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Autore: Saelde_und_Ehre    14/06/2021    5 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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XXV.
Aus dem stillen Raume, aus der Erde Grund,
hebt mich wie im Traume dein verliebter Mund.


Il suono delle fanfare, che si spandeva da un capo all’altro del lungo viale costeggiato d’alberi, scandiva il passo delle compagnie in grigioverde. Marciavano ordinati al ritmo festoso di tamburi e ottoni, seguiti da motori rombanti e dallo scalpiccio dei cavalli che trainavano le batterie. I comandanti di compagnia in alta uniforme, le sciabole al fianco, guidavano i loro reparti; al posto di von Kleist c’era Fromm, affiancato da Hartmann, Wessel, Körner, e Kühn che reggeva lo stendardo.
Appese alle aste, le bandiere rosso sangue con la svastica erano macchie di colore che contrastavano con lo scenario che faceva da sfondo alla parata. Le facciate dei palazzi, che conservavano tracce della loro superba architettura – e che il capitano Fromm, con una certa malinconia, aveva definito immagini sbiadite di un’epoca ormai andata – erano rovinate dai bombardamenti: la guerra sembrava ormai un ricordo lontano, ma aveva lasciato su Varsavia un segno duraturo. La folla assiepata sui marciapiedi era reticente, ma di tanto in tanto, tra gli sguardi diffidenti, qualcuno applaudiva o agitava i fazzoletti; i militari salutavano a braccio teso.
Quando i fanti giunsero davanti alla tribuna d’onore, una banda attaccò a suonare l’inno nazionale e Die Fahne hoch, e i reparti resero omaggio ai comandanti d’armata e al Führer. I cannoni sparavano a salve, gli aerei tracciavano acrobazie in cielo.
Dopo la fanteria, fu il turno degli altri corpi: cavalleria, artiglieria, carri armati che avanzavano in file ordinate, come i veri protagonisti di quella guerra lampo; e poi le truppe da montagna, l’aeronautica, la marina.
“Sai, a me sarebbe tanto piaciuto arruolarmi in marina, ma poi ho scoperto che soffrivo di mal di mare: ci sono rimasto malissimo,” confidò Hartmann a Kühn, indicando i marinai che marciavano con le loro giubbe bianche, i fucili in spalla e i caratteristici berretti. “Era il mio sogno fin da piccolo, e a volte continuo ancora a immaginare di essere insieme a loro.”
“Posso capire come ti sei sentito,” ammise Erich.
L’altro lo scrutò di traverso. “Che vuoi dire? È capitato anche a te?”
“Vengo da una famiglia operaia, e quando è morto mio padre ci trovavamo sul lastrico… però poi ci siamo ripresi, e io sono riuscito a entrare nell’esercito come avevo sempre sognato. E ti dirò, a me non dispiace stare qui in fanteria: siamo tutti uniti come fratelli, e poi mi piace l’azione in prima linea.” Fece un mezzo sorriso. “Di certo non ci si annoia.”
“L’uniforme grigioverde non è male, ma io continuo a preferire il mare. Ci sei mai stato tu?”
Erich scosse la testa. “No, non ancora, però qualche volta vado a fare il bagno nella Spree, nei tratti meno frequentati. Una volta sono pure salito su un battello.”
“Allora non puoi capire.”
“Tu di dove sei?”
“Lipsia, ma vado sempre in vacanza al mare in Pomerania. Adoro le storie di pirati e di marinai, e salgo spesso sugli scogli per guardare le navi che prendono il largo. Deve essere davvero bello trovarsi in mezzo al mare, giorno e notte, circondati dallo spazio sconfinato… deve essere una sensazione di libertà impagabile, da condividere con dei camerati su cui poter contare in qualsiasi momento, nelle gioie e nelle avversità.”
Hartmann rivolse un ultimo sguardo malinconico ai cadetti della Kriegsmarine che si allontanavano e, in silenzio, Erich lo imitò mentre sfiorava il berretto per salutarli.
“Bismarck, torna qui!” sibilò Krause all’improvviso, ma gli altri soldati, concentrati sulla sfilata, non parvero far caso a loro. Otto, sfuggito al suo custode, si avvicinò al ragazzo, gli annusò gli stivali e si accucciò scodinzolando ai suoi piedi.
“Lascia perdere, ci penso io.” Il sottotenente diede al cane un’affettuosa pacca sulla testa, e il caporale, scusandosi dell’inconveniente, gli restituì il guinzaglio.
“Vedo che siete diventati amici,” osservò l’altro.
“Ho deciso di portarlo a casa con me,” annunciò, poi rise sommessamente. “A mia madre prenderà un colpo, ma so già dove sistemarlo. Me ne occuperò io.”
Hartmann stava per rispondere, ma la conversazione fu interrotta da un altoparlante, attraverso il quale riecheggiò la voce di Adolf Hitler in persona.

Precedendolo lungo corridoi rischiarati dalla luce fredda delle lampade, che accentuava il pallore delle pareti verdognole, il capitano medico si muoveva con passi lenti e misurati. Era lo stesso uomo che si era occupato di Hans al fronte quando era rimasto ferito da una scheggia, ed era solo grazie a lui se il giovane aveva ottenuto il permesso di effettuare quella visita. Si fermò davanti alla porta di una camera di degenza e l’aprì con cautela, facendogli cenno di abbassare la voce. “Il capitano sta ancora dormendo, ma può entrare. Solo… devo chiederle di non disturbarlo troppo, è ancora molto debilitato fisicamente.”
Hans annuì, si tolse il berretto ed entrò in punta di piedi, con l’impressione di varcare la soglia di un luogo esclusivo in cui lui era soltanto un profano. Gli fece uno strano effetto vedere Friedrich che giaceva tra le lenzuola di quel lettino, coi capelli che gli ricadevano sul viso pallido. Una fasciatura gli circondava la fronte e altre bende bianche spuntavano da sotto le maniche della camicia, ma fu la vista della flebo a provocargli un’immaginaria fitta di dolore, proprio nel punto il cui il proiettile lo aveva colpito.
Gli avevano raccontato tutta la storia, di come lui si era quasi sacrificato per proteggere la bandiera: avevano definito il suo gesto eroico, anche se Hans non era sicuro che fosse il termine giusto. Gli avevano detto della corte marziale, dei pubblici encomi, del processo che non ci sarebbe stato. Gli avevano riferito che era grave, che le schegge erano penetrate in profondità, che era rimasto intossicato dal fumo dell’esplosione… che non sapevano se ce l’avrebbe fatta. Hans si era tormentato per giorni nel suo letto e, non appena lo avevano rilasciato, era salito sul primo treno per Varsavia e lo aveva raggiunto.
Si avvicinò stando attento a non far rumore, prese una sedia e l’avvicinò al letto del giovane. Sul comodino c’era un libro dalla copertina blu, che riconobbe subito: era “Nelle tempeste d’acciaio”, lo stesso che lui gli aveva prestato prima di partire per la Polonia. A fare da segnalibro, la fotografia con la loro frase: “Quando la fedeltà di tutti viene meno, noi rimaniamo fedeli. Fedeli come le querce tedesche, come la luna e la luce del sole.”
Si lasciò scappare un sospiro affranto: era quello che gli aveva ripetuto all’ombra della cappella, un giorno prima di beccarsi la famigerata pallottola. Gli sfiorò la guancia con una fugace carezza e tastò la scatolina che teneva nella tasca dell’uniforme, come per accertarsi che fosse ancora lì, poi si mise a leggere, iniziando la sua veglia silenziosa.
Fuori dalla finestra, il cielo si tingeva dei colori pastello del tramonto.

