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Autore: Fissie    13/06/2021    0 recensioni
Quello era stato il sorso peggiore: amava Nunnally più di ogni altra cosa al mondo, tranne forse quel Mondo che voleva darle senza che gli avesse mai detto di volerlo.
In nome di tutte le vite che sono state sacrificate... in nome di tutte le Nunnally, anche a costo della sua.
[Il mio tributo a Lelouch con troppi anni di ritardo]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Lelouch Lamperouge
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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After so many years, torno su questo fandom disabitato perché a quanto pare non ho mai superato il 2008 (come si fa a guarire dal finale? E perché youtube ha voluto recentemente ricordarmi che è una ferita sempre aperta?).

Questa one-shot è frutto di due bicchieri di vino che non avrei dovuto bere. Warning: la lettura è sconsigliata a un pubblico sobrio.

All Hail Lelouch!




 

In vino veritas

 

Uno qualunque sedeva al bancone di un bar, o piuttosto un tugurio con i calcinacci ancora miracolosamente aggrappati allo scheletro e la pelle delle pareti scrostate che sembrava quella butterata di un volto senza naso in un lebbrosario di ruderi, tutti accomunati dal fatto che fossero stati mutilati di qualcosa. Attraversando il ghetto di Shinjuku, uno qualunque aveva respirato i fumi della polvere da sparo sospesi nell’aria come il fiato di chi, tra le palpebre schive e socchiuse delle tende, sbirciava la strada per controllare che i militari se ne fossero andati davvero, ed era passato accanto a un murales di sangue ancora fresco, spennellato da una mitragliatrice in preda all’estro di un’esecuzione estemporanea, che tingeva l’unico muro rimasto di una casa squartata.

Un altro muro del pianto, dove presto sarebbero apparsi nomi, dediche e foto, uno dei tanti che costellavano le strade dei ghetti e che facevano da controparte speculare alle statue maestose dell’Imperatore e dei grandi generali britanni che, col braccio teso, indicavano i vinti dall’altro lato della città: il Bianco e il Nero che si sfidavano su una scacchiera.

Ma quel bar non sembrava il tempio in cui i sacerdoti-ribelli nelle vesti spartane di terroristi improvvisati tenevano acceso il fuoco della rivolta e quello delle bombe fatte con l’acetone per le unghie e gli involucri di stagnola, non sembrava la cassa toracica del corpo emaciato del Giappone in cui però batteva ancora il cuore dell’orgoglio nazionale. Non c’erano bandiere bianche con un sole rosso sangue al centro o katane appese alle pareti come medaglie al valore sul petto di un veterano di guerra. Era solo il rifugio dove i senza speranza trascinavano le loro vite operaie a fine giornata con l’unica ambizione di dimenticarla, prima di riviverla da capo l’indomani.

Uno qualunque non aveva un vero motivo per trovarsi lì. Quando era entrato, il brusio già sommesso e grave, un unico sospiro collettivo dall’alito luttuoso, era cessato e anche chi non aveva capito subito il motivo aveva abbassato la voce, fino a estinguere una frase incompiuta dopo aver seguito lo sguardo degli altri.

Da sotto le fronti abbassate, gli occhi di tutti puntavano verso di lui, come canne di pistole impugnate all’ombra dei tavoli, anche se forse la maggior parte non ne aveva una e i più rassegnati fra loro non ambivano nemmeno ad avercela, nel timore che le squadriglie dei Puristi potessero perquisire le loro anime oltre che le loro case e trovarci ancora il più piccolo sintomo di amor patrio.

I suoi lineamenti tradivano senza ombra di dubbio che non fosse giapponese, ma britanno.

C’era stato quindi un rigor mortis generale, come quello dei cadaveri ammassati nelle fosse da cui non usciva un respiro maggiore del loro, quando avevano temuto che fosse un militare in borghese. Ma quell’ansia li aveva abbandonati presto facendo allentare tutte le spalle, perché era troppo giovane e dimostrava appena la sua età, cioé quindici-anni-ma-vado-per-i-sedici. Allora le smorfie nascoste sotto l’atteggiamento schivo erano diventate più torve e quasi ferine: era logico concludere che si trattasse del figlio arrogante di un nobile, ammantato del senso di invulnerabilità che gli dava il nome di suo padre.

Non sospettavano che il nome di suo padre fosse quello di cui si era spogliato, insieme alla porpora regale, quando aveva fatto una sfilata della vergogna fuori dal castello in cui era entrato da principe ed era uscito da pezzente.

In segno di fraternité, uno qualunque aveva ordinato un bicchiere di vino usando il suo giapponese claudicante, per non costringerli a ingoiare parole in una lingua che ulcerava lo stomaco più dei loro liquori scadenti (may I have a glass of wine?). La sua pronuncia però parve offenderli come se dopo aver violato il corpo della loro madre terra ne avesse offeso la bocca.

