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Autore: Old Fashioned    17/06/2021    9 recensioni
Prima guerra mondiale. A un giovane e ardimentoso pilota tedesco viene assegnata una strana missione: dovrà atterrare con il suo aereo dietro le linee nemiche e lì caricare a bordo una persona, poi rientrare alla base. Tutto semplice, all'apparenza, peccato che la persona che dovrà caricare, una pericolosa spia tedesca, sia inseguita dal suo arcinemico: una spia inglese di pari livello, disposta a tutto pur di catturare il rivale.
Questa storia è stata scritta per Crazy_person, come modesto ringraziamento per tutte le bellissime recensioni che mi ha sempre lasciato.
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Salve carissimi,
ecco finalmente la mappazza settimanale. Vi mando di nuovo in onda un mezzo capitolo, perché dopo la felice parentesi del capitolo precedente siamo tornati ai soliti standard di lunghezza (ovvero: “messa cantata”).
Grazie a tutti coloro che mi seguono, un enorme grazie a chi mi sta lasciando anche qualche commento.





Capitolo 12

Diretta in Patria, la tradotta era perlopiù occupata da militari molto allegri. In fondo al vagone ad esempio si era raccolto un gruppetto di soldati: uno di essi aveva tirato fuori dallo zaino una concertina e tutti gli altri cantavano sulle note allegre dello strumento. Una bottiglia di Schnaps passava di mano in mano.
Un altro gruppetto, composto perlopiù di feriti in via di guarigione, sedeva da una parte. Gli uomini si stavano mostrando a vicenda fotografie di mogli e fidanzate. Qualcuno aveva anche immagini di bambini, con gli abitini alla marinara e i giocattoli sottobraccio.
Sedevano qua e là anche degli ufficiali, che nel contesto informale non disdegnavano sorsi di Schnaps quando passava la bottiglia, né rifiutavano di ammirare le fotografie che i soldati con fierezza esibivano.
Un giovane tenente aveva addirittura tirato fuori l'immagine di una ragazza, e la mostrava ai soldati. Qualcuno provò a dire sottovoce che il volto della fanciulla non gli era nuovo, ma fu prontamente zittito dagli altri.
In tutto ciò, il tenente von Knobelsdorff sedeva serio accanto a un finestrino e lasciava vagare lo sguardo sul paesaggio che scorreva all'esterno.
Aveva fantasticato tante volte sul Pour le Mérite. Aveva immaginato un viaggio di rientro trionfale, tra feste, risate, felicità e giusto orgoglio.
Aveva immaginato di brindare con i camerati, di accogliere i complimenti e le congratulazioni di ogni militare in cui si sarebbe imbattuto.
Dalla base se n'era andato più o meno come un ladro. Era montato sulla tradotta nello sconcerto dei colleghi, che perlopiù non avevano nemmeno capito perché partisse.
Quei pochi a cui nella fretta era riuscito a dire la verità, ovvero che si recava a Berlino per ricevere l'ambita decorazione dalle mani del Kaiser in persona, non avevano nemmeno fatto in tempo a fargli le felicitazioni, in pratica.
La faccenda non era legata solo all'avversione del suo comandante per la chincaglieria. Lui stesso aveva in realtà perlopiù taciuto la faccenda, evitando di farne menzione se non ai più intimi amici.
Non l'aveva detto nemmeno al suo colonnello di quando era negli ulani, che per tanti aspetti era stato per lui come un padre.
