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Autore: Parmandil    18/06/2021    1 recensioni
Lacerata fra la lealtà all’Unione e i sentimenti personali, Jaylah intraprende la sua missione più pericolosa. Ormai vero Agente Temporale, è sulle tracce di Vosk, sopravvissuto alla Battaglia di Procyon. Ma stavolta dare il massimo non basta. Sconfitti e dispersi, i nostri eroi devono affrontare le più grandi sfide della loro vita, tentando faticosamente di riunirsi.
Mentre la Keter danneggiata sprofonda sempre più in un pianeta gassoso, Dib e Zafreen cercano di ripararla. Ben presto scoprono di non essere gli unici ad aggirarsi sulla nave spettrale. Intanto il Capitano Hod, naufragata su un mondo ostile, giace tra la vita e la morte. Spetta al timoniere Vrel recuperarne l’energia neurale: una missione impossibile senza l’aiuto dell’estraniata sorella Lyra.
Sulle tracce del nemico, gli Agenti Temporali approdano nel 2053, alla vigilia della Terza Guerra Mondiale. Qui si scontrano col famigerato Colonnello Green e con l’ancor più crudele leader dei Potenziati, scoprendo un piano diabolico per sovvertire il mondo. Ma alla resa dei conti il fato della Galassia dipenderà dalla scelta di Juri Smirnov, l’uomo tradito dall’Unione. Lo scontro con Vosk termina con una stella cadente e un’esplosione che la Terra non dimenticherà mai.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
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-Capitolo 5: Dispersi
 
   Un silenzio di morte scese in plancia. Il peggiore degli incubi si era concretizzato. Erano soli, con la nave in avaria, in una linea temporale ostile. Tutto ciò che conoscevano, tutti coloro che avevano amato, erano stati cancellati dalla Storia. Erano peggio che morti: non erano mai esistiti. La Via Lattea aveva altri padroni, ora.
   «Rilevo...» mormorò Zafreen, ma la voce le venne meno. Quando il Capitano si girò verso di lei, l’Orioniana si riscosse e tornò a leggere i rapporti della sonda. «Rilevo una nave in avvicinamento. È una Dreadnought dei Tuteriani».
   «Non abbiamo scudi né armi. Nessuna possibilità di difesa» mormorò Norrin. Chinò il capo e mosse le labbra, recitando in silenzio il mantra dei Cacciatori che si preparavano alla morte.
   «Abbiamo ancora una navetta temporale» ricordò il Capitano. «Norrin, Jaylah, radunate i vostri ufficiali. Salite sull’Excalibur e mettetevi in salvo, finché potete. Siete gli unici che possano fermare Vosk nel passato».
   «Questo è un lavoro da Agenti Temporali» disse Norrin. «Io resterò qui, per vedere se c’è modo di salvare la nave. Conosco qualche trucco per nasconderci».
   «Come vuole» disse il Capitano. «Si muova, Jaylah! E se c’è un briciolo di giustizia nell’Universo, che possa accompagnarla».
   La mezza Andoriana comprese che il Capitano non si aspettava di rivederla. Quello era un addio. Passò lo sguardo da un collega all’altro, indugiando su Norrin e infine su Vrel. «Troverò Vosk, ve lo prometto. E non lascerò nulla d’intentato per fermarlo» promise, impugnando l’arma datale per distruggere l’Uthat. «Ma voi tenete duro! Così mi raggiungerete sul più bello, per togliermi dai pasticci in cui mi caccerò senz’altro» disse, con le lacrime agli occhi. «A presto» concluse, e infilò il turboascensore.
 
   Percorrendo la nave da un’estremità all’altra, Jaylah constatò che i danni erano davvero catastrofici. Dovette scavalcare corpi privi di sensi e anche un paio di feriti che le tendevano le mani, implorando aiuto. Nel frattempo contattò la Squadra Temporale, ordinando a tutti di presentarsi nell’hangar, che era di nuovo pressurizzato. Molti Agenti diedero l’okay, ma altri erano bloccati in sezioni danneggiate e dubitavano di potersi liberare in tempo.
   «Hakon a Chase, sono rimasto bloccato in un turboascensore che è precipitato per diversi piani. Cerco di liberarmi col phaser» la informò l’Illyriano.
   Jaylah si sentì con l’acqua alla gola. Tra i caduti dell’ultima missione e quelli che erano bloccati, la sua squadra era gravemente sotto organico. Le dispiaceva che Norrin non fosse con lei: l’Hirogeno era stato il suo mentore per anni. Quando giunse nell’hangar, la mezza Andoriana ci trovò appena quindici Agenti. Attese qualche minuto, sperando che ne venissero altri. Ma ad arrivare fu Selmak.
   «Conosco la situazione e voglio aiutarvi» disse il Maggiore. «Qui sulla Keter non posso fare la differenza, ma nel passato forse sì. Mi lasci venire!».
   Jaylah ebbe un attimo d’esitazione. Prima che scoppiasse l’emergenza erano alle prese con il sabotatore della Squadra Temporale. Selmak era ancora tra i principali sospettati. Ma sondando la sua mente, Jaylah non percepì inganni né ostilità. Peccato che la telepatia non fosse una scienza esatta: una mente ben addestrata poteva celare le proprie emozioni.
