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Autore: lucille94    14/06/2021    0 recensioni
Quando il suo nome diventa improvvisamente famoso in tutta Italia, Clarice Orsini è una ragazzina di quindici anni appena, poco più di una bambina. Ha folti capelli rossi, occhi verdi a tratti malinconici; è d'animo mite, ingenua per l'età giovanissima, chiamata dal destino - o piuttosto dalle ambizioni dei famigliari - a un ruolo per cui non è pronta, a un marito che non potrà mai comprendere fino in fondo: Lorenzo de' Medici, più tardi soprannominato il Magnifico.
Ciononostante, Clarice non è debole, perché per sostenere la pressione di un marito come il suo ci vuole coraggio, tenacia e dedizione.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rinascimento
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Il capo non ha biondo, perché non se n'ha di qua: pendono i suo capegli in rosso, e n'ha assai. La faccia del viso pende un po' tondetta, ma non mi dispiace. La gola è isvelta confacientemente, ma mi pare un po' sotiletta, o, a dir meglio, gentiletta. Il petto non potemo vedere, perché usano ire tutte turate; ma mostra di buona qualità. Va col capo non ardita come le nostre, ma pare lo porti un po' innanzi: e questo mi stimo proceda perché si vergogniava; ché in lei non vego segnio alcuno, se non per lo star vergogniosa. La mano ha lunga e isvelta. E tutto racolto, giudichiamo la fanciulla assai più che comunale; ma non da comparalla alla Maria, Lucrezia e Bianca. Lorenzo lui medesimo l'ha vista; e quando esso se ne contenti, tu lo potrai intendere.

Piero, giunto a quel punto, si arrestò. Aveva già letto tante volte quella descrizione per figurarsi la fanciulla, pure pensava che, se il figlio l'aveva già vista, tanto sarebbe bastato a farlo propendere per un assenso, qualora Lorenzo fosse stato del parere. Passò poi alla seconda lettera, quella scritta di propria mano dalla moglie, quella Lucretia tua che si firmava in calce con la confidenza di un'amica più che di una moglie. L'altra lettera, quella che aveva appena cessato di leggere, l'aveva scritta Giovanni e aveva un tono serio e analitico. La scrittura di Lucrezia, invece, risuonava della sua voce vera. Diceva: Chome ti dicho per letera di mano di Giovanni, noi abiano visto la fanciulla, con buono modo, e sanza dimostratione; e quando la cosa non n'abia avere effetto, non ci si meterà nulla del tuo, ché nullo ragionamento s'è avuto. La fanciulla ha dua buone parti, ch'è grande e biancha: non ha uno bello viso, né rusticho; ha buona persona. Lorenzo l'ha veduta: intendi da lui se la li piace; ché ci è tante altre parti, che s'ella sodisfaccessi a lui, ci potremo contentare. El nome suo è Crarice. (1)

Una volta di più era del medesimo parere di lei. Era qualcosa che capitava sovente nel loro matrimonio, un matrimonio ben riuscito a tutti gli effetti: prolifico e pacifico, quanto si potesse onestamente desiderare. Si rivolvette, perciò, a mandare a chiamare il figlio, tanto più che le due lettere gli si offrivano, con due frasi rivelatrici, l'occasione di prenderlo un po' in giro.

Lorenzo si fece annunciare dal rumore dei propri passi che, agili e scattanti, percorrevano il corridoio con una certa impazienza. Non bussò entrando nello studiolo del padre. Aveva un gran sorriso in volto e gli occhi gli brillavano ancora per il divertimento; aveva quel modo di fare sbarazzino dei giovanotti che sanno perfettamente chi sono e, anzi, eccedono di qualche misura nella stima di sé.

«Di nuovo a cavallo, tu e tuo fratello?» brontolò Piero, lasciandosi comodamente scivolare contro lo schienale della sedia.

«Di nuovo a cavallo, padre», rispose puntualmente Lorenzo, ravviandosi la zazzera di capelli neri che gli cascava sulla fronte. Aveva lo stesso sguardo di sua madre: occhi neri e pronti a saettare da un oggetto all'altro seguendo la rapida corsa di un intelletto acutissimo e, soprattutto, dotto.