Si chiese perché.
Forse pensava di non meritarla.
O forse non era più lo stesso giovane ufficiale, ardimentoso e fiero, che era stato fino a poco tempo prima. Ardimentoso lo era ancora, certo. Anche fiero, ovviamente, ma forse in un modo diverso. In modo più schivo, sobrio, privo di ostentazione. Il Werwolf del resto sembrava un giovanotto snello, dalle mani delicate, eppure l’aveva visto con quelle stesse mani uccidere in un istante uomini ben più grossi di lui.
Come al solito, rievocò la sua stretta sul braccio: quel contatto rude, asciutto, che però non mancava mai di suscitargli una struggente sensazione di calore.
Era stato senz’altro lui a confermare l’abbattimento.
Tra le innumerevoli domande che aveva formulato, tutte senza risposta, c’era anche quella: perché lo aveva fatto? Non ne avrebbe avuto alcun motivo. Anzi, forse per avere l’abbattimento confermato aveva anche dovuto rivelare particolari segreti della missione.
Perché, quindi?
In quel momento, la comparsa di una bottiglia nel suo campo visivo lo fece quasi sussultare. “Un sorso, signor tenente?” gli chiese un artigliere alto forse un palmo più di lui, dall’espressione gioviale.
Mentre meccanicamente prendeva lo Schnaps, tornò con la mente all’episodio del treno inglese. Rivide la disinvoltura con cui il Werwolf aveva accettato la bottiglia e aveva bevuto, senza un fremito di imbarazzo o di timore.
Se avessero scoperto che era tedesco, l’avrebbero fucilato sul posto come spia.
Una voce lo riportò alla realtà: “Non vuole bere un sorso, signor tenente?”
Grazie.”
Von Knobelsdorff buttò giù qualcosa che gli parve una palla di fuoco. Gli sfuggì un colpo di tosse. L'artigliere sorrise e disse: “Forte, vero? Quando si è in trincea, non c'è niente di meglio per scaldare le budella.”
A quel punto si avvicinò un altro artigliere e disse: “Klaus, sei un cretino: non vedi che è un aviatore?” Poi, rivolto all'ufficiale: “Lo scusi, signore: non distinguerebbe nemmeno un marinaio da un fante.”
Non fa niente,” disse von Knobelsdorff, desideroso di tornare alle sue meditazioni. I soldati, però, continuavano ad assieparglisi intorno, incuriositi dalla sua uniforme elegante e dal distintivo di pilota. Si domandò se tra loro ci fossero anche quelli che ogni giorno l'avevano salutato con ampi gesti mentre passava alto sulle trincee.
Uno di essi gli chiese: “Ha abbattuto degli aeroplani nemici, signore?”
A quella domanda calò il silenzio, tutti lo fissavano con aspettativa. Gli offrirono di nuovo la bottiglia.
Egli bevve un altro sorso, rassegnandosi alla colata incandescente che gli fece bruciare la gola e lo stomaco, poi rispose: “Sì, qualcuno.”
E quanti, signore? Quanti?” chiese un fante che non poteva avere più di diciotto anni.
Non fare il maleducato, Franz!” lo rimbeccò un altro, ma la curiosità accendeva gli sguardi di tutti. Anche quelli che stavano cantando si interruppero e si avvicinarono. Le foto di mogli e fidanzate tornarono nelle tasche da cui erano uscite.
Von Knobelsdorff fece scorrere lo sguardo sull'improvvisata platea e si rese conto che rimanere concentrato nei propri pensieri sarebbe stato un atto di egoismo indegno di un ufficiale. “Sto rientrando in Germania per ricevere il Pour le Mérite,” disse.

