era rimasta intatta soltanto nelle mura, assomigliando al grande scheletro, immerso in campi di grano dorati. Avevano passato la mattinata esplorando le navate, e Michele si era fatto un intero set fotografico approfittando della presenza di Pietro, che aveva eletto suo fotografo personale nonostante le proteste di quest'ultimo.
Erano arrivati anche al piccolo eremo in cima al colle vicino, che ospitava il fulcro di quella gita, ovvero la spada nella roccia italiana.
Cate l'aveva sempre considerata non all'altezza delle aspettative; non era che un'elsa arrugginita conficcata nella fenditura naturale di due rocce, ma Michele e Stefano l'avevano pensata diversamente, dal numero di foto che le avevano scattato dai propri smartphone.
Se Pietro era il fotografo ufficiale della vacanza, lei ne era il Cicerone; così aveva raccontato con dovizia di particolari, per cui doveva ringraziare Wikipedia, la storia di San Galgano, prima soldato feroce e poi uomo di chiesa, e di come avesse abbandonato una vita sregolata sancendo quel gesto conficcando la propria spada in una delle rocce della collina.
“Al contrario rispetto al mito arturiano,” aveva considerato Stefano. “Artù la estrasse, Galgano la inflisse nella roccia.”
“Qualcuno dice che San Galgano in realtà era invischiato nei cavalieri della tavola rotonda,” aveva convenuto Caterina, “c'è questa storia secondo cui non fosse italiano, ma francese, e fosse in realtà
un re … alla cui corte c'era stato l'autore del mito del Sacro Graal, quindi...”
Non si era studiata bene la faccenda, lo aveva realizzato mentre Stefano le rivolgeva un sorriso indulgente, provvedendo poi ad integrare il suo traballante racconto con fatti e date.
È che so' un po' distratta, sai com'è!
Da Maddalena, che per tutta la mattina era rimasta incollata al proprio telefono, distanziando più volte la comitiva.
E in silenzio era rimasta anche durante il pranzo.
 
“Che facciamo adesso?” domandò Michele appallottolando la stagnola del suo panino per lanciarla a Pietro, che era sbracato sul prato con uno spinello tra le labbra. “Direi che qui abbiamo finito!”
“Andiamo a Siena? Abbiamo la macchina,” propose Caterina.
“Dai,” concordò Pietro. “Volevo giusto fa' un salto in fumetteria.”
“Io devo tornare a casa purtroppo,” si inserì Alina. C'era un intero capitolo da aprire anche sulla sua amica, che quel giorno le era stata a fianco come una presenza taciturna e obiettivamente un po' inquietante. Non che Alina fosse la persona più loquace del pianeta, ma di solito si sforzava di ingaggiare qualche conversazione. Durante tutta la mattinata aveva sì e no pronunciato due sillabe.
Come Malù.
“Per tuo babbo?” spiò.
“Gli ho promesso che sarei tornata, mi dispiace.”
“Ma va', figurati, ce l'avevi detto.”
Finirono quello che restava del loro pranzo in sommario silenzio; Cate aveva la percezione – e l'aveva da quando si erano incontrati in Piazza parecchie ore prima - che vi fosse qualcosa che non andava quel giorno; Michele e Pietro facevano casino come al solito ma non appena si quietavano, si posava nell'aria una sorta di inquietudine sospesa, come tra estranei che non avevano idea di come interagire gli uni con gli altri. E quel disagio non l'aveva mai sentito, neppure il primo giorno di arrivo dei siciliani, quando estranei lo erano davvero.
A Cate non piaceva; come avrebbe potuto però raccogliere in parole, in domande quell'impressione? Non poteva, e quindi rimase zitta, mentre raccoglievano cartacce e bottigliette e salutavano San Galgano.
 