«Bada che Giovanni non si rompa il collo», disse Piero, quasi burbero. Lorenzo sapeva leggere bene i modi di suo padre, perciò non si preoccupò e continuò a scherzare: «Del mio collo non v'importa nulla, padre?»

Uno scambio di sguardi fulmineo e Piero raggelò il figliolo con una battuta degna della provocazione: «Importerà a te, quando t'avrò detto le nuove di tua madre da Roma».

«Ha già scritto?» sobbalzò il ragazzo, perdendo in un attimo tutta la spavalderia. Piero tese le labbra e afferrò le due lettere, una per mano; se le distese davanti e, guardandole, osservò: «Non una, ma due lettere. Il medesimo giorno, per giunta! Tua madre non tace nemmeno quando si tratta di scrivere».

Lorenzo rimase ancor più perplesso; era sul punto di insistere con le domande, quando suo padre riprese a dirgli: «Ho come l'impressione che tu e lei foste in combutta per beffarvi di me».

«Beffarci di voi? Non v'intendo...»

«Tu m'intendi bene, bischero d'un garzone che sei: Clarice, figliola di Jacopo Orsini», continuò Piero, usando un tono burbero che non gli si addiceva. Lorenzo sbiancò e rispose subito a propria difesa: «Non so cosa vi abbia detto la mamma, ma...».

«Non m'ha detto niente, ecco!»

Lorenzo lasciò andare un lungo sospiro: «Forse perché non v'è molto da dire».

«Questo è da decidersi dopo, ora rispondi schietto: l'hai mai veduta, questa fanciulla?»

«Sì, l'ho veduta. Alla messa solenne di Pasqua in San Giovanni. Era poco più d'una bambina, ma mi piacque perché aveva i capelli rossi, perciò m'arrischiai a parlarle.»

«E che le dicesti?»

«Nulla di che, non rammento. Aveva perduto un guanto, credo, o altro...»

«E come ti parve?»

Lorenzo fece spallucce. «Graziosa, certo era graziosa, ma ve l'ho detto: era una bambina», poi, interrottosi bruscamente, riprese: «Ma perché me lo domandate?»

Piero avrebbe già smesso i panni dell'offeso, giacché non lo era, e avrebbe impugnato il pennino per vergare una risposta affermativa alle lettere della moglie: che lui la ricordasse era un segno evidente di interesse, benché un po' distante nel tempo, e il fatto di averla definita graziosa apriva alla speranza che potesse piacergli. Sapeva che per catturare l'attenzione del suo rampollo era necessario più di un bel visino: Lorenzo aveva conosciuto molte giovani donne, per quanto fosse lui stesso parecchio giovane, e sicuramente ne aveva dimenticata la maggior parte. La memoria della fanciulla romana, così vivida, era un buon inizio.

«Tua madre l'ha incontrata: dice che s'è fatta ormai una graziosa donnina. I capelli li ha sempre rossi e anche le forme sono buone.»

«Me ne compiaccio», intervenne Lorenzo, sempre più sospettoso e guardingo. Piero lo scrutò un momento: «Io credo che tu abbia un buon intuito per i migliori partiti, figliolo. Dunque, veniamo al sodo: se tra un paio d'anni la togliessi in moglie, ti garberebbe?»

Vedendolo spalancare gli occhi, Piero fu pronto a rincuorarlo: «Tua madre dice che si procederà solo con il tuo favore, perciò se non ti pare cosa da farsi, non si farà».

«Un paio d'anni...? Ma... Non avrò ancora vent'anni, padre», obiettò il ragazzo con tono di capriccio. «Voi vi siete ammogliato a ventotto!»

Stavolta il vecchio Medici sospirò, poi disse: «La mia salute è debole, la tua invece è nel pieno vigore: bisogna approfittare di questo, Lorenzo, per quanto possa parere un sacrificio».

Braccato da un'osservazione saggia come quella, il giovane tentennò, quindi, come aggrappandosi a un pretesto, ribatté: «Una sposa romana, per giunta! Voi mi farete rompere la tradizione; parleranno di noi, in città, diranno che ci siamo gonfiati a chiedere in sposa una Orsini!»