Lo scenario grigio e cupo palpitava di un’instabile vibrazione, come se fosse la pellicola di un film muto. Tutto era silenzio, ma esso non suggeriva pace: il fuoco distruttore aveva lasciato dietro di sé soltanto un’immane distesa di rovine, cancellando ogni traccia di presenze umane – tranne una: tra esse si aggirava solitario un cavaliere, che conservava solo un ricordo evanescente di ciò che era accaduto, come una sorta di reminiscenza. Non riusciva a capire se ciò che immaginava fosse successo davvero o se avesse sognato tutto, ma era sicuro di non essere riuscito a vederlo coi propri occhi. Tuttavia rinunciò a dare un seguito a quei pensieri e si allontanò al galoppo, le redini in una mano e lo stendardo in un’altra.
Cavalcò a lungo attraverso una distesa brulla, che forse un tempo doveva essere un prato. Qua e là si intravedevano ancora residui di filo spinato e spade spezzate; sullo sfondo dominava l’imponente sagoma di una quercia piegata, i cui rami scheletrici si protendevano verso il cielo come supplici. Sembrava testimone di secoli, ma non doveva aver visto la distruzione.
All’ombra dell’albero, intravide un’alta figura di spalle: era un cavaliere che scrutava l’orizzonte dall’orlo di un precipizio. Il suo mantello bianco spiccava su tutto quel grigiore, la cotta di maglia mandava riflessi argentei; dal suo fianco pendeva una spada. Sullo sfondo c’erano un fiume circondato da fitte foreste, un castello arroccato su una collina e un paesello di case a graticcio, ma parevano privi di spessore, come su una scenografia artificiale.
Smontò da cavallo, si tolse l’elmo e si avvicinò titubante a quella figura, che irradiava un’aura familiare. “Hans? Hans, sei tu?”
Il cavaliere si voltò verso di lui, si sfilò l’elmo a sua volta e gli rivolse un sorriso enigmatico. “Ci rivediamo, Friedrich.”
Egli ricambiò il sorriso. “Ce l’ho fatta, abbiamo vinto.”
“Lo so. Ti stavo aspettando, mi chiedevo che fine avessi fatto.”
Lo sguardo di Friedrich si posò sul vecchio albero. “Ma dove siamo? Tu…” Non riusciva a capire: se Hans era morto e lui lo aveva davanti agli occhi, voleva dire che…
“Le radici delle querce sono salde: non basta reciderne i rami per farle morire,” gli disse l’altro, come leggendogli nel pensiero.
“Ma anche l’albero più robusto muore, se viene colpito da un fulmine.”
“Guarda bene: le sue radici sono rimaste ancorate al terreno. La tempesta lo ha scosso, ma non abbattuto.” Sospinta da una folata di vento, la visione riacquisì colore, il fiume riprese a scrosciare e le fronde a stormire, mentre gli uccelli cinguettavano spensierati. La quercia si rialzò come se fosse dotata di vita propria; i suoi rami si estesero, caricandosi di foglie di un verde intenso. Anche la pallida figura di Hans, che prima era remota come una vecchia fotografia, riprese consistenza, e un refolo di vento arricciò i suoi capelli castani. “Ciò che è appassito può rinascere, nel ciclo eterno delle stagioni, e la sua morte è solo apparente.”