§

Alla stazione del suo paese, schierata sulla banchina, c'era addirittura la banda musicale.
Il tenente scese dal treno sulle note dell'inno nazionale, salutato con ampi gesti e acclamazioni. Fu accolto dal borgomastro in persona mentre una folla festante veniva tenuta a distanza dai gendarmi. Le ragazze lanciavano fiori e baci, qualcuna addirittura fazzoletti con le cifre ricamate, la gente applaudiva. Chiunque avesse un'uniforme gli rivolgeva il saluto militare.
Von Knobelsdorff dovette faticare per non sfiorarsi con le dita l’azzurra decorazione, che ancora gli pendeva dal collo dandogli la sensazione di insolito monile. Alcuni alti ufficiali dello Stato Maggiore gli avevano assicurato che col tempo ci avrebbe fatto l’abitudine, ma la sua sensazione era che si impigliasse ovunque, e che i suoi spigoli lo pungessero a ogni movimento.
Peraltro, gli sembrava anche terribilmente vistosa. Pacchiana, addirittura.
Non si era ancora rassegnato al fatto che tutti lo guardassero, che i padri lo indicassero ai figli come un esempio, che i militari di ogni arma e grado lo salutassero.
Pian piano diventerà normale, si ripeté, ricordando le parole che un generale di corpo d’armata gli aveva rivolto appena uscito dalla sala delle udienze di Sua Maestà, quando spaesato si guardava intorno come un animale selvatico portato in gabbia nel bel mezzo di una festa.
Il borgomastro gli rivolse un discorso, il reverendo pronunciò una benedizione, per lui e per tutti gli eroici soldati tedeschi, o forse prima arrivò la benedizione del prete e poi il discorso del borgomastro, la sua destra veniva costantemente ghermita e stretta, perlopiù da sconosciuti, che accompagnavano il saluto con auguri e alate parole di vittoria...

A un certo punto si ritrovò di fronte Johann, lo chauffeur di famiglia, che si mise sull'attenti e disse: “Signor barone, bentornato.”
Alle spalle dell'uomo c'era una lucidissima vettura nera, sul cui sedile posteriore attendeva impettita la baronessa von Knobelsdorff.
Il tenente rispose al saluto dell'autista, quindi raggiunse la nobildonna e, rivolgendole un rigido inchino del busto, disse: “Buon giorno, maman.”
Ella fece col capo un sobrio cenno d'approvazione. Attese che Johann aprisse la portiera per il figlio, quindi gli chiese: “Hai fatto buon viaggio?”
Molto buono, grazie. Lei sta bene, maman?”
La donna assentì e lo invitò a prendere posto al suo fianco, quindi proseguì: “Sono molto felice di questa licenza, mio caro. Anche tuo padre dovrebbe rientrare per qualche giorno la settimana prossima. Sappi che è molto fiero di te.”
Il tenente non poté fare a meno di sorridere. “Ne sono felice.”
Gli hanno permesso di farmi una telefonata dal fronte. Ha detto che da te non si aspettava di meno, Maximilian.”
Il giovane si limitò ad annuire. Suo padre, il maggiore generale Ernst Wilhelm barone von Knobelsdorff, aveva già il Pour le Mérite, l'Ordine di Hohenzollern, la Croce di Ferro e varie altre medaglie. I fratelli di suo padre, lo zio Albrecht Konrad e lo zio Hans Ferdinand, avevano a loro volta importanti decorazioni.
I fratelli di maman non erano ovviamente da meno.
La donna ordinò allo chauffeur di partire, poi disse: “Ci sarà un ricevimento.”
Non è il caso,” si schermì il tenente.
Tuo padre ci tiene molto,” fu l'asciutta replica.
Il giovane non rispose. Dubitava che il ricevimento fosse un'esigenza del severo genitore, ben più avvezzo al rigore della caserma che alla mondanità dei salotti. Più probabilmente era la baronessa che desiderava sfoggiare in una festa l’ennesima decorazione conferita a un membro della famiglia. “Quando?” si limitò a chiedere.
Dipende da quando arriverà tuo padre.”
Il tenente non aggiunse altro. Si voltò verso il finestrino e lasciò vagare lo sguardo all’esterno. Riconobbe il campo dove andava a giocare quando era piccolo. Al limitare della foresta c’era ancora il vecchio tronco di quercia caduto che aveva tentato di saltare a cavallo, finendo malamente a terra assieme al destriero.
La pianura si perdeva in lontananza, punteggiata qua e là dai laghi cristallini in cui andava a nuotare.
A quei tempi, la sua più grande preoccupazione era trovare un modo di asciugarsi i capelli in fretta, in modo che i suoi non si accorgessero che aveva fatto il bagno con i ragazzi del villaggio.