«Lo faranno di certo, mi allarmerei qualora non lo facessero: dovranno ben sfogare l'invidia. Tu non allarmarti per causa loro, perché i tuoi nemici non hanno bisogno di nuovi pretesti per odiarti visceralmente. Quanto al tempo», continuò, «c'è dell'altro: non potremo tenere nascosto a lungo un simile fidanzamento. Saranno pochi mesi prima che vi sposiate, una volta raggiunto l'accordo sulla dote. Intendi che se la notizia si diffondesse troppo presto, ci rimetteremmo non solo il matrimonio, ma la nostra stessa reputazione».

Lorenzo scosse la testa e intrecciò le dita, per nulla disposto a cedere così presto. «Penseranno che siamo deboli e che cerchiamo l'appoggio di potenti forestieri per irrobustirci. Potrebbero congiurare di nuovo contro di voi, tentare di uccidervi! No, padre: è bene che io aspetti e sposi una fiorentina, così gli animi si placheranno e non daremo adito alle voci che ci accusano di essere dei tiranni».

«Credi che sposando una fiorentina porterai pace alla città? La tradizione ha secoli di storia, e nondimeno i fiorentini non hanno cessato mai di ammazzarsi. È vero, siamo deboli; anzi, non siamo noi a essere deboli, ma tutta la città. È Firenze che deve stringere nuove alleanze, ora che le vecchie scricchiolano. Perché uno conosce i propri nemici, ma non gli amici.»

Piero era ben consapevole tanto del dispetto del figlio quanto del suo acume politico. Lo vedeva fremere di stizza, ma sapeva che quel matrimonio, con le promesse di potere e notorietà che si portava appresso, solleticava la sua ambizione. Se avesse voluto davvero evitarlo, avrebbe piuttosto mentito a Lucrezia, avrebbe taciuto il nome dell'Orsini e avrebbe ricusato ogni possibile fidanzata. Le sue proteste suonavano un po' troppo forzate per essere del tutto sincere. Perciò Piero, accostandoglisi per parlare sottovoce, concluse dicendogli: «A che scopo tua madre t'avrebbe chiesto delle fanciulle di Roma? Per cicalecci da lavandaie? Tu l'hai capito subito che sarebbe partita per cercarti moglie, poche frottole, e le hai detto di quella ragazza perché sai che sarebbe un gran colpo se la sposassi.»

Il figlio, incalzato dalle osservazioni, ammutolì. Suo padre riprese: «So che è la fretta a guastarti l'umore; ho avuto anch'io diciassette anni, figlio mio, e comprendo che tu ti senta troppo giovane per il matrimonio. È un sacrificio necessario per il bene della nostra famiglia».

Lorenzo aveva l'aria abbattuta e meditabonda. Il labbro inferiore, che naturalmente sporgeva un poco dal superiore, dava alla sua espressione una piega corrucciata. Piero attese un momento, poi: «Pensaci,» gli disse, «poi verrai a darmi il tuo responso.»

Così si accordarono. Uno tornò alle proprie lettere, l'altro ai cavalli. Giuliano stava ancora in sella, ma non sembrava tediato dall'attesa. Quando scorse sopraggiungere il fratello: «Che voleva il babbo?»

«Nulla, stupidaggini. Ora vuole farmi sposare», sbuffò questi, montando in groppa allo stallone con un solo balzo. Diede di sprone e cominciò a galoppare senza badare alla voce lo chiamava, pregandolo di rallentare. Le strade di Firenze erano strette e affollate, ciononostante i due giovani scavezzacollo videro aprirsi la folla di fronte a loro, la fendettero come un fulmine l'aria, superarono le porte e tornarono a correre lungo la via sterrata che si perdeva tra i campi coltivati.

A Lorenzo piaceva la quiete della campagna: la campagna era in grado di calmare i suoi stati d'animo più impetuosi, di placare dubbi e risentimenti nei declivi morbidi delle colline toscane. La natura lo riempiva di un entusiasmo positivo, perciò si stava lasciando alle spalle la città. Si allontanò quanto gli sembrò necessario, quindi deviò dal tracciato principale per addentrarsi in un boschetto che sorgeva sulla terra comune. Giuliano lo seguì.