Quello non era il covo della lotta partigiana, eppure uno qualunque sentiva davvero l’umore pungente del ferro, forse agli angoli del locale, dove si addensavano i pensieri più fitti e gli sguardi più ostili alla sua schiena, nuda sotto la felpa perché non indossava cognomi.

Lelouch vi Britannia avrebbe forse bevuto del vino pregiato da un calice, Lelouch Lamperouge semplicemente non lo avrebbe bevuto, perché non poteva permettersi di non essere lucido, di balzare su un tavolo in preda a uno slancio di sincerità alcolica e dichiarare morte all’Imperatore. Lelouch, soltanto Lelouch, uno qualunque, poteva decidere di farlo, una sera in cui sentiva che il suo massimo atto di ribellione possibile fosse quello di non essere né vi Britannia né Lamperouge.

Anche lui nella vita di ogni giorno teneva il collo e le braccia negli anelli della stessa gogna, quella che puniva come un ladro chi era stato derubato, ma si sentiva dissimile tra i simili, perché non aveva nessuno a cui rivolgere quell’appello accorato e romantico che echeggiava inni ebbri di ardore, di lotta e speranza intonati con le fiaccole accese all’alba di una battaglia: fratelli!

I suoi veri fratelli versavano il sangue del loro stesso sangue sulle scale, come il vino nei calici che alzavano in salotto con la stessa spigliatezza di quando abbassavano il fendente della spada.

Se proprio doveva attribuirsi un numero, essere anche lui un number, uno qualunque sarebbe stato piuttosto lo Zero.

In fondo Lelouch non aveva amor patrio, non avendo una patria, non aveva sentimenti nazionalistici, non avendo un popolo, e non aveva una lingua che suonasse dolce, materna e libera quando la pronunciava, perché la sua parlava di una corona stretta come una cinghia, di una madre morta e di esilio, diceva weak con la voce di suo padre e bruciava in gola come quel vino che sapeva di bile. Dato che al terzo sorso non era certamente ubriaco, ma si sentiva simpatico, gli venne il ghiribizzo di scoprire che idioma si parlasse nell’entroterra australiano, dato che l’Australia per qualche ragione era snobbata da tutti e a sua volta non ci teneva chissà quanto a socializzare con quel vicinato molesto che si sfondava la porta di casa a vicenda, quindi era una terra pacifica che si contentava di adorare una roccia: non schiacciava e non era schiacciata.

Quel vino sembrava aceto ed era possibile che il barista ci avesse sputato dentro mentre era girato di spalle, ma non era un problema perché Lelouch si era già asciugato gli insulti dalla faccia e aveva assaggiato letteralmente la polvere di quel paese prima che il suolo venisse imbevuto dalla sconfitta e dalla retorica dell’égalité di cui i giapponesi si erano riempiti la bocca solo quando erano stati dal lato di chi ha la testa premuta per terra invece di chi la spinge sotto la suola. Forse non erano stati anche loro la Britannia nel Giappone degli altri?

Era semplice darwinismo sociale, si disse. Lelouch non si faceva troppe illusioni sulla giustizia.

(Solo che invece se le faceva.)

Quindi era seduto a quel bar nella speranza che, svuotando il bicchiere di tutti i suoi alibi, avrebbe finalmente trovato la verità sul fondo, come il sedimento duro di una convinzione indissolubile spogliata delle passabili scuse che di solito la facevano scivolare meglio senza graffiare la gola.

In vino veritas.

La prima verità è che non aveva bisogno di fare la Rivoluzione.

Se il punto era mettersi in salvo, garantire a Nunnally di poter vivere serena, assicurarle un futuro tranquillo in cui non sentirsi minacciata, allora una rivoluzione era proprio l’ultima cosa che gli servisse.

Nunnally aveva soltanto lui, unirsi alle file della Resistenza significava rischiare di abbandonarla. E se gli fosse successo qualcosa sarebbe rimasta da sola ad aspettare il sicario che avrebbero mandato per rimediare all’inconveniente che non si fosse fatta il favore di perire quando credevano che fosse morta.

Dirsi che la sua felicità era il motivo per cui voleva combattere rendeva più scorrevole l’eloquenza pomposa della sua voce interiore che incitava alla rivolta, faceva scendere meglio il magone della colpa perché sapeva di giocare ai dadi con la vita di sua sorella, non solo la propria.

Era vero che, più di tutto, sperava di realizzare l’ideale di un Mondo Giusto che Nunnally avrebbe voluto vedere. Ed era vero che, anche oltre l’orizzonte della Liberté su cui Lelouch aveva fissato lo sguardo mentre Nunnally aveva chiuso il proprio, c’era la chimera di un trono su cui sedeva sua sorella, come una dea buona che vegliava sui deboli e aveva sopraffatto i potenti. Ma era altrettanto vero che, in tutta coscienza, rischiava di consegnarla solo alla Miglior Vita che i rassegnati vagheggiano dopo la morte.

Un altro sorso.

La seconda verità, legata alla prima, era che Nunnally fosse felice.