Una volta tornati al pulmino Cate si sedette nella seconda fila di sedili. Era il suo posto durante quelle gite e di solito Maddalena le sedeva accanto. Quella mattina non l'aveva fatto ma ora, con un sorriso timido, si apprestava finalmente a darle un po' d'attenzione. Cate la ricambiò sollevata.
Solo che la strada le fu letteralmente sbarrata da Alina.
Maddalena si bloccò. “Vuoi sederti tu?” le domandò Alina.
Maddalena scosse la testa e si infilò nella terza e ultima fila accanto al fratello senza aggiungere altro.
Che cavolo è successo?
L'amica le si sedette accanto aggiustandosi la gonna sulle gambe. “Davvero non è un problema portarmi in paese?” si riallacciò al discorso di prima come se nulla fosse.
“No, figurati ...” Il cervello di Cate andava a mille, cercando una spiegazione per il siparietto a cui aveva appena assistito. Maddalena si era letteralmente congelata quando Alina le aveva tagliato la strada.
Perché è spaventata da Lin?
E sopratutto perché la sua migliore amica le faceva da scudo non voluto?
“Perché non hai fatto salire Malù?”
Alina batté le palpebre sorpresa. “Preferivi aver accanto lei?” domandò. La scrutava come se volesse spiare le sue reazioni, oltre che le sue parole.
Cate istintivamente si ritrasse sullo schienale, a disagio. “Sì … no, è uguale,” balbettò, “solo, mi chiedevo, ecco … se non avessi qualche problema con lei.”
“Con Maddalena? Nessuno.” Lo disse troppo in fretta, con troppa durezza. Cate conosceva abbastanza gente che le aveva mentito durante la sua breve vita e quello era un segnale bello grosso.
 
Quando torni babbo?”
Presto darling, prestissimo!”
 
Un paio di palle.
“Guarda che rimani te la mia migliore amica,” buttò fuori un po' a caso perché davvero non aveva idea del perché Alina detestasse Maddalena e sentisse il bisogno di difenderla da lei. Però era così, ed era palese come il sole che splendeva sul tettuccio del pulmino che arrancava rumoroso su e giù per le colline in direzione di Siena. Pietro, seduto accanto a Stefano che guidava, aumentò il volume della radio.
 
Two years gone, came back as some bones and so cynical
This skin don't feel like home
 
Alina sorrise brevemente. “Lo so. Non è per quello...” lanciò un'occhiata allo specchietto retrovisore. Stava controllando Maddalena, ma l'altra aveva le cuffie nelle orecchie e aveva chiuso gli occhi. “Lei ti piace, e non voglio che tu ti faccia male.”
Cate avrebbe voluto ribattere che per quello era un filo troppo tardi. “Unn'è mica la mi' prima giostra,” scherzò invece. “E poi, porina, non ha fatto niente... non lo sa neanche, che mi garba.”
Non aveva mai detto una bugia alla sua migliore amica. Eppure le era scivolata sulla punta della lingua, con facilità estrema. Le lasciò un'impressione di sporco, che non le piacque per niente.
Alina strinse le labbra, quasi stesse trattenendosi dal rispondere. “Voglio solo che tu stia attenta,” ripeté. “Voglio solo che tu non ti faccia male.”
Ancora.
Di che male parlava? Alina l'aveva già vista invaghirsi di una ragazza … più di una, ad essere oneste. Non aveva mai messo su quella pantomima da mamma orsa ansiosa.
Cosa sa di Maddalena che io non so?
E quella era la conseguente e inevitabile domanda. Cosa conosceva di Maddalena da preoccuparsi al punto di frapporsi fisicamente tra di loro?
Niente. Si conoscono appena.
“Perché dovrei fammi male?” esitò. “Maddalena t'ha detto qualcosa … di me?”
Alina scosse la testa. “No, è solo che è già successo con altre ragazze, tutto qui.”
Non le avrebbe cavato fuori di bocca altro. Caterina, sconfitta e frustrata, abbozzò un sorriso e cambiò discorso.
 
I know it’s so wrong but I’m so far gone
Don’t need you to tell me
 
Cosa sa di Maddalena che io non so?
 