La visione svanì e Friedrich si ridestò, ritrovandosi nella stanzetta d’ospedale nella quale risiedevano le confuse memorie degli ultimi giorni: immagini sfocate, come viste dal fondo di uno stagno, frammenti di frasi che non era riuscito a rielaborare razionalmente. E non voleva pensare all’abisso di dolore che, dopo aver ghermito la sua mente e il suo animo, aveva fatto scempio anche del suo corpo. Anche se la coscienza andava e veniva, si sentiva ancora debole, confuso, come se la sua testa fosse foderata di ovatta. Si voltò appena, con fatica, e intravide un uomo seduto accanto al letto, con un libro tra le mani. Nonostante la vista annebbiata, lo riconobbe subito – lo avrebbe riconosciuto tra mille – e gli parve di essere intrappolato in una sorta di delirio lucido, in bilico tra sogno e crudele allucinazione.
Hans – o quel fantasma prodotto dalla sua mente, che aveva preso le sue sembianze – si accorse di lui e richiuse il libro, poggiandolo sul comodino. “Friedrich,” disse semplicemente, fissandolo coi suoi occhi ambrati e un accenno di sorriso sulle labbra.
Il capitano sbatté le palpebre esterrefatto, strinse gli occhi e lo fissò, ma la visione non scomparve. “Hans?” balbettò.
“E chi, sennò? Certo che sono io.”
Friedrich si sentì investire da un’emozione indescrivibile, le ciglia gli si inumidirono e si vergognò di quel momento di debolezza. “Io… credevo che… com’è possibile?”
Hans allungò la mano a sfiorare la sua, ed egli la strinse, sentendola calda e ruvida. “Lo so, mi avevano dato per morto in parecchi,” gli disse. “Ma come vedi sono qui, in carne e ossa.”
Solo a quel punto riuscì a dare un nome a quello che provava: si sentiva felice, sollevato. Faticava a capire quello che stava succedendo, ma non gli importava. Hans era vivo, e lui…
“So quello che è successo dopo che sono rimasto ferito,” continuò l’altro, senza scomporsi. “Sei stato coraggioso, hai vinto su tutti i fronti.”
Nell’udire quelle parole, gli tornò in mente tutto. Un flusso di memorie che apparivano e scomparivano, come immagini impressionistiche ed echi lontani, gli fece capire il senso del suo sogno. “Abbiamo vinto,” lo corresse in un sussurro.
“Non voglio prendermi meriti che non mi spettano.” Hans frugò nella tasca, ne trasse un cofanetto nero e glielo porse. “E a tal proposito, questa è per te: te la sei meritata.”
Friedrich lo prese tra le mani e lo aprì, mentre Hans leggeva ad alta voce l’attestato: “In nome del Führer e comandante in capo della Wehrmacht conferisco la Croce di Ferro di prima classe al capitano Friedrich von Kleist. Varsavia, 1° Ottobre 1939. Firmato, il tenente generale e comandante di divisione Erwin von Salza.”
Rimase per qualche istante ammutolito, a rigirarsi tra le dita la medaglia di freddo metallo. Non ricordava quasi niente di come l’aveva conquistata, ma comprese all’istante che la situazione si era risolta esattamente come avrebbe voluto lui. Forse, addirittura meglio di quanto si fosse aspettato. Niente corte marziale, niente disonore…
“Visto che hai una certa tendenza a farti ferire per dimostrare il tuo valore, il generale ha deciso di ricompensarti con questo gingillo,” scherzò Hans.
Colto alla sprovvista, Friedrich si lasciò scappare una lieve risata. “Potrei dire lo stesso di te!”
Il maggiore rise a sua volta. “Sì, infatti questa è la frase che ha detto von Salza a me giusto ieri, testuali parole. Ma le ferite sono un motivo d’orgoglio, no?”
“Ti hanno mica detto quante schegge avevo addosso?”
“Parecchie, ma per fortuna non hanno colpito punti vitali.”
Friedrich fece una smorfia. “Vorrei dire che ti batto, ma non sono io quello che è magicamente resuscitato dopo che tutti avevano inventato fantasiose storielle sulla sua morte.”
“Poi vorrò sapere in quanti modi sono morto, così prendo nota,” replicò il maggiore.
“Solo se mi prometti di non prendere spunto.”
“Fino a prova contraria, sei tu quello che ci ha provato. Io non l’ho fatto apposta.”
Si guardarono negli occhi e non poterono fare a meno di ridere all’unisono, consapevoli dei sottintesi che si celavano sotto quelle battute.
In quel momento, qualcuno bussò alla porta: il tempo delle visite era esaurito. Hans non riusciva a capacitarsi di quanto in fretta il tempo fosse passato, e gli dispiacque lasciarlo. Gli strinse appena il braccio in segno di saluto, nell’unico punto senza fasciature, poi guardò l’orologio. “È già l’ora… devo andare.”
Il capitano si rabbuiò. Avrebbe voluto chiedergli di restare, dirgli cose che non avrebbe potuto dirgli in quel luogo, ma si limitò ad annuire. “Tornerai?”
“Resterò,” gli promise l’altro, raccogliendo il berretto da ufficiale. Lo salutò ancora una volta e uscì, lasciandolo solo.
Friedrich sprofondò nel cuscino, guardò per l’ultima volta la medaglia sul comodino e la sedia accanto al letto. Era come se tutte le tessere di un mosaico fossero tornate al loro posto.
Tutte, tranne una.

Il principe von Bentheim und Steinfurt si fermò di fronte allo specchio, senza veramente guardare l’immagine che vi era riflessa: un’esile lama di luce rimbalzava sulla cornice dorata, ma lasciava in ombra la sua figura, di cui s’intravedevano solo i fregi bianco-argento che ornavano l’uniforme di gala e la croce di ferro di prima classe appuntata al petto.
Tornava raramente al palazzo di famiglia, di cui conservava solo qualche sbiadito ricordo d’infanzia, né lo faceva mai volentieri, ma in quell’occasione era stata quasi una tappa obbligata: sua madre aveva organizzato un ricevimento per festeggiare la vittoria, mettendolo di fronte al fatto compiuto. Aveva invitato aristocratici e generali prussiani, veterani della Grande Guerra che di lì a poco lo avrebbero salutato, gli avrebbero stretto la mano e chiesto di raccontare le sue esperienze di guerra mentre bevevano champagne. Forse gli avrebbero presentato le loro figlie, di cui lui avrebbe cortesemente declinato ogni proposta. Avrebbe incontrato parenti che conosceva a malapena, che forse non aveva neanche mai visto in ventisei anni della sua vita, e che si sarebbero comportati con lui con l’atteggiamento formale che si doveva a un eroe di guerra.
Arretrò nel buio, indossò i guanti bianchi e raccolse la sciabola cerimoniale. Come echi lontani, iniziò ad avvertire le voci degli ospiti che si scambiavano saluti nell’atrio.
Si sentiva fuori posto in quel contesto – fuori dai campi di battaglia, lì dove era riuscito a conferire un senso più profondo alla sua esistenza e agli obiettivi che lo accompagnavano da sempre, lì dove erano le azioni a forgiare gli uomini e non la retorica di chi discorreva di guerra dalla poltrona di casa, come se fosse solo un banale agone.
Le chiacchiere da salotto lo stancavano, e aveva sempre considerato inutili orpelli le medaglie che non fossero state conquistate col sangue e col sudore della fronte.
Nel suo caso, il prezzo era stato molto più alto di quanto non sarebbe mai stato disposto a pagare: si era ripreso dopo la sua lunga convalescenza, ma quella battaglia gli aveva inferto ferite che non potevano essere risanate. Tuttavia, riteneva inutile lasciarsi prendere dalla nostalgia e dal sentimentalismo senza considerare tutto il resto. “Che valore ha la nostra vita per l’esercito del Reich? Morire per la Germania è per noi il più grande onore”, recitava la canzone che Reinhardt cantava sempre insieme ai suoi compagni.
A lui non restava altro che onorare la sua memoria.