   «D’accordo, salga a bordo» cedette la mezza Andoriana. Accostatasi all’Excalibur, posò la mano sul lettore di DNA, facendo aprire l’ingresso. Lasciò salire tutti, poi entrò a sua volta e richiuse la porta. Per quanto spaziosa, la sezione di poppa della navicella era affollata. Jaylah ripose l’arma de-cristallizzante nell’armadietto di sicurezza e corse in cabina. Adam era già ai comandi. «Situazione?» gli chiese.
   «La Dreadnought è entrata in orbita» riferì l’androide. «Dobbiamo andare, ma sfortunatamente non conosciamo la destinazione del Reaper».
   «Se è successo qualcosa all’Unione, avremo le risposte sulla Terra» ragionò Jaylah. «Quanto alla data, per adesso ci basta andare a prima delle anomalie. Facciamo il 2500, per essere sicuri. Una volta lì, cercheremo di capire quando si è verificata la deviazione».
   «Bene, Tenente» disse Adam, attivando il nucleo temporale. L’Excalibur vibrò, raccogliendo energia per il balzo. Non c’era bisogno di lasciare l’hangar, perché il trasferimento era analogo al teletrasporto, a differenza del Reaper, che doveva aprire una breccia temporale e poi attraversarla.
   «No, aspettate!» gridò Hakon, entrando in quel momento nell’hangar. Si precipitò verso l’Excalibur, ma questa svanì, senza che gli occupanti lo avessero notato.
   «Yotz, oggi va tutto in malora!» imprecò l’Illyriano. Cadde in ginocchio e diede un gran pugno sul pavimento per sfogarsi. Poco alla volta si calmò. Si rialzò e lasciò l’hangar, dicendosi che anche lì sulla Keter c’era molto da fare.
 
   «L’Excalibur è partita» riferì Zafreen.
   «Bene» disse Hod, leggermente sollevata. «Ora cerchiamo di sopravvivere anche noi. Come si comporta la Dreadnought?».
   «È sempre in... no, ha lasciato l’orbita in questo momento» si corresse l’Orioniana. «Rilevo un condotto di transcurvatura in avvicinamento».
   «Transcurvatura?» si allarmò il Capitano, girandosi verso di lei. Pochissime specie possedevano quella tecnologia, affine alla cavitazione quantica, ma ancor più sofisticata. «Di chi si tratta?».
   «Sto cercando di capirlo. La traccia energetica sembra... no!» gemette l’Orioniana, facendosi di un verde pallido.
   «Allora?!» chiese Hod, impaziente. Ma si accorse che tutti gli ufficiali fissavano inorriditi lo schermo alle sue spalle. Preparandosi al peggio, l’Elaysiana si volse lentamente. Ciò che vide le fece quasi perdere il lume della ragione.
   Un cubo Borg era uscito dalla transcurvatura e si avvicinava, oscurando le stelle con la sua mole. Anziché mostrare il reticolo di tubi e travi dei vecchi modelli, questo cubo aveva le pareti lisce, rivestite di una corazza grigia. Si avventò sulla Dreadnought, colpendola con raggi trancianti e siluri. L’astronave fusiforme rispose con raggi a particelle. Erano armi potenti, ma gli scudi Borg le bloccarono subito, senza bisogno d’incassare i primi colpi per poi adattarsi. Significava che quello non era il primo scontro fra le due potenze.
   La battaglia durò parecchi minuti, con le due grandi astronavi che si giravano attorno, bombardandosi con tutte le armi. Gradualmente divenne chiaro che i Borg erano in vantaggio. Il cubo ruotava astutamente sul proprio asse, rivolgendo facce diverse alla Dreadnought, per ricaricare gli scudi quando s’indebolivano. I Tuteriani non avevano lo stesso vantaggio. I loro scudi iniziarono a cedere e alcuni siluri Borg andarono a bersaglio, aprendo brecce nello scafo. Vista la mala parata, i Tuteriani volsero la prua e cercarono di fuggire. Ma i Borg agganciarono lo scafo con un raggio traente così forte che la Dreadnought si spezzò all’altezza della strozzatura centrale. I due tronconi indifesi furono bombardati ancora, finché esplosero uno dopo l’altro. Senza perdere tempo, i Borg rientrarono in transcurvatura, lasciandosi dietro i rottami fiammeggianti.
   «È così che funziona» comprese Hod. «In questa linea temporale la Via Lattea è contesa fra Borg e Tuteriani. Le altre specie saranno ridotte al lumicino... se esistono ancora». Cercò di non pensare a cosa fosse successo al suo pianeta, la pacifica Elaysia; non poteva permettersi distrazioni.
   «Bene; se qualcuno pensava ancora di lanciare richieste di soccorso, ora se lo può scordare» disse il Capitano. «Resteremo qui finché la nave non sarà nuovamente in grado di volare, ci volessero mesi. Poi andremo ad aiutare i nostri Agenti. Sarà la sfida più difficile, ma dobbiamo vincerla. Siamo i soli che possono ripristinare la linea temporale».
   «Ne siamo certi?» chiese Radek. «Ormai sappiamo che la Flotta, nei secoli a venire, avrà navi ed equipaggi più preparati di noi contro queste catastrofi. Non potrebbero intervenire loro?».
   «Possiamo augurarcelo. Ma finché non avremo prove certe, dobbiamo comportarci come se fossimo l’ultima linea di difesa» disse Hod. «Al lavoro, adesso. Abbiamo una nave da riparare».
 
   Sulla plancia del Reaper, Vosk osservava l’atmosfera turbinosa di Pyris VI, mentre i suoi ufficiali eseguivano analisi.