***
 
Il bosco aveva un modo tutto suo di farti sentire insignificante.
Ettore era un ragazzo di città e forse era per questo che lo percepiva con particolare chiarezza.
I boschi toscani non erano luoghi lontani ed esotici, di quelli che potevi solo immaginare dietro alle pagine di un libro o su uno schermo. Erano familiari; ma camminarci attraverso ti dava comunque l'idea di disturbare qualcosa di solenne, e misterioso, che sarebbe rimasto ben dopo la tua morte.
Se c'era qualcosa di simile all'eternità, potevi trovarlo lì, tra quei canopi smeraldo.
Camminando dalla stazione fino alla casina del cimitero, Ettore si percepiva spogliato da tutti gli orpelli che il progresso gli aveva dato per rimanere, intimidito, di fronte alla forza della natura e dell'Altrove combinati assieme.
Tirò un sospiro e si asciugò il sudore dal collo con un fazzoletto; Rosi, accanto a lui gli rivolse un sorriso.
La toscana non sembrava turbata dai suoi stessi ragionamenti, né più prosaicamente sudata come lui. Se le sue scarpe da tennis non avesse fatto rumore mentre camminavano l'avrebbe pensata uno dei fantasmi di Tobia.
Trasparente e impalpabile, perfettamente parte alla foresta.
non mi aveva detto che una sua antenata era uscita dal cavo di una quercia?
Ci poteva credere senza problemi.
Il Nero li aspettava seduto sulla soglia di casa, con Ermione in grembo, che si godeva sole e carezze. Vedendolo, la bestiaccia gli rivolse che scoprì i canini.
I gatti non avrebbero mai dovuto sorridere.
“Ohi,” lo salutò sbrigativa Rosi. Tobia le rispose con un cenno della testa e poi posò a terra Ermione, non senza qualche difficoltà da come l'animale tentò di aggrapparglisi ai pantaloni.
Tobia abbozzò un sorriso paziente nonostante probabilmente lo stesse artigliando a sangue e riuscì a districarsi, rimediandosi comunque una corposa strusciata tra le gambe. “Non mi lascia solo da quando abbiamo incontrato il regolo,” disse lanciandogli un'occhiata interrogativa.
“Magari è preoccupata per te,” suggerì stringendosi nelle spalle. Anche l'assembramento di gatti attorno alla Stazione gli aveva dato da pensare.
Che i gatti volessero proteggerli? Non che avesse bisogno di un picchetto d'onore felino, e di certo Ermione, tutta ossa e pelliccia, nulla avrebbe potuto contro un mostro come il Regolo …
… però la cosa, in qualche bizzarro modo, lo rassicurava.
“Certo che sono preoccupata,” ribatté Ermione trasudando irritazione. “E' lui che custodisco, e voi lo portate in mezzo ai guai!”
“Veramente è partito tutto da Tobia,” obiettò guadagnandosi un'occhiata perplessa dai due toscani. “Niente … sto … la tua gatta mi ha rinfacciato una cosa non vera!” borbottò. “E' peggio di mia madre!”
“Quando hai finito di litigare col gatto direi che possiamo andare,” ribatté Rosi con uno sbuffo impaziente. “Non mi fido a lasciare il Bar a Tea.”
Tobia annuì, chiudendosi la porta di casa alle spalle – senza manco dare un giro di chiave, ma nessuno lo faceva mai in quel paese di strambi – e poi si avviò lungo il sentiero.
Lo seguirono.
 