Il campo era solcato dai cingoli dei Panzer, i cui motori sotto il sole facevano tremolare l’aria rovente. Alcuni rapporti segnalavano che la fanteria polacca si stava muovendo per intercettarli, ma nessuno era riuscito a localizzarla con esattezza.
“Dobbiamo necessariamente farci un’idea più chiara della situazione prima di schierare le truppe,” disse Konrad, indicando la vastità del territorio in cui si alternavano alberi e campi. “E i polacchi potrebbero essere ovunque. L’ideale sarebbe andare a perlustrare le linee di persona, ma non abbiamo nessun mezzo di trasporto.”
Reinhardt rifletté un attimo, poi sembrò illuminarsi “Aspetta, ci penso io.” Si allontanò a grandi passi, senza attendere replica, poi tornò qualche minuto dopo annunciato dal rombo di un motore. Quando riapparve nel suo campo visivo, era in sella a una moto, coi capelli scompigliati e un sorriso spavaldo.
Konrad lo guardò perplesso mentre si fermava di fronte a lui. “E quella dove l’hai trovata?”
Reinhardt diede gas, facendo ruggire il motore come se fosse una bestia aizzata. “Non fare domande e salta su, altrimenti ti lascio a piedi!”
Egli aggrottò le sopracciglia, tuttavia fece come il compagno gli aveva proposto: non era nuovo a certe trovate, e la cosa lo divertiva più che meravigliarlo. Reinhardt partì subito dopo, s’immise in una zona protetta dagli alberi, sfrecciando e zigzagando tra i tronchi a gran velocità; curvò bruscamente sollevando una gragnola di sassi, poi si fermò con una sgommata.
Sceserò entrambi, sfruttando la copertura di un alto cespuglio dietro cui si nascondeva un punto d’osservazione. Konrad scosse la testa mentre l’altro dava un colpetto affettuoso sulla carrozzeria nera, leggermente sporca di terra: era simile a quella che aveva comprato di punto in bianco a una fiera di Berlino, e che usava per trascinarlo nelle sue avventure.
“Come se fosse il dorso di un cavallo,” lo prese in giro.
“Vedi, te l’avevo detto che dovevi fidarti di me,” gli disse Reinhardt. “So domare le bestie a motore, io.”
Konrad gli tirò un buffetto sulla spalla e afferrò il binocolo. “Come se non lo sapessi fare anch’io. Vieni, andiamo.”

Quella festa gli appariva soltanto come una vuota celebrazione se non poteva condividerla insieme a colui con cui aveva affrontato gran parte del percorso. Avrebbe tanto voluto parlargli, festeggiare quella vittoria insieme a lui, guardare alla battaglia successiva, che si preannunciava già nell’aria, con la consapevolezza che lui ci sarebbe stato.
Gli sarebbe mancato tutto di lui: il suo ardimento, i suoi modi ottimisti e scanzonati, il suo coraggio che non rasentava mai l’incoscienza, bensì era consapevole dei rischi e sapeva evitarli. Tuttavia, per quella sera non poteva permettersi di indugiare in quei pensieri, onde evitare di scoperchiare il vaso di Pandora dei ricordi.
Controllò ancora una volta allo specchio che tutto fosse a posto, poi cercò di imporsi la solita maschera d’imperturbabilità che sfoggiava alle celebrazioni ufficiali e uscì per ricevere gli ospiti. Non si sarebbero senz’altro accorti di niente, nemmeno del silenzioso brindisi che aveva intenzione di rivolgere a chi più di tutti i presenti lo meritava.

In quel grigio pomeriggio d’ottobre, la pioggia picchiettava monotona sul tetto e disegnava ghirigori sui vetri. Hans entrò in casa e si tolse gli stivali zuppi, l’impermeabile e il berretto, frizionando con una mano i capelli umidi.
Prima ancora di andare a cambiarsi, allentò la giacca dell’uniforme, mise l’acqua nel bollitore e accese il fuoco. Si perse nei suoi pensieri mentre guardava distrattamente fuori dalla finestrella schermata dalle sue solite tende blu, nella cucina che era ancora spoglia come l’aveva vista sua zia anni prima: del resto, ci viveva solo lui.
Era tornato in servizio, aveva rivisto le facce conosciute: Wolff, Fromm, Wessel, Walkenhorst; Bentheim, che era stato trasferito in un’altra unità; Schwieger coi gradi di maggiore; von Rauheneck, che gli aveva fatto la solita paternale come discorso d’accoglienza, ma poi aveva iniziato a concedergli una maggiore fiducia. C’erano tutti tranne Friedrich, ancora in convalescenza.
Gli aveva fatto uno strano effetto rientrare in caserma dopo tutto ciò che aveva vissuto al fronte, vedere le facce stranite dei soldati che lo avevano creduto e dato per morto, diffondendo la notizia come se fosse qualcosa di inequivocabile.
Quando Konrad gli aveva parlato di Reinhardt, si era reso conto di quanto le vite di tutti loro fossero appese a un filo, come se un solo fatale proiettile potesse porre fine a qualcosa che si era costruito in anni di perserveranza. Imprevedibile e ineluttabile e, come tale, capace stravolgere l’intero equilibrio. Anche lui c’era passato – cambiava solo l’epilogo. Si era seduto sotto la quercia e si era ripetuto che, se anche fosse successo a Friedrich, sarebbe stato fiero di lui e del suo coraggio. Tuttavia, anche se i sentimenti erano ormai una cosa scontata, che non aveva bisogno di essere espressa a parole, non riusciva a immaginare la vita militare senza di lui, senza la sua costante presenza sul campo di battaglia.
Il lento gorgoglio dell’acqua che bolliva interruppe quel flusso di pensieri; Hans spense il fuoco e versò l’infuso nella sua tazza. Le sue giornate si susseguivano monotone: si alternava tra servizio e casa, a leggere un libro su quella poltrona o a passeggiare lungo il fiume. Non vedeva Friedrich da più di due settimane e poteva sentirlo solo attraverso i telefoni pubblici e solo per tempi limitati, senza parlare con lui come avrebbe voluto.
Forse gli altri non avrebbero mai capito cosa si provava – le mogli li aspettavano in patria mentre combattevano e li riaccoglievano, al ritorno, nel tepore delle loro case. Lui, invece, aveva Friedrich che lo aspettava in caserma e stava al suo fianco sul campo di battaglia. Era la vita che aveva scelto e aveva deciso di condividerla con lui, coi rischi che portava con sé.
Con la tazza in mano, tirò fuori dalla tasca la lettera di sua sorella, andò a sedersi alla scrivania e decise di rompere quel lungo silenzio: avrebbe fatto un salto nel Baden e, come aveva già intenzione di fare, avrebbe portato anche lui.