   «Nessuna traccia dei federali» disse l’addetto ai sensori. «Nemmeno i frammenti della nave distrutta».
   «Il nucleo temporale ha funzionato a dovere!» gongolò Kravik. «Siamo nel passato, nell’anno che volevamo. E il fatto che i federali non ci abbiano inseguiti dimostra che ignorano la nostra destinazione».
   «In tal caso, rotta verso la Terra» ordinò Vosk. Il pianeta blu uscì dallo schermo, man mano che il Reaper manovrava. Quando furono in posizione entrarono nel condotto di transcurvatura.
   «Arriveremo tra un’ora, Leader Supremo» riferì il timoniere.
   «Bene... e congratulazioni a lei, Tenente» disse Vosk. «Con le sue manovre ha stracciato i federali. Ho particolarmente apprezzato lo slalom fra gli asteroidi».
   «Lieto di servire, mio signore» disse il timoniere, inorgoglito dai complimenti.
   «Sì, congratulazioni a tutti» disse Vosk, andando verso il centro della plancia. «Ma ci resta molto da fare. Abbiamo la Storia da riscrivere. E se la Storia opporrà resistenza... allora passeremo a metodi più diretti. Portatemi l’Uthat!».
   Ghrath entrò in plancia, reggendo con ambo le mani una cassetta di sicurezza federale. La parte superiore era stata scoperchiata, mettendo a nudo il contenuto. Nella luce bassa della plancia, il Tox Uthat sfavillava di luce propria. Sembrava una gemma, magari un grosso diamante, sagomato a forma di uovo, ma con la superficie sfaccettata. I Na’kuhl dovettero socchiudere gli occhi per non esserne abbagliati.
   «Eccola, finalmente» mormorò Vosk, con insolita reverenza. «L’arma che ci ha sconfitti a Procyon V ora è al nostro servizio. Il potere di estinguere le stelle... di frantumare i pianeti... è finalmente in mano mia!». Afferrò l’Uthat e lo tenne alto, così che tutti lo vedessero bene. «Che ironia... un potere smisurato in un oggetto così piccolo» mormorò.
   «Un potere che deve essere compreso, mio signore» intervenne Kravik. «Non sappiamo ancora come usarlo. Ma su questa nave abbiamo sofisticati laboratori. Se mi affidate l’Uthat, sono certo che ne capirò il funzionamento. Così potrete usarlo quando vorrete».
   «Ci conto, Kravik» disse Vosk, riponendo il cristallo nel recipiente. «Inizi subito le analisi».
   Lo scienziato s’inchinò profondamente, prima di ricevere da Ghrath la cassetta col cristallo. La prese con reverenza, come se contenesse una reliquia, e mosse in fretta verso l’uscita. Era già alla porta quando Vosk lo richiamò. «Ah, Direttore...».
   «Sì?» fece Kravik, voltandosi di nuovo.
   «A volte lei è troppo loquace» notò il Leader Supremo. «Stia attento a non parlare dell’Uthat al dottor Smirnov. Il nostro consulente storico non approverebbe. Potrebbe persino sabotarci, se sapesse per cosa ci stiamo attrezzando».
   «Sarò una tomba, mio signore» promise lo scienziato. Ciò detto lasciò la plancia, diretto ai suoi laboratori.
 
   «Sala macchine a plancia, abbiamo di nuovo i sensori. Solo a corto raggio». La voce di Zafreen veniva dal comunicatore, dato che l’Orioniana aveva lasciato la sua postazione guasta per raggiungere gli ingegneri.
   «Bene, ci dia una visuale» disse Hod. Era la prima buona notizia, dopo ore di lavoro febbrile. Il nucleo temporale perdeva ancora e, per ammissione dell’Ingegnere Capo, rischiava di esplodere. Molte sezioni erano inondate dal metano liquido, con le paratie d’emergenza sul punto di sfondarsi. E una trentina di ufficiali erano ancora in infermeria, gravemente feriti e quindi impossibilitati a contribuire ai lavori. Alcuni avevano addirittura perso degli arti. Il Capitano avrebbe voluto far loro visita, ma non ne aveva il tempo.
   Lo schermo s’illuminò, ma l’immagine era confusa. Poco alla volta si precisò, man mano che i sensori tornavano in linea. Il Capitano riconobbe gli anelli del pianeta e i frammenti della Dreadnought che si stavano ancora disperdendo. A un tratto notò un bagliore in mezzo ai detriti. Qualcosa si muoveva in modo autonomo. Un’astronave.
   «Lo vede anche lei, Zafreen? Lì, in mezzo ai resti della Dreadnought. Aumenti il dettaglio» ordinò.
   L’inquadratura si amplificò. Non c’erano dubbi: era davvero una piccola nave, che si muoveva fra i detriti. Hod notò il fascio azzurro di un raggio traente.
   «Ladri di rottami» disse Radek. «Con la Galassia devastata è il solo modo di sopravvivere. Ogni campo di battaglia diventa meta dei razziatori».
   «Riconosce la configurazione dello scafo?» chiese Hod. «Sarà senz’altro un modello diverso da quelli della nostra linea temporale. Ma già riconoscere la specie sarebbe un passo avanti».
   «Perché, pensa di contattarli? Di chiedere aiuto, magari?» volle sapere Radek.
   «L’idea non le piace» indovinò il Capitano.