La vettura procedeva lungo un viale fiancheggiato da querce. Presto avrebbe raggiunto la dimora di famiglia e si sarebbe fermata davanti all'ingresso principale. Il tenente immaginò che ci sarebbe stata tutta la servitù ad accogliere il signorino, schierata in due ali lungo la gradinata che conduceva al portone. Senza dubbio tutti si sarebbero inchinati al suo passaggio, le donne con una riverenza, gli uomini con un più sobrio piegarsi del busto.
Teoricamente, ormai avrebbe dovuto essere abituato a certe cose. Erano giorni che riceveva complimenti e ascoltava discorsi in suo onore. C'era stata persino la sua fotografia sul giornale, mentre stringeva la mano a Sua Maestà l'Imperatore.
In pratica, però, non era fatto per certe cose. Era pronto a combattere, a morire per la Patria se necessario, ma il disagio di tutte quelle attenzioni rimaneva invariato.

§

Sdraiato sul letto della sua camera, le braccia dietro la nuca, von Knobelsdorff fissava pensoso l’affresco del soffitto. L’aveva osservato tante volte, nel corso della sua breve vita. Da piccolo, non capiva nemmeno cosa significasse, guardava più che altro i colori. Da ragazzino gli piaceva, perché vedere quello significava essere in vacanza dall’Accademia.
Da adulto – se poteva definirsi tale – gli evocava sentimenti contrastanti.
Si trattava di una scena mitologica: Fetonte che precipita dal carro del Sole. Vi era un giovane uomo, con un semplice drappo rosso a coprire appena le pudenda, rappresentato mentre cadeva a testa in giù. Sopra di lui si trovava un carro tutto d’oro, intorno al quale scalpitavano quattro cavalli imbizzarriti.
Ancora più in alto, sullo sfondo di un cielo tormentato, si vedeva Zeus nell’atto di scagliare una folgore. Non aveva mai capito se Fetonte stesse cadendo perché colpito da quel fulmine oppure se Zeus l’avesse scagliato per fermare il cocchio impazzito, una volta che il semidio ne aveva perso il controllo.
Di volta in volta, nel corso degli anni, aveva fissato l’attenzione sui particolari di quell’affresco che lo attraevano maggiormente. Da bambino si era chiesto se davvero fosse possibile solcare il cielo a bordo di un carro dorato. Più grandicello aveva ragionato ossessivamente sul perché i quattro cavalli del cocchio non avessero tutti lo stesso mantello. Le pariglie di suo padre erano scelte anche in base a quel criterio, soprattutto quelle destinate a compiti di rappresentanza, quindi perché a una quadriga divina erano aggiogati un sauro, due grigi di tonalità diversa e un pezzato?
Da aviatore, aveva immaginato i nemici nei panni di Fetonte, solo che sopra di loro non c’era una quadriga senza controllo, ma un aereo inglese in fiamme e Zeus era un aereo tedesco che invece delle folgori scagliava piombo.

In quel frangente, invece, non riusciva a smettere di pensare che il Fetonte dell’affresco era castano come lui.
Si vergognò di quell’idea disfattista e meccanicamente portò una mano a sfiorare l’azzurra decorazione che ormai stabilmente gli pendeva dal collo.
Ripensò all’episodio della cavalcata e di nuovo fissò lo sguardo sul Fetonte che precipitava: come lui aveva osato, ed era caduto.
Era fuggito ignominiosamente.
Si chiese se avrebbe mai più rivisto l’agente segreto. Si augurava che fosse scomparso per sempre dalla sua vita, esattamente come anni prima era accaduto con Friedrich von Wangenheim: erano rimasti nella stessa accademia, certo, ma per una sorta di tacito accordo si erano praticamente ignorati fino a quando i rispettivi corsi di studi non erano terminati. Non sapeva neppure a che reparto fosse stato assegnato, o se fosse ancora vivo.
Chiuse gli occhi. Si augurava davvero di non rivedere più il principe von Thurn und Taxis?
Emise un sospiro e volse lo sguardo verso l’alta finestra, lasciandolo vagare sul cielo terso. Ai comandi di un aereo era tutto semplice. Si trattava di volare e combattere, vincere o morire. Non c’erano dubbi, non c’erano esitazioni. Soprattutto non c’erano pensieri angosciosi, perché chi non teneva la mente focalizzata sull’azione soccombeva.
Forse era per quello che gli piaceva volare.