Era quello che gli aveva detto, quando stamattina l’aveva sentita canticchiare fra sé. Sono felice. Milly aveva sorriso e commentato che Nunnally fosse forte (era forte farsi bastare quel poco che non le avevano tolto?); lui era andato via con un pizzicore di fastidio che ora gli sembrava assolutamente meschino (era debole non essere contento di avere solo quello che è rimasto?).

Nunnally era felice. Lelouch era arrabbiato.

Perciò si trovava lì, a fare i conti con l’ammissione indigesta che si fosse sentito tradito da sua sorella (dopo tutto quello che avevano perso, non aveva anche lei voglia di vincere?), come se tirando per sbaglio il manto dell’altruismo avesse snudato la spalla di un’aspirazione che gratificava soltanto lui, qualcosa di più egoista che Lelouch non aveva coperto abbastanza in fretta da poter dire d’ora in avanti di non averlo capito. Il Meglio che voleva per Nunnally non era il Meglio che voleva Nunnally.

Lo voleva lui.

Ed era ancora più vile riconoscere che il pizzicore di fastidio fosse stato uno spasmo di risentimento a malapena trattenuto, quello che incattiviva la sua espressione nello specchio rosso e rivelatorio del vino e di cui riusciva a sostenere lo sguardo osceno solo adesso che aveva ordinato un secondo bicchiere.

La morte di sua madre per lui era stata un graffio, una scheggia delle vetrate esplose per i proiettili che gli si era conficcata in una caviglia quando si era buttato in ginocchio sulle scale.

Nunnally aveva perso l’uso delle gambe e sigillato la vista dietro il sipario buio delle palpebre. Lelouch vide la propria espressione indurita dall’astio, ma si confortò all’idea che avrebbe bevuto abbastanza da dimenticarlo... Perché lui aveva pagato il prezzo della sua fortuna tutte le volte in cui aveva sentito cedergli le gambe per la stanchezza e per il dolore, portando sulle spalle il peso di un piccolo mondo cieco, con i piedi che bruciavano nelle scarpe consumate sul suolo battuto dai bombardamenti; e quando le aveva detto che la loro prigione aveva pareti bianche e fiori e finestre piene di luce, perché il mondo che voleva descriverle era più gentile di quello che stava vedendo; e quando fissare dritto davanti a sé, oltre la linea mefitica dei cadaveri che imputridivano sotto il sole e il cielo nero di mosche sempre più basso, come il coperchio di una bara che si chiude seppellendo anche i vivi, significava che gli faceva male il collo per la fatica di non abbassare la testa.

A nove anni, quella speranza in un futuro migliore era stata la sua stella polare, qualcosa che poteva mostrare anche a Nunnally perché si trovava al di là delle Colonne d’Ercole del visibile: era una terra promessa che non andava solo raggiunta, ma fondata.

La sua patria era ovunque posasse i piedi un uomo libero, il suo popolo erano i deboli, la sua lingua quella di tante voci che dicevano in lingue diverse la stessa cosa: Giustizia.

Lelouch sorrise contro il bordo del bicchiere. Al momento non aveva nemmeno dei compagni di bevute e le voci erano solo quelle che sentiva abitualmente nella sua testa, almeno una quindicina che si rispondevano a vicenda; e la più denigratoria fra loro disse che era davvero così commovente.

(Qualche anno dopo, quella riflessione concepita al quarto sorso del secondo bicchiere di vino, buono solo ad accendere il fuoco della gastrite, gli avrebbe ispirato il discorso in diretta mondiale in cui aveva esordito dicendo: Cos’è un popolo?

Il discorso che avrebbe dato vita a una nazione in esilio guidata da un pifferaio pazzo che, con l’indice puntato sul nulla e raccogliendo incredibilmente seguaci fra coloro che forse avevano bevuto lo stesso vino nefando, si era messo a capo di una gita verso la famigerata Terra della Libertà! Una nazione formata da una sola stanza, avevano titolato i giornali.

E forse non era stata sua la voce denigratoria, ma di C.C., che poi aveva commentato ironica sei così commovente...)

Si forzò a ingollare un’altra sorsata di scherno e Ma Per Favore, Lelouch, il corrispettivo non meno caustico della risatina con cui esprimeva pressocché l’intero range – in realtà esteso – delle sue emozioni, peccato che tutte gli causassero la stessa crisi di ilarità. E poi dicevano che non sapeva divertirsi!

La terza verità era che volendo poteva semplicemente scappare con Nunnally.

Non è che non ci avesse pensato. Anzi, il problema era ignorare che quell’alternativa ci fosse. E, nell’interesse di sua sorella, sarebbe stata la scelta più saggia.

Aveva acquistato da tempo due passaporti falsi, che conservava in un cassetto, accuratamente nascosti sia da chi poteva trovarli curiosando fra le sue cose, sia dal rischio che la sua mano incappasse per sbaglio nelle loro fodere, come su una scritta in braille che diceva ti prego, restiamo insieme, non mi lasciare. Allen e Grace Spacer potevano andare ovunque volessero.