   «Nelle nostre condizioni, rischiamo di diventare il prossimo bersaglio» confermò il Comandante. «Sarà gente disperata, che ha perso tutto... e quindi pronta a tutto».
   «Abbiamo un nucleo che può esplodere in ogni momento» gli sussurrò Hod all’orecchio. «Non c’è nemmeno energia per replicare i pezzi di ricambio che ci servono. Senza un po’ d’aiuto, non usciremo da questo pianeta».
   «Io credo di riconoscere quella nave» disse inaspettatamente Vrel, che l’aveva osservata con attenzione.
   «Sì?» fece il Capitano.
   «Somiglia a un vecchissimo modello degli Xindi Primati. Il popolo di mio padre» rivelò il timoniere.
   «Chissà cos’è successo agli Xindi, in questa realtà» commentò Radek. «Non sappiamo se siano alleati dei Tuteriani».
   «Anche se lo erano, penso che a quest’ora siano stati traditi» disse il Capitano. «Quantomeno non esitano a saccheggiare i loro resti. Zafreen, apra un canale». Si rassettò l’uniforme, cercando di apparire presentabile.
   Uno Xindi Primate apparve sullo schermo. Il suo volto magro era sfigurato da una lunga cicatrice, che gli attraversava un occhio. «Sono il Comandante Tierna, degli Xindi Primati» esordì. «Non ci eravamo accorti che foste là sotto. Chi siete? Che ci fate laggiù? Aspettate... questi rottami sono nostri! Li abbiamo raggiunti per primi!». Dietro di lui si aggiravano altri Xindi, ma la telecamera li teneva volutamente sfocati.
   «Si calmi, Comandante. Non vogliamo contestare il vostro diritto al recupero» disse Hod, accorgendosi che erano davvero dei disperati. «Sono il Capitano Hod, della nave stellare Keter» si presentò.
   «Mai sentita» disse Tierna, arcigno. «Lei è un’Elaysiana, dico bene? Vi credevo estinti. Ma quello accanto a lei è un Rigeliano. E quello laggiù non ho idea di cosa sia» disse, accennando a Norrin.
   «Su questa nave collaborano molte specie» confermò il Capitano.
   «Siete fuggiti dai vostri mondi, eh? Vi capisco» disse lo Xindi Primate. «Prima i Borg, poi i Tuteriani con le loro maledette anomalie. Ormai non c’è un porto sicuro in tutto il Quadrante. Ma non mi avete ancora detto che ci fate laggiù. Vi siete nascosti durante la battaglia?».
   «Sì, ma la nostra nave è danneggiata e abbiamo problemi a risalire» ammise Hod. Non specificò la gravità dei danni e si guardò bene dall’informarlo che provenivano da un’altra linea temporale. «Non è che potreste agganciarci col raggio traente?».
   «Uhm... la nostra nave è piccola, il raggio ha una potenza limitata» disse Tierna. «E non possiamo scendere troppo in quell’atmosfera. Mi spiace, Capitano. Capisco che siete nei guai, ma non rischierò la mia gente per degli alieni».
   «Abbiamo anche degli Xindi a bordo» disse Hod, sperando di smuoverlo.
   «Xindi Primati?» inquisì Tierna. «Perché delle altre specie non c’interessa. Ci hanno causato solo guai».
   «Sì, anche Primati» confermò Hod. «Come il mio timoniere, Vrel» disse, invitandolo ad alzarsi. Non rivelò che Vrel era Xindi solo per metà, temendo che lo avrebbero disprezzato. Per lo stesso motivo non disse il suo cognome, ereditato dalla madre: gli Xindi avevano solo il nome proprio.
   «Uhm... sei davvero uno di noi?» chiese Tierna, sospettoso. I tratti Xindi erano poco pronunciati sul volto del timoniere, a causa del suo sangue misto.
   «Certo» rispose lui. «Ho anche la medaglietta d’iniziazione, se volete vederla. E su questa nave ci sono altri Primati». La medaglietta aveva il valore di un documento d’identità. Tutti i Primati ne ricevevano una, al compimento della maggiore età. Falsificarla era considerato un atto estremamente vile.
   «Sarei lieto di accogliere lei e gli altri Primati sulla mia nave» disse Tierna. «Così potremo discutere e trovare il modo d’aiutarci a vicenda. Vi teletrasporterei subito, ma abbiamo... ehm... un problema col teletrasporto» ammise.
   «Anche il nostro è fuori uso» disse Hod. «Verrò in navetta, portando alcuni dei miei ufficiali Xindi, come prova della nostra sincerità». Dette un’occhiata a Radek, notando il suo sguardo di disapprovazione. Il Comandante era molto protettivo e cercava sempre di andare in missione al suo posto.
   «Molto bene, siamo pronti a ricevervi. Venite al più presto. Tierna, chiudo». La nave dei Primati tornò sullo schermo, ancora intenta a razziare i rottami.
   «È stata incauta. Quelli sono dei disperati pronti a tutto» disse Radek. «Ma ormai la conosco abbastanza da sapere che non tornerà sui suoi passi. Quindi le chiedo solo di prendersi una buona scorta».
   «Mi conosce davvero» sorrise Hod. «Le affido il comando fino al mio ritorno. Norrin, raduni tutti gli Xindi Primati della Sicurezza. Vrel, venga con noi».
   «Sono pronto» annuì il timoniere, venendole accanto.
   «Vorrei portare anche sua sorella, se sarà d’accordo» disse inaspettatamente il Capitano.
