Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
Ricorda la storia  |      
Autore: Eevaa    15/06/2021    4 recensioni
«Non è la prima volta che sogna qualcosa di simile. I giganti sono un suo incubo ricorrente, non è vero, signor Smith?»
[Modern!AU] [Eruri first meet] [Spoiler solo fino alla quarta stagione].
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Erwin Smith, Grisha Jaeger, Levi Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Disclaimer: Questa storia non è scritta a scopo di lucro.
Non concedo, in nessuna circostanza, l'autorizzazione a ripubblicare questa storia altrove, anche se creditata e anche con link all'originale su EFP.
Le seguenti immagini non mi appartengono e sono utilizzate a puro scopo illustrativo.
I personaggi appartengono esclusivamente a Hajime Isayama.

Nessun copyright si intende violato.


- GRIGIO TEMPESTA -
 
 
⸙⸙⸙



 
«Ho fatto un sogno stanotte. Un incubo.
C'era la guerra, una grande guerra e un pericolo per l'intera umanità.
C'erano mura alte più di campanili. Sapevo volare o qualcosa di simile, mi aggrappavo agli alberi e ai tetti e volavo più in alto di loro. Giganti.
Sì, c'erano dei giganti. Divoravano le persone, era terribile. Amici che soffrivano, urlavano.
C'era anche mio padre. Era tanto che non lo sognavo, lui faceva il professore di storia anche nel sogno, ma la storia era diversa. Moriva, era colpa mia. Non ricordo come, ma era colpa mia. Come nella realtà. È stato un incidente, non avrei mai voluto.
Io ero un militare, qualcosa del genere. Un soldato che guidava le persone. Ero coraggioso, rispettato. Mi sono sacrificato per gli altri. Morivo anche io, nel sogno. Una scimmia gigante mi ha bucato il petto, qualcuno voleva riportarmi in vita mentre stavo morendo.
Mi sono rifiutato, volevo risvegliarmi da quel sogno. Perché mi faceva paura, non volevo rimanere intrappolato lì. L'unico modo per svegliarmi dal sogno sarebbe stato morire, lo sapevo.
Qualcuno mi ha aiutato a svegliarmi. Non ricordo bene chi fosse, ma aveva gli occhi grigi come una tempesta. Non voleva lasciarmi svegliare, all'inizio, credo che io fossi importante per lui. Però poi ha capito, mi ha guardato e ha saputo lasciarmi andare.
"Rinuncia" mi ha detto, "puoi morire". E così mi ha liberato.
Mi sono svegliato col fiatone, mi faceva male il fianco. Esattamente dove ho la cicatrice dell'incidente. Però mi sentivo meglio, mi sentivo libero. È stata una liberazione uscire da quell'incubo».


Una formica si sta arrampicando sulla corteccia del piccolo bonsai da scrivania. Piccole gocce di pioggia sul vetro. La tempesta annunciata alla televisione sta arrivando, puntuale come la primavera.
Accavallo i piedi sul pouf verde scuro di fronte a me. La poltrona è comoda, le pale del lampadario causano una brezza che mi solletica i capelli corti sulla nuca.
C'è odore di carta antica e acqua di colonia, arredamento demodè, tinture per pareti anni settanta. Oramai è un posto che dovrebbe risultarmi familiare e confortevole, un porto sicuro. Invece ci trovo sempre gli spettri dei miei tormenti, pile e pile di taccuini che raccontano di me, di quello che sono, di quello che ero.
Dieci anni dall'incidente con il tir targato ZJ che mi ha quasi ucciso e ha ucciso mio padre, passeggero di fianco a me. Tutto per colpa della fretta, la mia bramosia di giungere a destinazione.
In quei taccuini ci sono io, forse il dottor Jaeger mi conosce. Io non mi conosco di certo.

«Non è la prima volta che sogna qualcosa di simile. I giganti sono un suo incubo ricorrente, non è vero, signor Smith?»

Se non altro il dottor Jaeger ricorda minuziosamente i dettagli. È un uomo colto, so che può analizzare facilmente ciò che gli ho appena detto. Freud non è passato di moda - al contrario dell'arredamento di quello studio - e l'interpretazione dei sogni è una materia affascinante.
A volte vorrei mi passasse un po' della sua conoscenza.