Si arrestarono sotto una grande quercia; il minore dei due smontò per primo, sbrigandosi a prendere per le redini il cavallo dell'altro.

«Ora scendi e mi racconti», asserì perentorio, atteggiandosi da adulto quando non era che un ragazzino di quattordici anni appena compiuti. Lorenzo lo guardò dall'alto, facendo l'offeso.

«Che vuol dire che vuol farti sposare?» lo incalzò il fratello, strattonandolo per il lembo del mantello che pendeva dalla cavalcatura.

«Vuol dire che mi ha trovato moglie, e me l'ha trovata a Roma.»

«Roma?!»

Lorenzo, alla fine, scivolò giù dalla sella. «Tra due anni, due anni!»

Giuliano, davanti alla faccia imbronciata dell'altro, scoppiò a ridere fragorosamente. «Chi ti mancherà di più: la Francesca, la Nina o la morettina di due sere fa?»

«Sta' zitto, che sei ancora un fantolino, tu!» sbottò, immergendo le mani tra i capelli lunghi. «O non crederai mica che cambierà qualcosa.»

«E allora che cos'è che ti dà noia? Magari è pure piacente e spigliata come piace a te, e ci potrai stare tutte le volte che vorrai e farci quello che vuoi, senza che il Becchi vada a lamentarsi dal babbo per i tuoi eccessi amorosi.»

Lorenzo si morse una nocca per trattenersi dall'indirizzare a Giuliano epiteti poco educati. «E se fosse frigida? Se in fin dei conti non mi piacesse?»

«Tu non sei Adone, quindi non devi pretendere che lei sia Venere», lo prese in giro il fratellino impertinente. Per canzonarlo ancora di più, si avvicinò e gli trasse la berretta che aveva indossato prima di uscire. Era stato così lesto che Lorenzo dovette arrendersi a guardare il suo trionfo, il suo agitare la preda in aria con poca o nessuna cura.

«Parli così perché non toccherà a te», sospirò alla fine. Giuliano allora tornò da lui, gli calcò in testa la sua berretta e constatò, con una saggezza che Lorenzo non si sarebbe aspettato: «Il babbo e la mamma ti voglion troppo bene, quindi se ti fanno sposare hanno buone ragioni e si aspettano che sarai felice e contento anche così. Sarai ammogliato, sì, ma le tue favorite sono sempre alla tua portata, sbaglio? E poi Roma ti fa gola, lo sappiamo tutti.»

Lorenzo negò con la testa, sconsolato. «Se uno ha moglie, si prevede che presto diventerà padre, e con la paternità viene l'autorevolezza, e all'autorevolezza non si addicono le notti in taverna, gli schiamazzi e le burle. Mi pare che il tempo mi stia scivolando via tra le dita senza che lo possa afferrare, mi vedo già vecchio!»

«Non cadere nella solita malinconia, Lorenzo, non adesso. Forza, salta in groppa, che ti faccio cambiare aria.»

Ma era tardi per una simile raccomandazione. Il carattere di Lorenzo era naturalmente volubile: tanto era allegro un istante, tanto quello dopo era abbattuto. Giuliano sapeva che in questi casi non c'era che una cosa da fare, e cioè lasciarlo a sbollire la tristezza per conto suo. Avrebbe potuto fargli una predica degna di maestro Gentile, ma non avrebbe sortito alcun miglioramento del suo umore, quindi tanto valeva davvero rimontare in sella e ritornare verso casa. Lorenzo avrebbe pur avuto fame, prima o poi, e conosceva la strada. Perciò, vedendolo seduto ai piedi della quercia a rimuginare sul da farsi, lo salutò con un cenno della mano e se ne andò al trotto fischiettando l'ultima gagliarda che aveva ascoltato al ballo del carnasciale. Quando, quella sera stessa, seppe che suo fratello aveva accettato il proposito di sposare Clarice Orsini, non ne fu affatto stupito.

 

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(1) I brani riportati sono tratti dalle lettere autentiche di Lucrezia Tornabuoni inviate al marito il 28 marzo 1467.

I testi completi sono facilmente reperibili online.

 

   
 
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