   Vrel impallidì. «Che c’entra Lyra in tutto questo?!» protestò.
   «Ci sono pochissimi Primati a bordo. Una in più farà buona impressione» rispose Hod. «Ma soprattutto... sua sorella è una buona telepate. Migliore di lei, se posso dirlo. E io devo sapere cosa passa per la testa di quella gente» disse, accennando alla navicella dei razziatori.
   «Mia sorella è sempre stata brava a spiare le faccende altrui. E a cacciarsi nei guai» disse Vrel, contrariato. «Sono certo che le dirà di sì. Ma io la prego di non coinvolgerla, Capitano. È una civile e, anche se si dà tante arie, non è mai stata in situazioni pericolose. Non è addestrata».
   «Anche a me spiace coinvolgerla, ma la situazione è grave» si giustificò il Capitano. «Chiunque sia a bordo deve contribuire secondo le sue capacità».
   Vrel si morse la lingua. Avrebbe voluto insistere, ma vedeva con i suoi occhi quanto fossero disperate le circostanze. «L’ultima volta che abbiamo portato un civile in missione, lo abbiamo perso» disse, riferendosi a Juri. «Spero che non accada di nuovo. Parlerò io a Lyra».
 
   «Certo che vengo!» disse subito Lyra.
   «Bada che non è una missione qualunque» avvertì Vrel. «Non abbiamo mai affrontato una situazione del genere».
   «Proprio per questo non posso starmene qui, a non far niente!» disse Lyra con foga. I due discutevano in un angolo dell’hangar, mentre intorno a loro c’era un gran viavai d’ingegneri, intenti alle riparazioni. Alcuni ufficiali della Sicurezza stavano già salendo sulla navetta di classe Gryphon che li avrebbe portati dagli Xindi.
   «Okay, ora stammi a sentire. Il Capitano ti vuole per le tue facoltà telepatiche, quindi concentrati sulle percezioni» raccomandò Vrel. «Se avverti pericolo mentre siamo dagli Xindi, faccelo capire con discrezione. Lascia parlare il Capitano... e per l’amor dello Spazio, non metterti a interrogare quella gente».
   «Mi prendi per sprovveduta?» chiese Lyra.
   L’espressione di Vrel diceva di sì, ma il timoniere non rispose. Invece le porse un piccolo phaser manuale. «È un modello 1, il più piccolo che abbiamo» disse. «Anche noi li porteremo, perché danno poco nell’occhio. Ricordi come si usa?».
   «Non sono così arrugginita» disse Lyra, impugnando il phaser. Tolse la sicura, si accertò che l’arma fosse tarata su massimo stordimento e puntò il bersaglio: una macchiolina scura sulla parete, a dieci metri di distanza. Socchiuse gli occhi e fece fuoco, centrandola al primo colpo. Molte teste si voltarono, ma Vrel fece segno che andava tutto bene e il viavai riprese. Lyra lo guardò, aspettandosi un riconoscimento.
   «Vedo che ricordi le lezioni di papà» disse Vrel. «Ma non cominciare una sparatoria, se non sei assolutamente certa che vogliono colpirci».
   «Lo so!» esclamò Lyra. «Smetti di trattarmi come se fossi una bambina!».
   «Siete pronti?» chiese il Capitano, arrivando di buon passo. Vrel notò con preoccupazione che aveva ancora l’esoscheletro di sostegno. Qualunque segno di debolezza era un rischio, quando si aveva a che fare con dei saccheggiatori.
   «Ci sono, Capitano» disse Lyra, seguendola a passo svelto. Vrel le venne dietro con molto meno entusiasmo. Quando furono tutti a bordo, diresse la navetta oltre il campo di forza dell’hangar, nell’oceano d’idrocarburi.
   «Temperatura -160º, pressione 8.000 bar» lesse, consultando gli strumenti. «Siamo in un mare di metano, con tracce d’ammoniaca. Dib si sentirà a casa».
   Dietro di lui, Lyra entrò in cabina. Sedette a terra, con le gambe incrociate, e s’immerse in una meditazione profondissima, per espandere al massimo le sue percezioni telepatiche. Vrel la percepì ma non disse niente, per non distrarla. Diresse la navetta verso l’alto, fuori dall’oceano di metano e attraverso strati sempre più rarefatti d’idrogeno ed elio gassosi. Alcuni fulmini li colpirono, indebolendo gli scudi ma senza perforarli. Finalmente furono nello spazio. Si accostarono alla nave Xindi, che aveva smesso di fare incetta di rottami e li aspettava con l’hangar aperto.
   D’un tratto Lyra inspirò a fondo e spalancò gli occhi, che erano vacui e distanti. «Avverto un senso di pericolo» disse. «Facevate bene a dubitare. Credo che gli Xindi vogliano prenderci in ostaggio, per ricattare la Keter».
   «Me lo può confermare?» chiese il Capitano, rivolta a Vrel.
   «Non percepisco nulla» rispose il timoniere. «Ma mia sorella ha un livello ESP più alto del mio. Se avverte un pericolo, dovremmo darle retta».
   Inquieta, il Capitano eseguì una scansione con i sensori. «Hanno un cannone al plasma» notò. «E questo cosa...». Fece analisi più approfondite. «Trasportano tossine, bandite dagli Accordi di Khitomer. Ho visto abbastanza. Vrel, faccia inversione di rotta».
   «Volentieri» disse lo Xindi. Aveva appena iniziato la manovra, quando un raggio traente agganciò la navicella. «Dren, ci hanno presi!» imprecò.