Rimasero in silenzio per gran parte del tragitto, guidati da Tobia che scostava frasche e seguiva percorsi che ad Ettore, ogni volta, sembravano casuali. Era consapevole non fosse così, ma non aveva punti di riferimento e dubitava li avrebbe avuti mai.
Ettore si tamponò il viso con il fazzoletto per l'ennesima volta, sospirando. “Uagliù, non saremo arrivati troppo presto?”
Era mattina inoltrata e il sole splendeva, rovente e immutabile. “L'ultima volta ci siamo stati al tramonto … non sarebbe stato meglio venire più tardi? Pure cchiù fresco...”
Tobia scosse la testa. “Qualunque ora del giorno va bene. L'importante è stabilire una connessione.”
Rosi incrociò le braccia al petto; un'espressione inquieta le si era dipinta in viso. “Un'offerta,” mormorò. “Cosa possiamo offrire ad un fantasma medievale?”
“Qualcosa che gli ricordi che una volta era vivo come noi,” rispose Tobia, per poi frugare nel tascapane che aveva a tracolla. Ne estrasse una bottiglia colma di un liquido ambrato che a Ettore ricordò il Vin Santo che l'amico aveva sparso nel cimitero per richiamare la presenza di suo nonno. Quando lo stappò e glielo avvicinò al viso annusò una punta di spezie che la volta prima mancava.
“Ippocrasso, l'ho preparato ieri sera,” spiegò Tobia. “Era un vino molto conosciuto nel Medioevo. Con il Vin Santo non ha funzionato, magari con questo … e con te e Rosi presenti, magari sì. Più siamo, più energia portiamo.”
Tobia versò il vino vicino al tronco e nell'aria si spanse un profumo invernale, intenso. Dava quasi il capogiro.
Ricordando l'apparizione, Ettore fu svelto ad allontanarsi dall'albero, onde evitare di essere di nuovo affettato spiritualmente. Si affiancò a Rosi, che era rimasta in disparte accendendosi la decima sigaretta di quella mattina.
Non dovettero attendere molto. Lentamente, una nebbiolina avviluppò la quercia e l'apparizione si manifestò. I contorni di una figura maschile si materializzarono dalla bruma, e come la volta precedente, lo spettro apparve vestito come se dovesse scendere in guerra. Giaco di maglia, di metallo scuro e ossidato, le gambe muscolose fasciate da una stoffa grezza e parimenti scura. Il volto era abbozzato, ma era giovane, con poca barba e un naso importante.
Rosi accanto a lui sussultò. “Fortunato,” mormorò con una nota di dolore palpabile nella voce.
“Chi?” le domandò prima di realizzare che era il fantasma che aveva apostrofato. Lo aveva riconosciuto.
Fortunato, come la volta precedente, si spaventò e levò la spada di fronte a sé. Non era a loro che stava guardando, ma a qualcosa che lo aveva attaccato in passato. E anche stavolta, quel qualcosa o quel qualcuno, riuscì a ferirlo da come una macchina scura si spanse sul suo stomaco e da come cercò di tamponarla, per poi incespicare privo di forze, finché non fece cadere la spada e crollò a terra, picchiando la schiena contro il tronco della grande quercia. Un rivolo di sangue gli sgorgò dalla bocca mentre tossiva.
Era vedere un uomo morire, ed Ettore nonostante fossero passati secoli, si trovò a distogliere lo sguardo. L'altra volta il fantasma non era riuscito a mostrar loro gli ultimi attimi della sua vita, ma forse Tobia aveva ragione, la loro energia e quel vino dolciastro, il cui odore pareva esserglisi appiccicato in gola e nelle narici, erano riusciti a compiere la magia.
Avrebbe preferito non l'avessero fatto. Non per come Rosi soffocò un singhiozzo vicino al pianto.
“Rosì...?” domandò Ettore, “lo conosci?”
“Zitto,” mormorò l'altra. “Lascialo finire, ha ancora qualcosa da mostrarci.”
Ettore si costrinse a dare nuovamente attenzione al fantasma. Quello aprì gli occhi e poi fece una cosa inaspettata; sorrise.
Sta morendo, che ha da esser contento?
Si sforzò di parlare, ma qualcosa glielo impediva. Allora levò la mano, come l'avevano visto fare l'altra volta. Indicò il castello e poi la lasciò ricadere lungo il fianco. Non si mosse più.
Rosi diede loro le spalle e scoppiò a piangere, mentre la nebbia si ritirava e la visione spariva. Ettore fece cenno a Tobia di muoversi a raggiungerli e l'altro obbedì, ma poi rimase a qualche passo di distanza, continuando a guardare Rosi come se fosse il punto focale dell'intera faccenda e non lo era, ma Ettore capiva il sentimento.
Se la vuoi consolare però dovresti abbracciarla. Le basi, proprio.
Rosì, lo hai riconosciuto?” domandò di nuovo.
“Sì,” disse l'altra schiarendosi la voce. “E' il ragazzo che sogno ogni notte, Fortunato. Era una delle guardie del castello e il promesso sposo di Beatrice...”
“Cosa gli è successo?”