Ad esempio, in Europa. Per un breve momento tendenzioso aveva accarezzato l’idea di Parigi, ma l’aveva depennata subito scuotendo la testa: doveva tenersi lontano da qualsiasi Bastiglia che minacciava di stagliarsi nel panorama infuocato della sua mente come il profilo del Palazzo governativo di Tokyo quando lo immaginava avvolto da una spirale di fumo.

Niente Parigi.

Poteva persino andare in Australia, pensò adesso, con un singhiozzo divertito che gli fece contrarre la gola proprio mentre deglutiva. Inasprì le labbra, perché si era risposto che con la sua fortuna qualcuno si sarebbe finalmente accorto di quel continente e, spinto dall’improvvisa fregola di conquistarlo, avrebbe sganciato le bombe cinque minuti dopo il suo atterraggio.

Meglio lasciar stare l’Australia e non turbare i koala.

Tempo fa aveva steso sulla scrivania una grande mappa e posato il dito su un punto a caso. Il Molise. Chi mai doveva trovarli e men che meno cercarli in Molise? Non sapeva nemmeno che esistesse fino all’attimo prima di togliere l’indice e scoprire quel paese più piccolo della lunetta bianca della sua unghia.

In Molise, Allen e Grace Spacer potevano essere i pronipoti di due emigrati italiani che avevano deciso di tornare nella terra natia. Potevano pure cambiare nome (Alvaro e Graziella, perché no). In Molise, potevano vivere una vita perfettamente ordinaria. Grace o Graziella poteva finire gli studi. Allen o Alvaro poteva lavorare come contabile in una ditta di trapani, incontrare una ragazza, sposarla e avere dei figli, tutto quello che Lelouch non prevedeva per se stesso nemmeno quando abbassava le sue aspettative al limite della voglia di farla finita. E spesso indulgeva in quel pensiero, raffigurandosi Allen o Alvaro che aveva una station wagon con almeno due seggiolini nel sedile posteriore e un cane di nome Bobby, per farselo stare antipatico.

Voleva convincersi che attraversare il confine fosse pericoloso, ma suvvia, era davvero più pericoloso di mettersi contro una Superpotenza mondiale armato di bastoni e scodelle?

Quindi stava riciclando i soldi che guadagnava con le scommesse illegali dicendosi che con quelli avrebbero comprato casa in un Molise qualunque. Se lo diceva mentre studiava manuali di strategia militare mascherati dalle copertine dei libri di scuola; se lo diceva mentre spendeva quegli stessi soldi nei simulatori dei Knightmare per imparare a guidarli; se lo era detto tutte le notti nelle ultime settimane, trascorse a studiare ogni dettaglio di un piano, perché fra due mesi Clovis si sarebbe insediato come nuovo governatore dell’Area 11 e gli sembrava un’occasione propizia.

Se lo era detto fino a stamattina, reduce da un’altra di quelle notti insonni chino sulle planimetrie delle fondamenta di Tokyo, a farsi venire l’emicrania per lo sforzo di prendere appunti alla luce fioca dell’abat-jour; se lo era detto senza crederci nemmeno un poco finché Nunnally invece non aveva detto: sono felice.

Lelouch agitò la superficie del vino per cancellare il volto spregevole di quel fratello che l’amava più di ogni altra cosa al mondo, davvero... più di ogni altra cosa al mondo... e che sedeva a quel bar per convincersi che avrebbe comprato casa in Molise e se mai ci fosse stata una Rivoluzione l’avrebbe vista al telegiornale, nella modesta cucina della sua residenza in campagna, bevendo un vino un po’ meno scadente che però avrebbe avuto lo stesso sapore di questo.

(In retrospettiva, gli veniva da sorridere al ricordo di quanto si fosse lambiccato il cervello per elaborare quel piano, di cui, per inciso, tutto quello che poteva andare male era andato peggio prima di iniziare, quando bastava uscire di casa e vedere cosa la sorte gli avrebbe riservato quel giorno. Un giorno in cui per esempio avrebbe saltato la scuola, sarebbe finito per sbaglio a bordo di un camion guidato da due terroristi e così facendo si sarebbe imbattuto in un’arma chimica protetta dal segreto di stato che in realtà era una donna.

Lelouch era un uomo estremamente sfortunato o fortunato a seconda dei punti di vista.)

La quarta verità era che anche lui poteva rassegnarsi a essere felice.

A volte aveva l’impressione che si stesse adagiando. C’erano cose che non quadravano nei suoi attenti calcoli matematici, incognite impreviste in un’equazione che a volte non dava più lo stesso risultato del libro.

Cose come Milly, che sogghignava in modo sinistro quando lui e Shirley erano nella stessa stanza e che qualche giorno fa aveva chiesto con nonchalance quando si sarebbero messi insieme. Che domanda bizzarra. Non solo aveva mancato di chiedere il suo parere, ma anche quello di Shirley, che infatti aveva risposto: Chi? Noi? Ma figurati!

Si concesse di bere un sorso per sciogliere nell’acido la sensazione inspiegabile di avere degli insetti morti nello stomaco.