Le scuderie emanavano un familiare odore di fieno fresco. Manfred uscì tenendo alla briglia il suo cavallo e balzò subito in sella, in attesa che anche suo fratello lo raggiungesse. “Forza, muoviti, altrimenti parto senza di te!” Xanto, il suo fidato purosangue orientale, tese i muscoli impaziente; il sole traeva riflessi argentati dal suo lucido manto bianco.
Friedrich non rispose subito e, quando uscì, conduceva alla briglia un imponente cavallo baio dal manto color nocciola. Nonostante l’aria malinconica, un po’ persa nei suoi pensieri, si sforzò di simulare un sorriso. “Fai come vuoi, ti recuperò strada facendo. Tu sarai veloce sul tuo aereo, ma col cavallo so tenerti testa.”
“Dove l’hai lasciato il buon vecchio Sleipnir?” domandò Manfred.
“Non voleva uscire: credo sia stanco, ieri l’ho sfinito nella corsa a ostacoli… sai com’è fatto. Questo cavallo è il preferito di Hans, lo cavalcava sempre lui.” Mise il piede nella staffa, si issò agilmente in sella e diede un colpetto sul collo del cavallo, che partì al passo.
A Manfred non era sfuggita la nota di nostalgia con cui Friedrich aveva pronunciato l’ultima frase, tuttavia fece finta di niente e lo precedette, imboccando il viale che portava al boschetto in cui cavalcavano sempre. I giardinieri avevano rimosso le foglie secche, ma nuovi strati continuavano a cadere vorticando per terra, staccandosi dai rami degli alberi spogli, e crepitavano sotto gli zoccoli dei cavalli. Ovunque regnava il silenzio. L’aviatore proseguì per un tratto; poi, accertatosi di trovarsi da solo col fratello, riprese: “Visto che hai rammentato Hans, mi chiedevo… che fine ha fatto?”
“È sempre a Potsdam, non so quando lo rivedrò.” Friedrich si strinse nelle spalle: era sempre molto restio a parlarne, ma ogni volta che lo faceva il suo tono di voce cambiava.
“L’ho incontrato all’ospedale, quando sono venuto a trovarti,” disse Manfred.
Il capitano lo sorpassò, ma non rispose. Quell’atteggiamento gli fece capire di aver parlato troppo, ma anche di averci visto giusto. Abbassò la voce. “Era molto preoccupato per te.”
“Non ne aveva motivo,” replicò Friedrich. “Ho fatto quello che dovevo fare… per entrambi.”
Manfred rimase per un po’ in silenzio, poi raggiunse una pendio e smontò da cavallo, imitato dal fratello. Lasciò l’animale a brucare l’erba e si allontanò di qualche passo, volgendo lo sguardo al cielo di un intenso color zaffiro. “Sai, mi ricordi molto la protagonista del romanzo di Heidi von Tannenberg.”
“Chi? La sorella di Werner ha scritto un libro?”
L’aviatore tirò fuori dalla tasca un volume in formato tascabile e glielo mostrò. “Sì, ma non vuole che si sappia in giro. Non ancora, almeno.”
Friedrich osservò la copertina, su cui figurava in bella vista l’illustrazione di un cavaliere. “Ma è anonimo. Come fai a sapere che l’ha scritto lei?”
“Ho i miei canali d’informazione,” rispose Manfred, con aria da cospiratore. “L’ha fatto stampare a tiratura limitata e distribuito alle sue conoscenze; io sono riuscito a recuperarne una copia tramite suo fratello Richard, a cui faccio da istruttore di volo. Leggilo, ti piacerà.”
Friedrich, incuriosito, sfogliò sommariamente il libro, come per capire di cosa parlasse; poi se lo infilò in tasca e riprese in mano le redini. “Hai ragione, è proprio così. Hans mi è molto caro, ma non sarei capace di definire a parole quello che lui rappresenta per me. E forse è bene che alcune cose restino senza nome.”
Manfred annuì. “Io… credo di averlo capito da un pezzo.”
“Come? Perché?” sibilò suo fratello, scattando sulla difensiva.
“Trascorrevi più tempo con lui che con me,” replicò lui, con un’alzata di spalle. “Ma non ti preoccupare, so mantenere il segreto.”
Friedrich strinse i denti. “Me lo sarei dovuto aspettare da te, ma perché non mi hai mai detto niente?”
“Alla fine per me non cambia niente, e poi non sono affari miei. Siamo nati e cresciuti insieme, no? Il resto non conta.”
Visibilmente sollevato, il capitano accennò un sorriso. “Ti ringrazio per la discrezione.”
La cavalcata proseguì per un po’ in un silenzio velato d’imbarazzo, poi Friedrich riprese la parola. “E tu non hai da dirmi niente sulla von Tannenberg?”
Colto alla sprovvista, Manfred scoppiò a ridere. “Non è come pensi, non sa nemmeno che ho letto il suo libro!”
“Invece sì.” Friedrich gli rivolse un’espressione sorniona. “Prima o poi te ne renderai conto e mi dirai che avevo ragione.”
Manfred aggrottò le sopracciglia, tuttavia non disse niente: non voleva dargliela vinta. Spinse il cavallo tra i filari di alberi e affrettò l’andatura, sfidando l’altro a tenergli dietro.