“Non l'ho ancora sognato, ma non mi serve farlo. Qualcuno l'ha ammazzato, è evidente.” Si voltò, gli occhi rossi ma l'espressione furibonda. “Fortunato e Beatrice credevano che qualcuno avesse portato qui il regolo, che lo stesse controllando. Un essere umano.”
“Qualcuno controlla il regolo...” mormorò. Quella non era una bella notizia, affatto. Una cosa era un predatore gigante che seguiva il suo istinto. Un'altra era un predatore gigante che faceva ciò che una persona gli diceva di fare. Un essere umano con la capacità di discernere il bene dal male e una netta propensione per quest'ultimo, se liberava una roba del genere in giro per un bosco frequentato da ragazzini e fatine.
“Non aveva senso che si fosse risvegliato da solo,” disse Tobia avvicinandosi al tronco della quercia e posandovi una mano, proprio dove il ragazzo era morto. Aveva un'espressione distante, assorta. “Non dopo secoli di letargo … ed è successo a Castiglioscuro,” terminò, imitando il gesto del cavaliere. Rosi fece una smorfia, come se qualcuno l'avesse schiaffeggiata.
Sotto Castiglioscuro,” lo corresse l'altra. “E forse ho capito dove … anche se non il come.”
“Quindi se capiamo 'sto come possiamo ripeterlo?” ipotizzò speranzoso. “Rimetterlo a nanna?”
Rosi annuì. “Devo prima sognarlo, ma sì. C'è un altro problema però … non basta liberarci del regolo, dobbiamo capire chi lo ha svegliato, e perché. Se non fermiamo il mandante abbiamo solo compiuto metà dell'opera.”
“Di solito in un'indagine canonica trovi il prima il colpevole, e poi il movente,” considerò Ettore voltandosi verso il castello. Da lontano luccicava al sole, rudere di un'epoca passata … dove la gente veniva ammazzata in mezzo al bosco.
Rabbrividì. “Però in questo caso trovare il perché, ci permetterebbe di capire chi. Anche perché nel mondo normale il movente di solito ruota sempre alle stesse cose: soldi, potere o gelosia … ma nell'Altrove magari è diverso.”
“No,” ribatté Rosi. “Il male è sempre fatto per gli stessi motivi.”
“Soldi, potere o amore...” disse Tobia e il cambio di parole non sfuggì a nessuno. Non a Rosi che lo misurò con uno sguardo che fece sentire Ettore un gran bel pezzo di incomodo.
O moccolo, come dicono qua.
“Al regolo tutto questo però non interessa,” continuò Tobia. “A lui interessa cacciare.”
“Sta cacciando soltanto animali però,” ribatté Rosi. “Non mi piace, ma finché si limita a quelli credo sia più importante concentrarci sul trovare chi lo controlla… una persona del genere è pericolosa.”
Tobia aggrottò la fronte. “Sta crescendo, ha già fatto la muta più volte. Tra poco non gli basteranno più gli animali. Cercherà prede più grandi … oppure diverse.”
“Sì, persone ...”
“Sto parlando delle creature,” la fermò. “Noi abbiamo il paese, abbiamo le mura. Le creature no. Il Beffardello è rintanato nella sua tana, non trovo più i cappelletti su nessun sentiero … e sono giorni che non vengo seguito dai caramogi.”
Rosi si morse un labbro. “Si sono messi al sicuro?”
“Lo spero.”
“Non posso passare la giornata addormentata, Bia ...” si passò una mano tra i capelli, chiudendo gli occhi. “Ho smesso coi sonniferi. Ho smesso con le veglie fino all'alba. Non so cos'altro fare.”
Rimasero in silenzio, interrotto solo dall'incessante frinire delle cicale.
“Scusami,” disse Tobia e le si avvicinò, posandole una mano sulla spalla. “Lo so che non è facile.”
“Non lo è, ma è quello che devo fare,” Rosi fece un gesto che parve, per un momento, voler esser quello di posare la mano su quella dell'uomo. Lasciò cadere il braccio lungo il fianco e si voltò invece verso Ettore.
“Fatti una chiacchierata con la tua scorta armata ,” disse asciutta, “magari avranno qualcosa da miagolarti.” controllò l'orologio con un movimenti di polso, di nuovo chiusa a doppia mandata. “Devo tornare al Bar prima che Tea lo faccia esplodere. Ci aggiorniamo domani mattina,” e senza dar loro tempo di ribattere, si addentrò nel folto degli alberi, direzione Castiglioscuro.
“Non dovremo seguirla?” domandò a Tobia. “Non dovresti seguirla?” si corresse esasperato.
“Non credo...”
“Io devo tornare in stazione,” lo fermò bruscamente, “tu valle dietro,” e gli indicò la direzione con un cenno imperioso della testa.
Tobia sospirò, ma non fece troppe storie: sparì nella boscaglia.
Una statua dovreste farmi. O chiamare il vostro primogenito con il mio nome. Almeno.
Ettore si chiese se avesse fatto bene a lasciare i due idioti da soli in mezzo ad un posto che necessitava di una pistola e di una buona dose di fortuna … ma poi ritenne che erano in due, erano adulti e vaccinati e forse, dopotutto, era lui quello ad essere nei guai.
e mo' come torno indietro?
Un lontano miagolio gli segnalò la risposta.
Con un'imprecazione tra le labbra e la fronte imperlata di sudore si apprestò a tornare alla civiltà.
 