(Col senno di poi, sapeva che non avrebbe mai dovuto baciarla, davvero non avrebbe mai dovuto baciarla. Non avrebbe dovuto tenerla vicina, ma non troppo, lontana eppure abbastanza vicina. Avrebbe dovuto prenderle il viso e dirle – non so perché mi piaci ma è così – che non era il cattivo ragazzo in una favola moderna che deve essere salvato dalla protagonista buona, perché era salvo solo se era libero ed era libero solo se decideva di lottare.

Ma avrebbe dovuto dirlo a lei invece che a una lapide, dopo averla fatta rinascere e mille volte ancor morire finché non era morta davvero e non sarebbe più rinata per dirgli che lo avrebbe amato di nuovo.)

Poteva scegliere una vita ordinaria, un’altra Shirley, un’altra Milly, un altro consiglio studentesco, accontentarsi di vedere il bicchiere mezzo pieno, al modico prezzo di sentirsi mezzo vuoto.

Non aveva bisogno di combattere la causa di un paese che lo aveva disprezzato e umiliato fin dal suo arrivo, di usare un popolo di disgraziati a proprio vantaggio (la quinta verità: quale vantaggio?) e rischiare tutto per rompere le sbarre di quel Giappone che loro volevano liberare e da cui lui voleva essere liberato. Poteva scappare.

Bevve tre volte di seguito.

Che me ne frega?

Che me ne frega?

Che me ne frega?

Eppure le pareti di quella gabbia si allargavano insieme ai polmoni quando si riempiva il petto con l’afflato della parola Rivoluzione, come se dovesse urlarla a una platea di pugni sollevati; le pareti che poi tornavano a restringersi nella divisa scolastica di un personaggio fasullo quando faceva delle spallucce incuranti.

Che me ne frega?

Tornò a guardare in quel bicchiere, il terzo, a cui chiedeva risposta: agire o fuggire, tradire se stesso o tradire Nunnally.

Doveva forse andarsene a tasche vuote, come un pifferaio che ha rinunciato a saldare il debito?

La sesta verità: il debito era sua madre.

La settima verità: aveva pochissimi ricordi di sua madre e quei pochi non erano nemmeno così piacevoli.

L’Imperatrice Marianne aveva impartito ai suoi figli un’educazione marziale, perché prima di essere Imperatrice e, figuriamoci, madre, era stata un soldato. Aveva scalato la piramide sociale partendo non dai salotti, ma dalle campagne in Africa, non come dama di corte, ma come pilota di Knightmare, e senza essere nobile era arrivata al vertice passando dalla gerarchia militare fino a un trono nel cuore di suo padre, in cambio del trono su cui lo aveva fatto sedere.

Le sue mani, abituate ad accarezzare i comandi o la corazza d’acciaio di un Knightmare, si posavano sulle loro spalle senza usare più delicatezza, come se non riconoscessero la differenza tra il calore dell’affetto e quello del motore di una macchina. I suoi sì e i suoi no erano categorici. I rari e per questo preziosi cenni di approvazione gratificavano l’orgoglio come quello di una nuova leva che viene omaggiata da uno sguardo del suo generale.

Non ricordava che avesse mai dispensato molti gesti affettuosi. L’unica ad aver conosciuto l’abbraccio di sua madre era Nunnally, ma proprio il tentativo di proteggerla l’aveva resa un bersaglio per i proiettili. La morale, forse un po’ lacrimevole, di sicuro patetica, era che l’amore fa male, per questo non ci teneva poi così tanto a subirlo, si disse Lelouch, mentre però faceva ondeggiare di nuovo il bicchiere per cancellare un’espressione arcigna.

All’amore preferiva la guerra, perché almeno era onesta e non prometteva di dare senza togliere nulla.

(Allora, se fosse stato onesto, non avrebbe ferito le persone che amava, rifiutando di essere amato per non farsi ferire.)

Fissò i propri occhi nel riflesso, lucidi perché iniziava a sentirsi ubriaco, ma davvero lucidi perché si vedeva con più sincerità di quanto non facesse da sobrio. Della madre che voleva vendicare non gli restava un vero ricordo, ma un’idea mitizzata di madre: una madre, invece che sua madre, immortalata nella cornice di una fotografia dove indossava un abito blu e un sorriso che non le aveva mai visto fare al di fuori di quello scatto. Se non forse una volta, quando avevano guardato le stelle e lei aveva indicato il cielo come se il firmamento fosse l’ultima pagina nel loro libro del Destino.

(Adesso si chiese se a Nunnally avesse indicato la Vergine, la dea Dike con gli occhi bendati, che dispensa fra gli uomini bontà e giustizia. E se a Euphemia avesse indicato la vicina Bilancia, simbolo di imparzialità e uguaglianza, sorretta proprio dalla mano di Dike che con l’altra tiene la spada.