La prima neve dell’anno aveva pervaso il cielo di una luminescenza argentata che, dalle ampie finestre, s’irradiava all’interno della stanza pervadendola di un’atmosfera siderale ed eterea. Seduto su un divanetto circondato da scaffali ricolmi di vecchi libri, mentre Hubert sonnecchiava ai suoi piedi, Friedrich rileggeva gli appunti in prosa e in versi che aveva scritto durante l’avanzata in Polonia. Si soffermò sull’ultimo frammento: tre camerati.
Gli era venuto in mente durante l’ultima veglia insieme a Konrad, subito dopo la morte di Reinhardt, ma era solo un insieme di impressioni sparse e frasi sconnesse. Per molto tempo aveva cercato di darvi un ordine compiuto, ma senza riuscirci; e forse non ci sarebbe mai riuscito, per quanto desiderasse farlo, perché non riusciva a trovare le parole giuste per rendergli giustizia. Oltre alla decennale amicizia che li legava, Reinhardt gli era stato vicino anche in quell’ultimo periodo, gli aveva pazientemente offerto la sua spalla ed era riuscito a ridargli speranza, mentre lui, che aveva fatto tanto rumore per nulla, se lo era visto morire davanti agli occhi quando ancora si disperava per una notizia falsa.
Aveva vissuto quella battaglia come un capitolo che si era concluso troppo in fretta, non perché il racconto fosse realmente terminato, ma perché le pagine erano state strappate via, lasciando soltanto quelle che narravano le gesta più significative.
Richiuse il quaderno e voltò appena la testa, fermandosi a guardare la neve che vorticava nell’aria: non aveva ancora attecchito sui prati, ma ornava le chiome degli alberi e vi tesseva leggiadri ricami. Sembrava di trovarsi in un reame di fiaba, lontano da tutto il resto.
Non voleva pensare al passato, né alla guerra, né al dolore, né alla morte, che aveva conosciuto in tutte le sue forme. C’erano momenti in cui voleva estraniarsi dalla prosaica realtà, scrollarsi di dosso il peso dell’esistenza e tornare a credere genuinamente in quegli ideali che lo avevano accompagnato sul campo di battaglia. Tuttora essi non lo abbandonavano, ma sembravano essersi intiepiditi, come quei fiocchi che si posavano sul davanzale. Aveva come l’impressione di aver attraversato l’Averno e di esserne uscito con una nuova consapevolezza, ma anche con un marchio a fuoco che in qualche modo aveva sancito in lui una metamorfosi irreversibile. Non sapeva, però, se in meglio o in peggio, e forse non era ancora giunto il momento di scoprirlo.
Assorto nei suoi pensieri, si perse nella contemplazione del cielo che stava gradualmente assumendo una tonalità color pervinca, e fu richiamato alla realtà dopo un tempo interminabile da Johann, che venne a bussare alla sua porta annunciando l’arrivo di un ospite.
Friedrich, all’inattesa interruzione, sobbalzò sulla poltrona, ma non chiese spiegazioni: aveva già capito di chi si trattava; lo stava aspettando. Congedò il maggiordomo e si diresse nel salotto verde, dove trovò Hans in piedi vicino al camino, avvolto in un lungo pastrano militare ricoperto di cristalli di neve. Il giovane si voltò verso di lui e si tolse il berretto in segno di saluto: aveva le guance e la punta del naso leggermente arrossate dal freddo, che spiccavano sul pallore del volto, ma quando lo vide i suoi occhi si illuminarono. Nel bagliore delle fiamme, gli apparvero ancora più profondi.
Si avvicinò, fermandosi a un passo di distanza da lui. “Hans, da quanto tempo.”
“Finalmente ce l’ho fatta a venire,” disse l’altro.
Friedrich lo squadrò dalla testa agli stivali inzaccherati. “Sei venuto a piedi dalla stazione? Potevi telefonarmi, così venivo a prenderti.”
Hans annuì con un’alzata di spalle, mentre si toglieva il cappotto. “Non funzionava il telefono, e poi non importa. Sai che mi piace camminare.”
Friedrich sorrise, Hans cancellò con un passo le distanze tra loro e si ritrovarono l’uno tra le braccia dell’altro, incuranti di qualsiasi altra cosa. Avrebbe voluto dirgli tante cose, ma per il momento si accontentò di quello: c’era ancora tempo per recuperare.
Vennero separati all’improvviso da Hubert, che puntò le zampe contro le gambe del maggiore e lo accolse scodinzolando. “Eccolo, il soldatino.” Hans si chinò a salutarlo e Friedrich avvertì un senso di gioia e completezza che non provava da tempo.

Friedrich aveva condotto Hans nel suo salotto personale, dove i domestici erano giunti a portargli tè e biscotti. Erano seduti sul divano, sprofondati tra i cuscini, così vicini che le loro spalle si toccavano, e il fuoco nel camino dava una connotazione ancora più intima a quel piccolo angolo di quiete inviolata. Il capitano reclinò la testa e l’appoggiò contro la spalla del compagno, poi gli avvolse un braccio intorno al torace, facendogli percepire il calore del suo maglione grigio. “Mi manca il servizio, come va in caserma?”
“Come sempre, non ci sono particolari novità,” ammise Hans. “Gli ufficiali non fanno altro che parlare di noi, ma sembra che a nessuno di loro siano ben chiare le dinamiche dell’accaduto.”
Friedrich alzò lo sguardo su di lui. “Meglio così, no? Non sono tenuti a sapere.”
Bühler fece una smorfia. “Se non fosse che sopperiscono alla mancanza di informazioni inventando le storielle più disparate. Quando sono rientrato circolavano ancora tre versioni sulla mia presunta morte, ma penso che ce ne fossero anche altre. Ce n’è una parecchio interessante: secondo qualcuno avrei perso talmente tanto sangue da lasciar stecchito un cavallo. Appena mi hanno visto, mi hanno guardato come se avessero avuto davanti un fantasma.”
“Sei pallido, ma non così tanto,” replicò Friedrich. “E poi tu sei l’uomo di ferro, dovrebbero averlo capito ormai.”
Hans alzò gli occhi al cielo con uno sbuffo teatrale. “Ancora con quel nomignolo?” Si piegò in avanti per posare la tazza vuota mentre l’altro tratteneva una risata, poi si lasciò ricadere all’indietro e rise insieme a lui. “L’unico ferro è quello che ho nel sangue.”
Seguì un breve silenzio, poi il capitano si fece inaspettatamente serio e abbassò la voce. “Avevo ragione io, avrei dovuto accompagnarti al posto di medicazione. A costo di caricarti in spalla e disobbedire ancora una volta.”
Hans aggrottò le sopracciglia. “Non c’era tempo, non potevi rischiare di nuovo… per me. E poi, come vedi, i portaferiti sono arrivati subito dopo.” Distolse lo sguardo e lo fissò sul disegno dei due cavalieri teutonici all’ombra di una quercia, che Friedrich aveva incorniciato e appeso al muro, poi esalò un sospiro. “In realtà, avevo elaborato un piano per risolvere quella questione… insieme. Ma non ho fatto in tempo a concretizzarlo, né a parlartene.”
Friedrich gli poggiò una mano sulla spalla, riducendo la voce a un sussurro. “Non dovevi farlo, non ce n’era bisogno.”
“No, Preuße, forse non ci siamo capiti,” fu la secca replica. Si fronteggiarono accigliati, occhi negli occhi. “Dopo tutto quello che hai fatto per tirarmi fuori da quel buco, sarei dovuto rimanere con le mani in mano? Non è così che funziona.”
“Ne sarei uscito fuori in qualche modo, anche senza il tuo intervento,” ribatté l’altro. “Tu dovevi soltanto stare al tuo posto.”
Il maggiore lo interruppe, senza scomporsi dinanzi alle sue parole. “Non potevo fingere che la cosa non mi riguardasse.”
“Non ti riguardava. L’ho fatto perché dovevo farlo, perché era la cosa giusta da fare, e solo io avrei potuto assumermene la responsabilità. Non perché mi aspettassi qualcosa in cambio.”
“Se è per questo, vale lo stesso per me.” Hans si protese verso di lui, il braccio appoggiato allo schienale del divano. “L’ho fatto perché volevo farlo, perché a mio parere era la soluzione migliore.” Gli rivolse un sorriso sghembo e abbassò la voce. “È quello che ci siamo sempre detti, no? Non mescoliamo i sentimenti personali al servizio.”
Non avrebbe saputo dire se quell’ultima frase fosse seria o ironica, ma forse non importava nemmeno più. Friedrich sembrò cogliere il reale significato tra le righe e rise, assecondandolo. “Infatti siamo sempre stati fedeli ai nostri ruoli, signor maggiore.”
Gli sguardi, che prima saettavano dardi, si sciolsero e si specchiarono gli uni negli altri, senza dire niente: non avevano mai sentito il bisogno di esprimere il concetto a parole, credendo che queste ultime lo privassero del suo significato, ma compresero subito dove volevano andare a parare.
“È sempre stato così,” disse Hans in un sussurro.
“E così sempre sarà,” concluse Friedrich.