***
 
Castiglioscuro c'era sempre stato.
Da quando per la prima volta aveva aperto gli occhi al mondo, il castello aveva fatto parte del panorama. Lontano eppure vicino, imponente eppure fragile. Un coacervo di contraddizioni che aveva sempre reso chiaro a Rosi come lei e quel rudere si somigliassero.
Terminò di percorrere gli ultimi metri della scala costruita dal padre di suo nonno e se lo trovò davanti, una parete verticale di roccia e mattoni, spaccata in più punti dalla vegetazione che era riuscita ad infilarsi tra gli interstizi.
Il Sindaco lo voleva buttar giù e da quello era partito tutto. L'arrivo dei siciliani, il suo coinvolgimento, lo strano temporale e poi il serpe regolo.
Rosi si sedette su una pietra rovente di sole e si accese l'ennesima sigaretta; mentre il tabacco le bruciava il petto pensò che tutto era collegato. Doveva essere collegato in qualche modo, solo non sapeva come.
Non era quello il suo lavoro, non era più quello il suo mondo. Eppure doveva andare avanti.
Doveva proteggere non solo il castello, ma sua sorella, il bosco, le sue creature … e nel farlo, era certa che non sarebbe riuscita a proteggere anche sé stessa.
Di certo, non il suo cuore.
Bruciava, e non era il tabacco: era la morte di Fortunato ad averla scossa.
Bice ancora non lo sa.
Era una affermazione insensata, dato che Bice era vissuta secoli prima e di certo aveva saputo che l'amore della sua vita era morto come un cane, da solo, nel bosco. Eppure Bice in qualche modo era lei e quel lutto l'aveva colta di sorpresa, come un pugno secco al petto, togliendole il fiato.
Non voglio sognarlo. Non voglio sognare tutto quel dolore.
“Rosi.”
La voce di Tobia la fece quasi saltare in piedi; una connessione umana, reale, quando era così dentro dai suoi pensieri non aveva mai un effetto piacevole.
Si voltò e l'amico era lì, arrivato silenzioso come suo solito, una macchia scura in mezzo a tutto quello smeraldo.
Il passato e il presente si confondevano ancora dentro la sua testa, e per un attimo, Rosi vide Fortunato; per un attimo fu Beatrice e chissà cosa avrebbe fatto, la sua antenata, per poterlo avere ancora accanto. Chissà com'era stato scoprire che non sarebbero invecchiati assieme.
Che l'unico uomo che avesse mai amato al mondo se n'era andato per sempre in buio infinito in cui non poteva raggiungerlo.
 