E se a lui avesse indicato invece l’Eridano dove morì quel folle che, per dimostrare di essere figlio di Apollo, volle guidare il suo carro. L’incauto era stato avvisato del rischio: se fosse salito troppo in alto avrebbe bruciato la dimora di Dio, se fosse sceso troppo in basso avrebbe bruciato la terra. E così, proprio per non aver saputo scegliere la via di mezzo, era stato punito e, trafitto da una folgore, era precipitato dalla torre d’avorio dritto nel dileggio e nell’odio di chi lo aveva visto cadere.

Si chiese se qualcuno si sarebbe mai radunato sulle rive del suo Eridano. Ma non voleva che ci fosse un amico Cicno, per lui, né le lacrime di una delle sorelle Eliadi: sperava che non piangesse nessuno.)

Bevve tirando indietro la testa.

L’ultima verità, l’unica: non voleva essere prigioniero di nulla, nemmeno del passato, perché preferiva morire libero che vivere schiavo.

Schiavo della menzogna di vivere, quello era davvero morire: non fare nulla, accettare, rassegnarsi a credere che un cambiamento non fosse possibile senza nemmeno provare, più per scarsa voglia di vincere che per paura di fallire.

Posò il bicchiere sul bancone con un rintocco, il suono di una risoluzione: bisognava volerlo, non aspettarlo.

Avrebbe avuto un esercito

(L’Ordine dei Cavalieri Neri)

e avrebbe fatto la Rivoluzione

(la Black Rebellion)

e avrebbe lottato

(contro tutti quelli che abusano del loro potere, al fianco di chi non ce l’ha.)

Era questo che vedeva con chiarezza attraverso la lente opaca sul fondo del bicchiere, come lo aveva visto a dieci anni con gli occhi appannati dal fumo che si sollevava dalla terra bruciata: un ideale da compiere, il disegno di qualcosa che andava creato, non il miraggio dell’illuso che pensa solo di trovarlo e a ogni passo non è più vicino a raggiungerlo. C’è un 14 luglio per ogni grande cambiamento della storia: il presente, qui e ora, in quel bar, poteva essere già la linea di frattura che avrebbe diviso il passato dal futuro, ma qualcuno doveva piazzare le mine.

Forse perché in effetti era ubriaco, gli sembrò che il suo cuore battesse all’unisono con quello di coloro che nella stanza sentivano gli stessi tamburi e che ci fosse in ogni luogo del mondo un altro bar come quello da cui si levava un identico grido di protesta.

Erano stati Giapponesi, erano stati Moldavi, erano stati Spagnoli, (era stato un principe che era stato un figlio ripudiato che era stato un ostaggio che era costretto a nascondersi come un ratto), avrebbero combattuto per essere Liberi, uniti sotto l’egida di una sola bandiera, cittadini di un Paese senza confini di razza, cultura, religione, fratelli dello stesso sangue, quello versato insieme affinché non si dovesse più versarne dell’altro, e il mondo sarebbe stato una grande tavola rotonda in cui tutti avrebbero potuto parlare da pari a pari–

(...l’Alleanza degli Stati Uniti, una gigantesca intesa fra Nazioni di potenza pari al Sacro Impero di Britannia. Amici! Noi siamo qui riuniti per determinare il futuro corso del mondo–)

Forse stava delirando.

(C.C. avrebbe detto che era un bambino il cui sogno di gloria era solo nella sua testa...)

Forse voleva l’impossibile, ma nessuno ha mai cambiato le cose accettando di non poterle cambiare (...e lui avrebbe detto che senza ascoltare ragioni si possono fare miracoli. Da quel capo del mondo, avrebbe detto freedom e dall’altro capo l’eco avrebbe risposto libertad, come in un bar di San Pietroburgo qualcuno stava dicendo proprio adesso svoboda e in questo bar di un ghetto di Tokyo–)

«Ehi! Merda britannica! Porta la tua puzza inglese da un’altra parte!»

«Tamaki!» disse un altro uomo, cercando di trattenere quello che si era alzato battendo il pugno sul tavolo.

Lelouch stese le labbra, come chi è sopraffatto dai bei ricordi. Solo che i bei ricordi erano quelli del suo primo periodo di cattività in Giappone e li aveva memorizzati nelle costole incrinate.

Non era davvero Tamaki, come non era davvero Ohgi, e a quel tavolo non c’era una Kallen, ma in un altro bar forse non si stava tirando indietro da una rissa. Il futuro nucleo del suo primo esercito.

Tamaki-che-non-era-Tamaki aveva scostato la sedia con le gambe facendola stridere e a grandi falcate stava attraversando il locale. «Stronzo, non mi hai sentito?»

«Lascialo stare» invocò sottovoce Ohgi-che-non-era-Ohgi, seguendolo.

Da un’altra parte, Kallen stava forse dicendo che non sarebbe rimasta a guardare, che suo fratello aveva combattuto fino alla morte e lei avrebbe vissuto per continuare a combattere.

Lelouch, coi gomiti poggiati sul bancone e ancora senza girarsi, fece ruotare il bicchiere vuoto nella mano. L’uomo si era fermato alle sue spalle, poteva sentire la tensione del suo corpo pronto all’attacco, il viso contorto dalla rabbia e la bocca che stava già per scagliare un altro insulto, l’ultimatum prima dei pugni.