Fuori era buio; l’unico alone di luce rossastra proveniva dal fuoco morente che sfrigolava nel camino. Friedrich fissava le pitture sul soffitto, perso nei suoi pensieri, mentre Hans – così sembrava – era scivolato in un leggero torpore. Sdraiati sotto le coperte pesanti, la vicinanza dei loro corpi bastava a scaldarli. Realizzò che gli erano mancati quei momenti, in cui le preoccupazioni terrene parevano svanire e li lasciavano soli di fronte a qualcosa che li riguardava in maniera esclusiva, ma andava al di là di loro come semplici uomini.
Allungò distrattamente una mano verso il compagno, sfiorandogli i capelli arruffati; Hans si mosse appena, sbatté le palpebre e lo fissò nel buio. Friedrich riuscì a scorgere il luccichio dei suoi occhi, ancora assonnati dopo la lunga scarpinata sotto la neve.
Schwabe… ricordi quello che ci siamo detti prima di partire per la Polonia?” gli chiese a bruciapelo.
L’altro rifletté per un breve istante, come per fare mente locale, poi piegò un braccio dietro la testa. “Ho già preso i biglietti del treno, Preuße.”
Friedrich si sollevò sui gomiti. “Perché non l’aereo? Ci vuole molto meno tempo e non ci sono scali. Non vorrai ripetere l’esperienza di quando siamo andati in Italia, spero: quanto ci abbiamo messo per arrivare, un giorno? E tutti i treni che abbiamo dovuto cambiare…”
“Sai che non mi fido degli aerei. Ci sono salito una volta e mi è bastata,” ribatté Hans.
Von Kleist sbuffò, ma decise di non insistere: sapeva già che quella discussione non gli avrebbe fatto cambiare idea, ma lo avrebbe solo convinto ancora di più della sua. “E dove li hai messi?”
“Nella tasca del mio cappotto.”
“Potevi dirmelo.”
Hans si sollevò a sedere, passandosi una mano sul viso; lui non poteva vederlo, ma era sicuro che vi fosse dipinta un’espressione tra l’ironico e lo spazientito. “Volevo parlartene con calma, ma tu con la tua impazienza rovini sempre tutto.” Si alzò in un fruscio di lenzuola, ma Friedrich lo spinse giù e lo rovesciò sul materasso prima ancora che potesse scendere dal letto e rivestirsi. Mentre lo sovrastava, percepì il suo sguardo torvo nel buio. “Non volevi vedere i biglietti?”
“Dopo,” sussurrò il capitano, sfiorandogli le labbra con le proprie.