   «Manovre evasive. Rimodulo gli scudi per liberarci» disse il Capitano. La navetta si scosse e per un attimo si liberò, ma gli Xindi adattarono prontamente il raggio traente.
   «Ci chiamano» disse Lyra, che aveva preso la postazione delle comunicazioni.
   «Apra un canale» ordinò il Capitano.
   Il volto di Tierna apparve sullo schermo. «Beh, che vi prende?» domandò, fissandoli corrucciato con l’unico occhio sano. «Eravamo pronti a ricevervi».
   «Abbiamo cambiato idea» disse Hod. «Non vogliamo interferire nel vostro piano di volo».
   «Sciocchezze! Voi verrete a bordo come pattuito!» si scaldò il Primate.
   «Abbiamo ragione di credere che ci vogliate in ostaggio. Lasciateci andare... sarà meglio per voi» affermò il Capitano, senza più fingere cordialità.
   «Ve ne andrete solo quando io lo deciderò!» berciò Tierna, e chiuse la comunicazione. La navetta si scosse bruscamente, strattonata tra l’impulso dei motori e quello contrario del raggio traente.
   «Non riesco a liberarci» disse Hod. «Pensa di farcela con una manovra?».
   «Dipende da quanto sono coraggiosi» rispose Vrel, scuro in volto.
   «Proceda» l’autorizzò il Capitano.
   «Ehi, non vorrete mica...» fece Lyra, ma non ebbe bisogno di terminare. Vrel aveva invertito nuovamente la rotta e ora dirigeva a tutta birra contro la nave Xindi. Invece di opporsi al raggio traente, lo sfruttava per accelerare ancora di più.
   «Vediamo quanto ci tenete a noi» mormorò il timoniere. Mancavano pochi secondi all’impatto. La navicella federale si sarebbe disintegrata, ma anche il vascello Xindi avrebbe riportato gravi danni.
   All’ultimo istante i Primati disattivarono il raggio. Vrel cabrò immediatamente, passando a pochi metri dalla loro nave. La oltrepassarono, ma così gli Xindi si frapponevano fra loro e la Keter, ancora inabissata.
   «Caricano il cannone al plasma» avvertì Lyra, consultando i sensori.
   «Mi sa che li ho fatti arrabbiare» disse Vrel. «Cerco di tenerli a distanza». Il primo colpo al plasma mancò la Gryphon di poco. Il secondo la sfiorò, indebolendo gli scudi. «Sono cocciuti» commentò Vrel. «Provo a seminarli fra gli anelli».
   «No, diriga verso Pyris VII» ordinò il Capitano. «Giri intorno al pianeta e poi torni verso la Keter».
   Vrel stava per chiedere perché andare tanto lontano, quando poteva eseguire la stessa mossa lì negli anelli, con un asteroide abbastanza grande. Ma pensò che forse, dopo la prova non eccelsa data coi Na’kuhl, Hod non si fidava tanto delle sue abilità di pilota. «Sì, Capitano» disse a denti stretti.
   La Gryphon si diresse verso il pianeta, sempre inseguita dalla nave Xindi, che la bersagliava con il cannone al plasma. Poco alla volta Pyris VII s’ingrandì sullo schermo. Era un mondo roccioso, poco più grande della Terra. Le rocce basaltiche gli conferivano un colorito nerastro, venato di verde scuro là dove cresceva una stentata vegetazione. Gli oceani erano grigi e tristi. Un’aura spettrale ammantava quel mondo di classe L, che nessuno aveva mai voluto colonizzare.
   D’un tratto la Gryphon ebbe uno scossone violentissimo. Gli occupanti dovettero aggrapparsi a seggiole e consolle per non essere scaraventati a terra.
   «Ci hanno presi» disse Hod. «Abbiamo perso la gondola di dritta».
   Incredula, Lyra visualizzò sulla sua consolle l’inquadratura di poppa. Era proprio così: la gondola tranciata di netto si allontanava nello spazio, mentre gli inseguitori accorciavano le distanze, sparando come forsennati. Dal pilone troncato usciva una scia di plasma, come sangue da una ferita. La mezza Xindi fissò il fratello, concentrato sul timone, e per la prima volta dubitò seriamente di uscirne viva.
   «Ho interrotto l’afflusso di plasma alla gondola distaccata» disse il Capitano. «Sto dirottando tutta l’energia residua agli scudi posteriori, ma non so se reggeranno un altro colpo. Quanto manca al pianeta?».
   «Ci siamo quasi» disse Vrel. «Farò un giro stretto, attraversando l’atmosfera. Non credo che quella nave sia tanto agile da starci dietro».
   La Gryphon calò sempre più di quota. Il paesaggio tormentato del pianeta scorreva sotto gli occhi dei federali: deserti, catene montuose, canyon disseccati. Qua è là c’era qualche bosco, scuro e ammantato di nebbie. La nave Xindi continuò testardamente l’inseguimento, ma poco alla volta rimase indietro. I Primati non osavano scendere nell’atmosfera con un angolo così stretto.
   «Non avete il fegato di seguirci, eh?!» fece Vrel, convinto di averli battuti. In quell’attimo un ultimo colpo al plasma centrò la navetta. Gli scudi furono perforati, come anche la fiancata. Il plasma incandescente inondò la sezione di poppa, carbonizzando le guardie che si trovavano lì. La porta della cabina si sigillò, per proteggere gli occupanti; ma l’intenso calore la fece arrossare.