«Manila» disse Lelouch con un leggero sorriso, sollevando il viso per rivolgergli un’occhiata distratta. Nel farlo ebbe un capogiro, ma credette, o forse sperò, che la sua compostezza si fosse mantenuta inalterata all’esterno.

L’uomo, in realtà un ragazzo poco più che ventenne, parve indietreggiare con una ruga di confusione sulla fronte, ma la sua furia rincarò all’istante fomentata dall’idea che si stesse prendendo gioco di lui, perché non aveva capito.

Lelouch non gli diede il tempo di contrattaccare. «Avete massacrato la popolazione della capitale filippina» spiegò tranquillo, anche se si accorse di biascicare. Si schiarì la voce e assunse un tono più resoluto, come il suo sguardo che si fece man mano più duro quando prese a incalzarlo. «Avete occupato la Manciuria. Causato la morte di milioni di civili sotto i bombardamenti o nei lager. Spazzato un’intera popolazione in Malesia. Avete sterminato le minoranze degli Hui musulmani in Cina. Finanziato il terrorismo nelle colonie britanne della costa Nord Africana, insediato governi fantoccio...»

L’uomo fece un passo avanti per interromperlo: «Che cazzo stai dicendo?»

Non aveva neanche iniziato. Voleva dire che il Giappone era stato l’ago politico della bilancia fra le maggiori Superpotenze mondiali durante la guerra che aveva calpestato e spianato i confini degli stati più piccoli sotto i cingoli dei carri armati, che non si era posto il problema finché non erano stati i propri, e che aveva strangolato l’economia di paesi già poverissimi...

Lelouch socchiuse e riaprì gli occhi. La sua espressione era decisa ma ragionevole, priva di condiscendenza, ma al contrario con una certa aria di sfida.

«Sto dicendo che i Giapponesi non sono diversi dai Britanni e l’unica vera differenza è quella fra deboli e potenti. Siete stati la scarpa che ha schiacciato filippini, cinesi, taiwanesi, malesi, coreani, tunisini, algerini, adesso siete sotto la stessa scarpa che schiaccia un terzo del mondo

Si alzò dallo sgabello, per fronteggiare Tamaki-che-non-era-Tamaki, che era più alto di una spanna e più grande dei suoi quindici anni.

«Una formica da sola può sollevare fino a cento volte il suo peso, che equivale a una mollica di pane. Un milione di formiche insieme possono sollevare un uomo.»

Un milione di miracoli possono spodestare un Impero.

«Non siamo formiche!» gridò lui.

Non aveva colto il punto, ma aveva decisamente colto la sua faccia e di preciso la bocca, che non aveva smesso di sorridere neanche dopo il terzo pugno in pancia, come ai vecchi tempi.

Quella sera, dopo aver faticato per inserire la tessera magnetica nel verso giusto, aveva schiuso la porta del piccolo alloggio ed era strisciato all’interno a luci spente, rasentando le pareti con la mano per appoggiarsi.

Nunnally era rimasta sveglia ad aspettarlo e lo aveva sorpreso mentre cercava di raggiungere la sua stanza senza far rumore.

Era difficile illudersi che non si fosse accorta dei suoi passi traballanti o che per raggiungerla avesse urtato un tavolino, ed era presuntuoso pensare che non avesse percepito l’urgenza nella maniera brusca di andarsene quella mattina.

Quando l’aveva aiutata a stendersi a letto non aveva potuto nasconderle la puzza dell’alcol, né l’affanno nel respiro per lo sforzo di piegarsi, e più di tutto il tormento di ben altri lividi che avevano sulla pelle solo un blando corrispettivo, persino liberatorio quando li toccava e dal dolore sentiva affiorare la cura, la forza.

«Lelouch?» Nunnally gli aveva preso una mano per trattenerlo. «Tu sei tutto quello di cui ho bisogno.»

Lelouch si era sentito un verme, anche se Nunnally aveva sorriso in modo sia dolce che triste, dispiaciuto eppure senza un verdetto di colpa: non aveva bisogno di toccargli il palmo per sapere che suo fratello invece non era felice. Lo conosceva. E forse, come chi segue il rigo con un dito, stava leggendo il tracciato della linea della vita che era già prossima al punto in cui si separava dalla sua.

L’indomani Lelouch si sarebbe svegliato in preda alla sua prima e ultima sbornia.

Avrebbe dimenticato quello che aveva visto nell’occhio del bicchiere vuoto, nella macchia rossa che somigliava ad ali di gabbiano spiegate come un presagio, e poi lo avrebbe riempito di nuovo di tutti i suoi alibi: lo faceva per vendicare sua madre, per il suo tornaconto, e soprattutto Lo Faceva Per Nunnally.