§

Il Werwolf aprì una porta. Al di là vi era una stanza dalle pareti bianche, con una sola finestra chiusa da un’inferriata e una lampadina che pendeva dall’alto soffitto.
Al centro del locale vi era un tavolo, al quale sedeva una donna di mezz’età, con uno chignon venato di grigio da cui pendevano ciocche disordinate.
L’agente segreto avanzò con passo misurato, quindi si sedette di fronte a lei. “Come vanno le conversioni?” le chiese. “Ha distribuito molti opuscoli religiosi, ultimamente?”
La donna si limitò a stringere le labbra. Si raddrizzò nella persona come a mostrare indignazione. “Dovrebbe avere più rispetto,” sibilò breve.
L’altro fece un sorrisetto. “Come collega, intende?”
Non so di cosa stia parlando,” lo rimbeccò lei aspra, “ed esigo una spiegazione per tutto questo!”
Per cosa, esattamente?”
Per essere stata presa come una ladra e portata… non so nemmeno dove! Che cos’è questo posto? Io voglio rientrare a casa mia.”
Tutto a suo tempo,” concesse il Werwolf. “I suoi opuscoli religiosi potranno aspettare fino a che non mi avrà fornito le informazioni che voglio.”
La donna si irrigidì ulteriormente. “Non ho nessuna informazione per lei, egregio signore. Non so nemmeno di cosa stia parlando.” Cercò di sistemarsi qualche ciocca dietro le orecchie, quindi gli rivolse uno sguardo altero e carico di riprovazione.
Von Thurn und Taxis la fissò impassibile per alcuni secondi. Infine, con glaciale calma disse: “Signora, non mi piace perdermi in preamboli: so che lei è una spia degli inglesi.”
L’altra sobbalzò addirittura sulla sedia, e con veemenza protestò: “Cosa? Ma come le viene in mente un’assurdità simile? Proprio io, che distribuisco ogni giorno opuscoli patriottici!”
Un’ottima copertura,” concesse il Werwolf.
Le sue basse insinuazioni mi offendono!”
Meglio offesa che morta, non so se mi spiego.”
La donna lo fissò torva, egli le rimandò uno sguardo perfettamente neutro. Dopo alcuni secondi, in tono pacato le disse: “Abbiamo trovato il solfato di rame fra i suoi cosmetici.”
E cosa sarebbe, se è lecito?”
Il Werwolf si alzò in piedi e le sferrò un manrovescio che la scaraventò giù dalla sedia, successivamente aggirò il tavolo, l’afferrò per i baveri della blusa, la sollevò di peso e con voce minacciosamente bassa ringhiò: “Inchiostro simpatico. Una soluzione incolore, che diventa azzurra se esposta a vapori di ammoniaca.”
Curioso.”
Signora, le rammento che la mia pazienza non è infinita.”
La donna cercò di colpirlo in mezzo alle gambe con un calcio. Il Werwolf, che se l’aspettava, la sbilanciò all’indietro fino a sbatterla con le spalle contro il muro, quindi disse: “Non c’è bisogno di questi sistemi da suffragetta, mia cara. Tra spie esiste la perfetta parità dei sessi.” La sollevò di peso, quindi proseguì: “E ora, gentilmente...”
La donna scalciò, cercò di graffiarlo. Impossibilitata a fare altro, gli sputò addosso.
Il Werwolf strinse la presa. La prigioniera, ormai scarmigliata, con gli occhi fuori dalle orbite, gli afferrò i polsi. Di nuovo scalciò e si contorse, cercando di liberarsi.
Von Thurn und Taxis la buttò sul pavimento e le sferrò un paio di robusti calci nel costato, quindi la sollevò per i capelli. La donna tentò di nuovo di sputargli contro, poi ansimò: “Stupido bifolco, pezzo di...” L’invettiva fu troncata da un altro manrovescio.
A quel punto, il Werwolf chiese: “Dov’è the Bishop?”
Non so di cosa stia parlando.”
Volò un’altra potente sberla, la donna cominciò a perdere sangue dal naso. Con glaciale calma, von Thurn und Taxis ripeté la domanda.
L’altra lo fissò di sotto in su. Rigato di sangue, il volto pallido aveva un’espressione demoniaca. Lanciò un urlo selvaggio, poi balzò in avanti, cercando di afferrarlo alla gola.