   Lyra gridò e si buttò in avanti, avvertendo la vampa attraverso la porta. Vrel e Hod furono sbattuti contro la consolle principale, che sfrigolò. Alcuni pannelli si disattivarono. La navetta prese a ruotare vorticosamente su se stessa, mentre continuava a scendere. Non era più un sorvolo radente: stavano precipitando.
   «Vrel! Ci schianteremo!» strillò Lyra, terrorizzata. Si aggrappò al suo sedile per non essere sbatacchiata nella cabina, mentre la Gryphon continuava ad avvitarsi.
   «Cerco di riprendere l’assetto» disse Vrel, manovrando i pochi comandi che ancora rispondevano. Con i propulsori laterali riuscì a fermare il movimento a vite. Ma stavano ancora precipitando, con un angolo così stretto che la navetta si lasciava dietro una scia infuocata. Attraversarono uno strato di nuvole: la superficie rocciosa era sempre più vicina. «Possiamo scordarci di tornare nello spazio» disse il timoniere. «Tenterò un atterraggio di fortuna. Mettetevi le cinture!».
   Lui e Lyra attivarono i comandi sulle seggiole: sofisticate fasce imbottite li avvolsero all’istante, per proteggerli dall’impatto. Il Capitano però si stava sporgendo verso un pannello laterale, per disattivare il nucleo di curvatura. Non fece in tempo ad attivare le cinture.
 
   Quattrocento chilometri più in alto, la nave Xindi tornò in un’orbita stabile. I motori a impulso erano surriscaldati e lo scafo scricchiolava per l’eccessiva tensione a cui era stato sottoposto.
   «Integrità strutturale ai livelli di guardia» avvertì un ufficiale.
   «Un iniettore del plasma è saltato» disse un altro.
   «Maledizione!» ringhiò Tierna. «Come hanno capito le nostre intenzioni?!».
   «Forse hanno un telepate» suggerì il Primo Ufficiale. «Ma questo non li salverà dallo schianto».
   «Uhm...». Tierna osservò la navetta dallo schermo principale. La Gryphon precipitava come una stella cadente, lasciandosi dietro una scia di plasma. Scomparve tra le nebbie che ammantavano la superficie. «Peccato. Potevano valerci un buon riscatto. Almeno avrei saputo chi erano» mugugnò lo Xindi Primate.
   «Mandiamo giù una squadra?» chiese il Primo Ufficiale. «Possiamo recuperare i resti della navetta. La sua tecnologia sembra molto sofisticata».
   «No» disse Tierna con decisione. «Nessuno di noi scenderà su quel pianeta. Andiamocene. Torniamo al rifugio, prima che la Keter esca dal gigante gassoso. O che tornino i Borg».
   Un brivido corse fra la ciurma. L’inseguimento della navetta aveva quasi fatto scordare agli Xindi i rischi che correvano, ogni volta che uscivano dal loro asteroide-rifugio. Ma le parole del Capitano rammentarono a tutti che ogni minuto nello spazio aperto accresceva il pericolo. L’astronave volse la prua lontano da Pyris VII e svanì nel vortice Xindi, un sistema propulsivo simile alla cavitazione.
   «Signore, perché non è voluto scendere?» chiese il Primo Ufficiale a bassa voce. «Ci avremmo messo pochi minuti. Gli occupanti saranno morti, dopo un impatto del genere».
   «Non è di loro che mi preoccupo» disse Tierna. «Non ha mai sentito le storie che corrono su Pyris VII? Quel pianeta è infestato».
 
   La sala macchine era l’epicentro dei lavori con cui gli ingegneri si sforzavano di tenere insieme la Keter. Gravemente danneggiata nella battaglia, risuonava di allarmi, ordini concitati, rumore di saldatori e altri strumenti. Alcuni componenti del nucleo quantico si erano fusi, rendendo ancora più difficili le riparazioni. Un condotto del plasma era esploso e anche se la valvola era scattata, bloccando immediatamente l’afflusso, l’aria era ancora impregnata dell’odore. Un serbatoio di liquido refrigerante si era incrinato e stava venendo svuotato in fretta, nel caso cedesse. I tecnici cercavano di riattivare almeno le consolle, per avere un’idea di quanto fossero gravi i danni. Le maggiori preoccupazioni venivano dal campo di contenimento del nucleo. Se avesse ceduto, provocando l’annichilazione di tutta l’antimateria, la Keter sarebbe esplosa. In questi casi la procedura prevedeva l’immediata riconversione dell’antimateria in energia, in modo controllato, ma stavolta i danni erano così gravi che si temeva di non poter gestire il processo.
   In quella baraonda, l’unica figura del tutto calma era Dib, l’Ingegnere Capo. La sua specie aveva le capacità mentali di un sofisticato computer, unite a un’imperturbabilità superiore a quella dei Vulcaniani. Perché i Vulcaniani acquisivano l’autocontrollo con anni di duro addestramento, mentre i Penumbrani ce l’avevano innato. Così Dib impartiva gli ordini – da cui dipendevano le sorti della nave – con lo stesso tono calmo di tutti i giorni. Al tempo stesso eseguiva i compiti più complessi, con tale rapidità che i colleghi potevano a malapena seguirne i movimenti.
   In una nicchia della parete, bordata di consolle, Zafreen cercava di ripristinare i sensori a lungo raggio. Era un compito laborioso, anche perché l’energia continuava a fluttuare in modo esasperante.