E dopo averli bevuti da capo, dopo aver mandato giù troppi sorsi, troppe sconfitte, troppe rinunce, dopo aver scoperto che la vendetta era insipida e non dissetava la rabbia, perché il bambino che aveva odiato suo padre era cresciuto nell’uomo che odiava il potere tiranno più di chi impugnava lo scettro; dopo aver sacrificato anche Nunnally in nome di un Bene più grande del bene che le voleva e aver ordinato altri giri, altre battaglie, altri non-ci-arrendiamo e costi-quel-che-costi, e guidato un Esodo verso quella terra di Canaan, la Pace, sapendo che la sua morte sarebbe stata l’atto di nascita del futuro da compiere che aveva visto, ma che non avrebbe visto compiuto... allora avrebbe grattato di nuovo il fondo dell’unica motivazione, un contenitore di pretesti che avevano reso più accettabile il fatto di bere da quel calice e di brindare a tutto ciò che aveva da perdere: fare quello che riteneva giusto, vivere per una causa e anche morire affinché dalle ceneri sorgesse un Mondo in cui lo schiavo non avrebbe dovuto uccidere il padrone, perché gli uomini sarebbero stati liberi e la Pace non avrebbe più reso necessaria la guerra.

L’Ideale.

 

*

 

«Non importa da quante angolazioni guardi il problema, la risposta è sempre stata la stessa. La conclusione a cui sono giunto allora non era sbagliata» disse Lelouch seduto a capo chino sulla sponda del letto, con le mani giunte fra le ginocchia.

Aveva la bocca asciutta, perché non gli restava più niente con cui bagnarsi le labbra per non sentire che si fossero spaccate troppe volte nel tentativo di sorridere. Di quel vino bevuto anni prima restava la nota ferrigna e tanninica della decisione che aveva preso alla fine dell’ultimo sorso... la decisione che presto avrebbe accompagnato il suo ultimo respiro, quando si sarebbe svuotato il petto come allora aveva svuotato il bicchiere.

La figura in controluce di C.C. si stagliava sulla soglia e in quel momento si mosse per venire a sedersi sul letto, ma dall’altro lato, con la schiena premuta contro la sua.

«Non hai già dato abbastanza? Quello che hai fatto è sufficiente.»

Chiederlo era superfluo, sufficiente non era abbastanza, doveva tentare il tutto e per tutto, ma forse C.C. sapeva prima che lo capisse lui che gli serviva sentirlo dire da se stesso.

Sentirsi dire che non avrebbe esitato a finire ciò che aveva iniziato, anche al rischio che Nunnally si unisse alla conta delle vittime insieme a tutte le sorelle degli altri, perché non poteva riservarle un trattamento diverso. Nunnally era sulla Damocles e questo significava che, se fosse stato necessario... allora, anche se...

«Fin dall’inizio lo hai fatto per lei.»

Quello era stato il sorso peggiore, una quasi-verità più dolce prima di toccare il fondo di se stesso: amava Nunnally più di ogni altra cosa al mondo, tranne forse quel mondo che voleva darle senza che gli avesse mai detto di volerlo.

I panni bianchi che indossava, i suoi vestiti nuovi dell’Imperatore, erano un camuffamento invisibile su cui risaltava solo il sangue. «In nome di tutte le vite che sono state sacrificate, non è possibile pensare di fermarsi. Non sei d’accordo, C.C.?»

C.C. gli spinse la testa con la propria e posò la mano sulla sua in un muto cenno di assenso.

Nonostante tutto, Lelouch sapeva che l’ultimo sorriso sarebbe stato il suo e che le ferite non lo avrebbero reso più falso, ma al contrario, forse per la prima volta... sincero.

In nome di tutte le Nunnally, anche a costo della sua.




 




Note sparse.

L’ultima scena, anche se ho sfoltito il dialogo, è quella dell’episodio 22. Nelle mie intenzioni, Lelouch sta ripensando a quel vino bevuto anni prima proprio nel momento in cui ha esaurito tutte le scuse e, come sappiamo, si appresta lo stesso ad andare fino in fondo con lo Zero Requiem.

Quindi siamo all’alba dell’ultima battaglia, Nunnally è sulla Damocles e Lelouch stesso dice che, in caso, non farà eccezioni per lei. Il resto è storia (sigh).

Ciò che volevo mettere in luce è che Lelouch non si è fermato neanche dopo aver ottenuto quello che in principio diceva di volere, segno che nel profondo l’unica motivazione incrollabile era l’ideale stesso, per il quale ha sacrificato tutto di sé, inclusa la gloria (e questo lo rende così traggggico e grande, arci-sob).

In Code Geass, l’Australia gode di un inspiegabile stato di grazia per cui non se la fila nessuno. Dalle mappe, possiamo apprezzare come da secoli assista a tutte le guerre spalmando vegemite sul pancarré felicemente spaparanzata sul divano. Beati i koala!

E mi scuso con i molisani, nulla di personale, solo colpa del vino!! (Auguratevi che non passi mai a qualcosa di più forte, o avrete un AU su Alvaro e Graziella. Mmmh, forse ho della vodka in salotto...)

   
 
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