Il Werwolf uscì dalla stanza sistemandosi l’impeccabile completo scuro. Al suo apparire, due piantoni scattarono sull’attenti.
Disponete tutto come al solito,” ordinò l’ufficiale. “L’altra ha parlato?” Indicò con un cenno della testa una porta di ferro chiusa.
Il signor capitano è ancora dentro, signore,” rispose uno dei soldati.
L’agente sorrise fra sé e sé. Il signor capitano era un suo collega dal poetico nome in codice di Morgenrot. Si avvicinò alla porta, guardò dentro dallo spioncino: neppure lui pareva considerare le donne il sesso debole.
Per quanto la cosiddetta dama della Pentecoste – in realtà un’alsaziana di nome Nathalie Meyer – avesse provato a insultarlo, a graffiarlo e a usare mosse di ju-jitzu, alla fine gli aveva rivelato esattamente quello che si aspettava, e cioè che the Bishop era da qualche parte in Germania. Dove, purtroppo, non era riuscito a saperlo, anche perché probabilmente non lo sapeva nemmeno la dama.
Abbandonò il sotterraneo, tornò al piano terra. Il posto aveva l’apparenza di un magazzino di granaglie, ma in realtà nei sacchi di iuta che entravano e uscivano c’erano dispacci, fotografie e mappe. Gli impiegati erano tutti agenti sotto copertura, uomini e donne. Le pareti erano munite ovunque di intercapedini in cui erano sistemate macchine fotografiche o alcove in grado di contenere osservatori; numerosi laboratori segreti permettevano di rilevare le impronte digitali di eventuali visitatori e di sviluppare le fotografie che si prendevano di ognuno di essi.
Si diresse verso il bagno, vi entrò e, attraverso una porta nascosta fra le piastrelle, passò in una stanza che sembrava il camerino di un teatro, con una toeletta per il trucco, un armadio e uno scaffale ingombro di travestimenti di scena.
Si sedette di fronte allo specchio, indossò con gesti resi rapidi dall’abitudine una parrucca grigia. Vi aggiunse un paio di baffetti, sempre grigi, quindi inforcò occhiali dalle lenti tonde, cerchiate di metallo.
Trasse dall’armadio una palandrana scura, un po’ lisa sui gomiti, con la quale nascose il suo completo di sartoria. Indossò un cappello sgualcito, raccolse una cartelletta per i documenti e se la strinse al petto, quindi fece ritorno alla stanza che fungeva da segreteria con un’andatura ingobbita, rigida, da impiegatuccio precocemente invecchiato, abituato a stare curvo sui registri di partita doppia.
Scambiò qualche parola con i colleghi, poi uscì con la cartelletta lisa sottobraccio, come se fosse stato mandato a fare una commissione.