Tobia capì subito che c'era qualcosa che non andava in Rosi.
L'espressione con cui l'aveva accolto, dopo esser sobbalzata quando aveva chiamato il suo nome, era fuori fuoco, come se non riuscisse a riconoscerlo.
Assistere alla morte di Fortunato l'aveva scossa e Tobia poteva intuire il perché: doveva aver sognato quel ragazzo, vivo, tante volte ed esser testimone della sua fine doveva essere stato tremendo.
Lui con i suoi fantasmi almeno arrivava a cosa finite, quando qualsiasi cosa fosse successa prima, ormai non era che un distante ricordo per lui, e una cosa mai accaduta per loro.
Ma le morti violente, funzionavano in modo diverso.
“Roísín,” la chiamò di nuovo perché l'amica gli si stava avvicinando, ma era come se non l'avesse ancora notato. Poi con la punta delle dita gli sfiorò una guancia.
Rosi non era lì; era in qualche angolo della sua mente dove la realtà si confondeva col sogno. Le aveva già visto quell'espressione addosso … quando, da ragazzini, si svegliava da un sonnellino pomeridiano dentro al castello e ci metteva un po' ad uscire da una delle sue visioni.
Allora bastava chiamarla per farla tornare alla realtà, ma non stava funzionando. Rosi non stava tornando.
Avrebbe dovuto scuoterla? Non fece in tempo ad agire che l'altra gli passò una mano dietro la nuca e lo tirò giù. Fu talmente rapida che Tobia non ebbe modo di reagire quando gli premette le labbra contro le sue, in un bacio screpolato e asciutto.
Rosi non l'avrebbe mai baciato.
E quindi quella non era Rosi, decise forzandosi a non rispondere, costringendo ogni singolo muscolo del suo corpo a rimanere immobile. Il suo rifiuto dovette smuovere qualcosa nell'altra, un'incongruenza con ciò che si era aspettata. Si staccò aggrottando le sopracciglia e no, quell'espressione confusa e ferita non era la sua. Non poteva essere la sua.
Rosi non l'avrebbe mai baciato. No?
“Rosi...” la chiamò di nuovo, percependo la sua voce rauca come se avesse urlato.
Stavolta funzionò; l'altra batté rapidamente le palpebre e fece un passo indietro. Chiuse e le riaprì un altro paio di volte e poi prese un profondo respiro. E lo guardò male.
È tornata.
“... stai bene?” le domandò sforzandosi di suonare normale anche se il cuore gli rimbombava talmente forte nelle orecchie che si stupiva non superasse il frinire delle cicale.
Rosi si passò una mano tra i capelli e scosse la testa. “Non tornavo indietro?” domandò in tono esitante.
“Sì … ci hai messo un po',” le spiegò. “Forse non sei più abituata.”
Era una spiegazione logica a quanto appena accaduto, a quel bacio tra Beatrice e Fortunato, in cui loro non c'entravano niente.
Gli bruciava ancora sulle labbra. “Non dovevi tornare al Bar?” le domandò ancorando quella conversazione al presente per il suo stesso bene. “Come mai sei venuta quassù?”
“Mi ci hanno portata i piedi, avevo bisogno di pensare … ma la cosa è un po' degenerata,” borbottò. La solita rossa incavolata con il mondo, ma sopratutto con sé stessa e i suoi poteri.
Tobia abbozzò nonostante tutto un sorriso. “Meno male che Ettore mi ha chiesto di seguirti.”