«Vero. Ah, chissà che vuol dire...» azzardo, anche se so che al dottor Jaeger non piace dare risposte.

«Secondo lei che significa?» domanda. Il dottor G. Jaeger mi fa solo domande. Vuole che io ci arrivi da solo alla soluzione.

L'orologio antico alla parete scocca le sei del pomeriggio. La seduta è terminata, e io ho più domande che risposte. Come sempre.
A volte penso anche che se avessi voluto incasinarmi ancora di più l'esistenza avrei un abbonamento al mensile di enigmistica per pochi spiccioli, al posto di pagare duecentoquaranta dollari al mese per uno strizzacervelli.

«Provi a rifletterci durante la prossima settimana. Poi mi racconterà cosa ha pensato e dedotto» dice, poi chiude con un gesto secco il taccuino numero diciannove dei miei traumi e disagi.

Sospiro e mi alzo dalla poltrona comoda. Tempo di tornare là fuori, dove la monotonia di una vita alla scrivania si mischia ai rimpianti di quando l'investigazione sul campo era il mio mestiere.
Questo da quando il mio braccio è rimasto incastrato nelle lamiere di quel tir.

«La ringrazio, dottore».



Recupero la giacca leggera, l'ombrello e la ventiquattrore, esco dagli anni settanta e ritorno alla modernità dell'asfalto di città ancora caldo, fumante sotto le grandi gocce di pioggia. C'è odore di temporale e di primavera.
Provo ad aprire l'ombrello automatico, il bottone è incastrato. Non mi aiuta.
In una manciata di secondi mi bagno i capelli, la giacchetta, le scarpe laccate, la camicia azzurra da impiegato statale.
Ci riprovo, tento di nuovo, con una mano sola è difficile tentare di aprire un ombrello che non collabora. Con una mano sola è difficile fare tante cose.

«È rotto».

Una voce mi coglie alla sprovvista. Mi volto e c'è qualcuno poco distante, il volto mezzo coperto da un ombrello verde. Se ne sta appoggiato così al muro del palazzo, con una gamba piegata contro di esso. Porta una camicia bianca e uno strano gilet beige, anfibi neri e un fazzoletto al collo. Uno stile decisamente strano, ma con un suo perché.

«L'ho notato» gli rispondo. Ritento e strattono l'ombrello, non funziona.

«E allora perché si ostina a volerlo aprire?» mi dice. Il suo tono è annoiato, quasi presuntuoso, ma a me divertono le persone presuntuose. Forse perché lo sono anche io, a volte.

«Sono testardo» controbatto semplicemente. «E paziente». Anche se la mia pazienza in quel caso non avrebbe portato da nessuna parte. Riprovo con le maniere forti e peggioro la situazione. Oramai sono fradicio.

Il tizio sbuffa una risata aspra nel naso, poi si avvicina a passi lenti sotto l'ombrello. Intravedo capelli lisci e neri, ma continuo imperterrito a voler aprire quel dannato affare.

«Vuole una mano?» mi chiede, secco.


Ironico? Arrogante? Entrambi?
Eppure la cosa mi fa sorridere. Effettivamente una mano la vorrei. La rivorrei. Ma per il momento mi posso accontentare di un ombrello.
Gli scocco un'occhiata tagliente, lui risponde allo stesso modo. Finalmente lo vedo in faccia.
Ha gli occhi grigi come la tempesta che infuria. Forse ho già visto questo tizio da qualche parte?

«Vorrei un ombrello funzionante» gli dico, non smetto di fissarlo negli occhi. Devo ricordare dove ho già visto questo ragazzo, ma sono troppo impegnato a tremare dal freddo. Casa è lontana venticinque minuti di metropolitana. La fermata è lontana dieci minuti a piedi. Farei giusto in tempo a prendermi una broncopolmonite. «E qualcosa per scaldarmi» aggiungo, seccato.

Lui scuote la testa e mi ripara sotto il suo ombrello verde allungandosi sulle punte. Profuma di zenzero. Mi piace lo zenzero.

«Dovrebbe rinunciare ad aprire quell'affare» mi intima, lapidario. Ha una cicatrice sopra l'occhio.