§

Seduto alla scrivania di una stanza d’albergo, naturalmente sotto falso nome, il Werwolf sorrise fra sé e sé: dalla finestra dell’elegante hotel in cui aveva preso alloggio si intravedeva uno scorcio del suo palazzo. Era fuori questione, naturalmente, andarvi ad abitare, almeno fino a quando non fosse riuscito a scoprire dove si nascondeva the Bishop.
Si appoggiò all’indietro sullo schienale, ripercorse ancora una volta mentalmente tutte le informazioni in suo possesso: il suo avversario era in Germania. Gli agenti normalmente trascorrevano un periodo di riposo fra una missione e l’altra: il fatto che the Bishop fosse di nuovo in azione dopo la faccenda della Francia faceva supporre che non su trattasse di qualcosa che gli era stato ordinato dai suoi capi.
Stava lavorando per conto suo.
Sorrise fra sé e sé, immaginando l’inglese che interrogava ogni informatore, ogni lattaio, ogni portinaia comprata a suon di sterline per scovarlo.
The Bishop era furbo, naturalmente, sapeva a chi chiedere e come, ma non aveva a che fare con uno sprovveduto: avrebbe potuto aspettare mesi prima di scovare una traccia degna di questo nome.
Mesi che non aveva.
E quindi, come arrivare fino a lui?
Passò in rassegna tutti i colleghi che avrebbero potuto – volenti o nolenti – dire qualcosa a the Bishop. Non erano molti, obiettivamente, e nessuno di essi sarebbe stato in grado di fornire informazioni di una certa importanza.
Scosse la testa: ci doveva essere qualche elemento che non stava considerando, un agente come the Bishop non rimaneva a pascolare da qualche parte in attesa di un indizio, andava a colpo sicuro.

Si alzò, scese nella Hall. “Buon giorno, signor ingegnere,” lo salutò cerimoniosamente il portiere, accennando un inchino.
Il Werwolf rispose con un sobrio cenno del capo, quindi si diresse a un piccolo salotto composto da poltrone e divani disposti intorno a un tavolino coperto di giornali. Raccolse un quotidiano straniero di qualche giorno prima, lo sfogliò distrattamente: informazioni sull’andamento della guerra, cartine dell’Europa con disegni delle varie offensive portate avanti su questo o quel fronte. Immaginò il lavoro di intelligence che stava dietro a ognuna di esse, agenti che si erano scambiati informazioni, doppiogiochisti comprati, spie sotto copertura, furti di informazioni, codici decifrati.
Ogni combattimento nascondeva mesi di lavoro sotterraneo, svolto da gente di cui non si sarebbe mai saputo nemmeno il nome.
Adocchiò una signora che indossava uno spolverino chiaro e un ampio cappello trattenuto sotto la gola da una sciarpa di velo. La vide infilare un paio di guanti di camoscio e notò che sul marciapiede, appena fuori dalla porta, attendeva una vettura.
Si chiese se fosse lei a guidare l'auto, oppure se fosse solo una passeggera.
Prese posto su uno dei divani, raccolse un quotidiano a da dietro le pagine del giornale prese a seguire le evoluzioni della dama, chiedendosi se potesse trattarsi di un'agente straniera.
Non aveva l'accento di Berlino, parlava di monumenti da vistare. Era una copertura, oppure era lui che ormai vedeva spie dappertutto?
Riportò lo sguardo sulle pagine e a quel punto dovette faticare per non sussultare: c'era la fotografia di un ufficiale che stringeva la mano all'Imperatore dopo che questi l'aveva decorato con il Pour le Mérite.
Fu come se in un istante tutti i pezzi di un rompicapo andassero a posto: the Bishop non aveva alcun bisogno di trovare lui, gli bastava trovare Maximilian von Knobelsdorff.
Tutto terribilmente logico, terribilmente semplice: l'inglese era capace di catturare il tenente e rispedirglielo un pezzo per volta, stando attento a non mandargli nessuna parte vitale, fino a che non lo avesse convinto a consegnarsi.
Sarebbe stato in grado di sopportare una cosa del genere? Gli doleva ammetterlo, ma la risposta era no.
Si alzò così bruscamente che la signora si girò a fissarlo stupita. Lui distolse lo sguardo borbottando qualche scusa, quindi si diresse nuovamente in camera, dove riempì con gesti rapidi la valigia. Se la sua intuizione era giusta, aveva pochissimo tempo per intercettare il tenente, perché con ogni probabilità the Bishop era già sulle sue tracce.


   
 
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