Rosi fece una smorfia. “Non sono una bambina, ed era lui quello a cui dovevi badare. Si sarà perso di sicuro!”
“Se la sa cavare meglio di me e te messi assieme,” scrollò le spalle. Lo pensava sul serio ma al tempo stesso si appuntò di passare in Stazione per chiedere di lui una volta riportata Rosi in paese. “Torniamo o hai qualcosa da fare qui?”
“Torniamo,” gli confermò asciutta sorpassandolo con piglio deciso. Tobia sentì un sospiro montare nel petto e la seguì.
Si accorse presto però che la baldanza dell'altra era tutta scena; quando scese la scala che collegava il sentiero al castello rallentò notevolmente, aggrappandosi al corrimano come se avesse paura che i piedi la tradissero.
“Non stai bene,” affermò stavolta, invece che chiedere.
“Mi tremano le gambe,” ammise finalmente.
Tobia la superò e le si mise davanti e la pendenza li poneva alla stessa altezza. “Nessuno si aspetta che tu risolva le cose nel giro di una giornata … o che tu ti faccia male per portare a casa un risultato. Non è per questo che io ed Ettore abbiamo chiesto il tuo aiuto.”
Rosi non era poi cambiata molto da quando erano ragazzini: era ancora pronta caricarsi tutto sulle sue spalle perché così dimostrava di meritarsi il proprio posto nel mondo. Soltanto che adesso lo faceva abbaiando ordini e buttandosi nei problemi a testa china, ma alla cieca. “Non sei sola,” disse, “risolveremo questa cosa tutti assieme.”
Qualcosa fremette sulle labbra dell'altra. Delle parole, ma non riuscirono ad uscire. Non si aspettava che lo facessero. Rosi si limitò ad annuire. “... mi aiuti a scendere?” riuscì infine a decidersi.
Tobia sorrise porgendole la mano che l'altra afferrò. Era fredda, al contrario della sua, ma gli era sempre piaciuto quel contatto. Durante le estati roventi della Montagnola, dove gli pareva di andare a fuoco, il tocco dell'amica era riposante come dormire sotto l'ombra di un albero.
L'aiutò a scendere le scale ma quando fece per liberare la mano, Rosi gliela strinse più forte. “Hai paura di inciampare nelle radici?” non poté trattenersi e un giorno il suo stupido sarcasmo sarebbe stato la sua rovina.
Si sarebbe aspettato una risposta salace e che gli schiaffeggiasse via la mano, invece l'altra lo sorprese ancora una volta. “Ho appena guardato morire un uomo,” mormorò, “forse ho paura che sia tu ad inciampare e ammazzarti.”
C'era una pennellata di ironia in quell'affermazione ma Tobia vi lesse – o sperò di farlo – anche altro. Sorrise, stringendo la presa. “Non ho intenzione di andare a far compagnia ai morti così presto... ci sono ancora parecchie cose che voglio fare.”
Come proteggere il paese … e proteggere te. Ora che me lo lasci fare.
“Sarà meglio,” sbottò l'altra. “Gnamo, o Tea davvero mi fa esplodere il Bar.”
Tobia ridacchiò; bacio o non bacio … parole bloccate in gola o meno, c'era della brace sotto la cenere. Ed era bello scoprire come, nonostante tutto, non si era davvero mai spenta.
Nonostante tutto, continuava a brillare.
 
***

Note:
La canzone citata è "What's wrong" dei PVRIS dall'album "All We Know of Heaven, All We Need of Hell", 2017
  
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