Sbuffo una risata amara. Dovrei rinunciare a tante cose nella vita, lasciare andare quello che avrei potuto fare prima di perdere il braccio, ad esempio. A partire dalle piccole cose, tipo tentare di aprire un ombrello rotto. Accettare, accettarmi.
Sì, potrei davvero partire da quello. Rinuncio e sbatto l'ombrello nel cestino più vicino, così, giusto perché un tizio sconosciuto incontrato per strada mi ha detto di farlo. Eppure mi sembra giusto. Chissà come, quel misero gesto sembra liberarmi da un peso.

Lui abbozza un sorrisetto beffardo. Scommetto che non è uno che sorride spesso, ma forse è ciò che gli conferisce quell'aria misteriosa che mi porta a contemplarlo. Ancora non capisco dove l'ho già visto. 

Il ragazzo fa spallucce mentre la pioggia cade attorno a noi, disegna le prime pozzanghere sui marciapiedi dissestati.
«In quanto a qualcosa per scaldarsi, dietro l'angolo c'è la sala da tè dove lavoro. Può aspettare lì la fine del temporale».

O la fine del tuo turno di lavoro, penso. Non so perché lo penso, ma Hange sarebbe fierə di me. Mi dice sempre che dovrei alzare il culo dalla scrivania, conoscere qualcuno, distrarmi. Non ho mai ascoltato troppo le sue proposte, nessuno ha mai catturato troppo il mio interesse negli ultimi anni. Ma questo tizio... c'è qualcosa in lui che voglio scoprire. Mi incuriosisce. 

«Vada per il tè» rispondo quindi. Sorrido.

Lui annuisce e si incammina, lo seguo sotto l'ombrello, mi devo incurvare per poterci stare comodo sotto. Il ragazzo è basso, molto più basso di me.
Il ragazzo... avrà un nome? Forse è giunto il momento delle presentazioni. Rimetto la ventiquattrore sotto il braccio mutilato e gli allungo la mano.

«Comunque mi chiamo Erwin. Erwin Smith».

Lui si volta per un secondo, incrocia il mio sguardo. Occhi grigio tempesta. Mi ricorda davvero qualcosa... qualcuno.

«Levi».

Anche il suo nome mi dice qualcosa. Mi afferra la mano e la stringe. Sembra giusta. Ho già stretto quella mano. Sembra un sogno già vissuto. Ho già sognato un ragazzo che mi salva dal temporale. La libertà.

«Allora grazie... Levi».
 

 
⸙⸙⸙

 

ANGOLO DI EEVAA:
Buonasera a tutti e yay, sono finalmente tornata nel fandom!
Per prima cosa, AAA cercasi fanart che ha ispirato questa storia (Eruri sotto un ombrello). L'ho intravista su Twitter e mannaggiammè l'ho persa. Chiunque tu sia, artista, ti ringrazio dal profondo del cuore per avermi ispirata a scrivere questa cosuccia.

Un mondo di prime volte, oggi! È la prima volta che scrivo un AU, innanzitutto. Siccome questa coppia meravigliosa non potrà mai avere un lieto fine nella saga canonica, allora ho voluto regalargli un nuovo inizio alternativo, ai giorni nostri. 
Facciamo un gioco a chi trova più metafore, collegamenti al canon ed easter eggs in questa breve storia :D

Oggi è anche la prima volta che utilizzo la schwa (
ə) in una storia. So che non è un simbolo attualmente "approvato" dalla lingua italiana, ma per rivolgermi a Hange - che nel manga e nell'anime in lingua originale è stato sempre usato il neutro in quanto persona non binary - ho ritenuto che fosse qualcosa di adeguato al contesto. Ho osato, spero di non aver infastidito nessuno.
Prima volta che scrivo anche il prima persona presente. Aiuto!

Avrete forse notato che non ho messo la parola "fine". Ecco, non prometto niente, ma scrivere AU mi è piaciuto più di quanto mi aspettassi. Potrei ponderare di scrivere una piccola serie a partire da questa shot, chissà! 
Nel frattempo se vi è piaciuta sul mio profilo ne troverete altre due "Il mare ha i tuoi occhi" e "Questa stupida ricorrenza". 

Grazie a tutti per essere giunti fin qui! Un abbraccio e a presto,
Eevaa


 
  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti / Vai alla pagina dell'autore: Eevaa