Per arrivare nel paese natio di Hans rimediarono un passaggio su una vecchia vettura, che li caricò alla stazione notando le loro uniformi da ufficiali. Tutto intorno all’agglomerato di case, le colline irte di abeti erano ricoperte da una coltre bianca, attraversata dal fiume che riluceva come un nastro d’argento. Lungo le strette vie, le intelaiature e le imposte dipinte di colori sgargianti risaltavano decise su tutto quel candore, come a voler mettere in risalto il carattere della gente che le abitava. Hans vedeva i tetti spioventi coperti di neve e il fumo che usciva dai comignoli, ma al contempo immaginava gli argini verdi nel tripudio dell’estate e i balconi che straripavano di fiori, mentre il fiume scorreva gorgogliando. Si sentì invadere da una sensazione ineffabile, sospesa tra nostalgia, reminiscenza ed esplorazione: calcava il suolo a cui il suo sangue era visceralmente legato, ma si sentiva come un pellegrino sulla terra.
“Eccoci finalmente arrivati,” annunciò, volgendosi verso il compagno. “Benvenuto a Schiltach.”
“Sembra uno di quei paesi delle fiabe dei fratelli Grimm,” commentò Friedrich, guardandosi intorno con interesse mentre discendevano una via che conduceva verso il centro, sovrastati dalle alte facciate di case a graticcio. “Visto dal vivo è ancora più bello.”
Portavano i bagagli a mano, ma non sembrava avere alcuna fretta di raggiungere l’albergo prima di terminare la loro visita introduttiva. Torme di bambini si lanciavano giù per la discesa con le slitte, incuranti dei passanti – come faceva Hans da piccolo.
Giunsero nella piazza del municipio – un edificio caratteristico con la facciata affrescata, un frontone a gradoni e, al livello inferiore, due grosse arcate che si aprivano su un loggiato interno – dove era in corso un’animata battaglia a palle di neve. “Almeno un terzo di questi ragazzini porta il mio nome, ma non li ho mai visti in vita mia,” spiegò a Friedrich. “E se le tradizioni non sono cambiate, staranno facendo tedeschi contro francesi.”
“Sono tuoi parenti?”
“Non proprio – o almeno, non che io sappia. Se vedi la lapide ai caduti di guerra là dietro, ci saranno tre o quattro cognomi diversi in tutto il paese – tra cui il mio.”
“Attenti alle cannonate!” urlò un bambino, mentre loro si mantenevano ai margini, cercando di passare inosservati: conoscendo sua zia, probabilmente aveva detto a tutto il paese che suo nipote, ufficiale dell’esercito, si era guadagnato la croce di ferro di prima classe combattendo in prima linea, ma lui non ci teneva a trovarsi al centro dell’attenzione.
Al centro della piazza torreggiava un enorme abete, sotto il quale era stato costruito un pupazzo di neve vestito degli indumenti più disparati. Una pentola deforme voleva imitare uno Stahlhelm, e una giacca da lavoro bucherellata, di un grigioverde stinto, costituiva la sua uniforme. Qualcuno aveva intagliato una croce patente su una lastra di alluminio e gliela aveva appiccicata sul petto; un pezzo di legno faceva da fucile. Hans osservava il cencioso soldatino con le sopracciglia aggrottate, quando una palla di neve lo centrò nella schiena.
Si voltò sorpreso; alcuni bambini fuggirono, altri rimasero impalati a guardarlo. “La prego di scusarmi, signore,” mormorò uno, che sembrava il più grande.
“Nessun problema,” li blandì lui. Sulle prime fu tentato di ricambiare con un’altra cannonata, in memoria dei vecchi tempi, ma non voleva dare spettacolo. Si guardò intorno in cerca di Friedrich e notò che si era allontanato per andare a cercare la lapide commemorativa.
“Tristan, non lo vedi che è un soldato? Lui le cannonate le ha sentite davvero!” bisbigliò un altro bambino, rivolto all’amico.
“Un soldato? Non è che…”
“Secondo me è il maggiore Bühler, quello della croce di ferro! Non era oggi che doveva arrivare?”
“Bühler?” Apparve un ragazzo allampanato sui quattordici anni, con un ciuffo castano che gli pioveva sulla fronte: un’immagine speculare di lui più giovane, la stessa che aveva visto nelle fotografie inviategli da sua sorella. “Trattatelo bene, è mio zio!”
Subito dopo, Hans fu attorniato da un’orda di ragazzini, che il nipote, presosi subito confidenza, gli presentò a uno a uno. Da lontano scorse Friedrich, che gli rivolse un’occhiata interrogativa.
“Signor maggiore!” Un bambino dai capelli rossi, più spavaldo degli altri, si fece avanti gonfiando il petto. “Mio cugino mi ha parlato tanto di lei, si ricorda di Matthias Trautwein?”
“Signor maggiore, lo sa che portiamo lo stesso nome?”
“Anche mia madre fa Bühler di cognome, signore!”
Hans roteò gli occhi con rassegnazione: le sue più fosche previsioni si erano avverate.

Con Willi che li precedeva trotterellando, imboccarono la strada sterrata, circondata da una distesa di campi imbiancati, che portava alla casa di campagna in cui Hans era cresciuto. Il ragazzo sembrava entusiasta di trovarsi in compagnia di due ufficiali dell’esercito, per nulla in soggezione mentre raccontava i più disparati aneddoti delle sue scorribande.
Hans annuiva in silenzio, mentre Friedrich dava mostra di ascoltarlo con cortese attenzione: la sua mente viaggiava indietro nel tempo, quando percorreva quella strada in bicicletta alla massima velocità, scavalcava gli steccati o andava a cogliere i frutti dagli alberi.
La casa era così come la ricordava, tranne per la vecchia quercia su cui si arrampicava da piccolo, che era stata abbattuta per farne legna da ardere e sostituita da un virgulto più giovane e sottile, come in un passaggio di consegne. La veranda aveva le solite scale di legno scricchiolanti, il solito tavolino sbilenco e la solita panca, consumata dal tempo e dalle intemperie, dove lui si sedeva a leggere. Alla porta, intorno al ferro di cavallo, erano appesi rami di pungitopo e ghirlande di rami d’abete, decorate con fiocchi e campanelle colorate.
Willi bussò, trascorse qualche istante, poi la porta si spalancò e sulla soglia comparve la zia Hedwig, con una crocchia sfatta e il grembiule macchiato di frittura. “Eccolo, il mio Hansi!” esclamò, battendo le mani. “E c’è anche il capitano von Kleist! Benvenuto, signor capitano.”
Dalla cucina proveniva un profumo di ravioli ripieni conditi con burro e cipolle, arrosto di manzo e insalata di patate; l’acciottolio di pentole s’interruppe e arrivò anche sua sorella Liselotte: era invecchiata, ma portava la stessa treccia castana che le ricadeva sulla spalla.
“Hansi, ti stavamo aspettando.” Gli rivolse un sorriso timido e accolse Friedrich con la cortesia dovuta al suo rango militare: avevano chiarito via lettera, lui le aveva spiegato la situazione e ci avevano messo una pietra sopra. “Com’è andato il viaggio?”
“Un po’ lungo, ma tutto sommato bene,” rispose il maggiore, laconico.
Per ultimo si fece avanti lo zio Georg, che gli sferrò una pacca sulla schiena, così forte da fargli vibrare la cassa toracica. “Ma guarda chi si rivede, il figliol prodigo!”
Mentre entravano, Hans sorrise imbarazzato, ma non disse niente.
“Ho saputo quello che dicevano i tuoi colleghi. Non vorrai mica morire prima di me?”
“A quanto pare lo ha saputo tutto il paese,” replicò. “Mi hanno anche preso a palle di neve, come se non bastassero le pallottole che mi sono beccato al fronte.”
Georg esplose in una risata cavernosa. “Non fare lo spiritoso, ragazzotto: ora vorrò sapere tutto quello che hai fatto in questi anni per non venire mai a trovare il tuo vecchio zio!”
“Prima si mangia, poi si parla,” lo interruppe la zia. “Tutti a tavola!”
Tutto sommato, non gli dispiaceva essere ritornato a casa dopo tutto quel tempo.

  
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