   «Dove siete?» mormorò l’Orioniana, mordendosi il labbro. La Gryphon e la nave Xindi erano sparite dai sensori. Le letture si erano interrotte per uno sbalzo d’energia mentre la navetta era in avvicinamento e quando i sensori erano tornati in linea entrambi i vascelli erano svaniti. Dovevano essersi allontanati, ma perché? Forse gli Xindi avevano aperto il fuoco?
   «Zafreen, ci servono i sensori a lungo raggio per capire che succede là fuori» ordinò Radek dalla plancia.
   «Sì, ma l’energia continua a...».
   «Niente scuse, faccia come ho detto!» tagliò corto il Comandante. Era in pensiero per i dispersi, come lei; ma Zafreen non sapeva proprio che inventarsi per avere letture decenti.
   «Dib, mi serve più energia!» strillò l’Orioniana, per farsi udire in quel bailamme.
   «Il nostro consumo energetico è calibrato fino all’ultimo ampere» rispose Dib con la solita calma.
«Se scendessimo sotto il limite di sicurezza, il contenimento dell’antimateria cederebbe».
   «Beh, inventati qualcosa! Io devo sapere che succede là fuori!» protestò Zafreen.
   «Quando potrò destinarle più energia, la informerò» disse il Penumbrano. «Nel frattempo le consiglio di ricalibrare lo spettrometro, sostituire i giunti depolarizzati del sensore subspaziale e reinserire le equazioni di campo linearizzate nel rilevatore di onde gravitazionali».
   «Ehi, piano!» annaspò Zafreen, sopraffatta da quel gergo tecnico. «Parlo molte lingue, ma non quella degli ingegneri! Che dicevi delle – ehm – equazioni di campo?» chiese, prendendo appunti sul d-pad.
   «Deve considerare il tensore metrico dello spazio-tempo. Calcoli il tensore di Ricci per ottenere lo scalare di curvatura. Sostituisca il valore nelle equazioni di Cochrane, sfruttando l’invarianza di Gauge per determinare il fronte d’onda» snocciolò Dib, senza distrarsi dalle altre incombenze.
   «Ho capito solo Ricci, Cochrane e Gauge» ammise Zafreen.
   «Resti lì ferma, finché non le mando un tecnico» consigliò Dib, prima di allontanarsi.
   «Mannaggia! Non potevo restare in quel locale di striptease, invece di arruolarmi nella Flotta? Avevo uno stuolo di ammiratori, le altre ragazze erano simpatiche, e non dovevo combattere contro dittatori alieni e formule matematiche!» si disse l’Orioniana, imbronciata. Poi ricordò che, se la linea temporale era cambiata, anche lo strip club di Rio doveva essere svanito.
   In quella Hakon entrò in sala macchine. Si guardò attorno, un po’ frastornato dalla confusione. Poco alla volta capì che i danni erano ancora più gravi di quanto pensasse. D’un tratto vide Zafreen nella sua nicchia. Le venne incontro quasi correndo. «Eccoti!» esclamò.
   Zafreen alzò il viso dallo schermo, su cui scorrevano incomprensibili equazioni. «Hakon! Che ci fai qui?! Ti credevo partito con Jaylah» disse.
   «Avrei dovuto, infatti!» ammise l’Illyriano, serrando i pugni per la stizza. «Ma ero rimasto bloccato in un turboascensore e gli altri sono partiti senza aspettarmi. Spero che stiano bene... spero che gli ingegneri rimettano in sesto la Keter, così potremo andare ad aiutarli». Si girò un attimo, perché aveva sentito le urla di un tecnico. Altri accorsero ad aiutarlo, finché l’emergenza parve superata.
   «Speriamo» disse Zafreen, dubbiosa. «Ma perché sei venuto qui?».
   «Sono preoccupato per te» spiegò Hakon. «Il nucleo temporale perde come un colabrodo e tu stai qui in sala macchine! Perché non sei in plancia?».
   «La mia postazione è guasta. Non c’è tempo di sostituirla».
   «E la sala ausiliaria?».
   «È invasa dal metano».
   «Capisco... però sono ancora in ansia» disse Hakon. «Non puoi allontanarti, finché la situazione si sarà stabilizzata?».
   «Sei molto dolce a preoccuparti per me» sorrise Zafreen. «Ma proprio non posso. La navetta del Capitano è sparita, forse sono stati gli Xindi. Mi servono i sensori a lungo raggio per capire che succede. Ma è tutto scassato, accidenti!» esclamò, dando un colpo alla consolle.
   «Posso aiutarti?».
   «Come te la cavi con le equazioni di campo?» chiese subito Zafreen. Ma in quella l’Illyriano fu richiamato altrove. Bisognava rinforzare una paratia sul ponte 2, per evitare che il metano dilagasse in un corridoio.
   «Devo andare» disse Hakon. «Tu sta’ attenta, mi raccomando. Esci di qui appena puoi. Ti amo» disse, dandole un rapido bacio.
   «Ti amo anch’io» disse Zafreen.
   L’Illyriano si allontanò di corsa. L’Orioniana stava per rituffarsi nel lavoro, quando udì un’esplosione molto preoccupante alle sue spalle.
   «Perdita di cronotoni! Evacuate la sala!» gridò un tecnico. Tutti gli ingegneri interruppero le loro attività.
   Atterrita, Zafreen scattò in piedi e guardò il nucleo, che emetteva un’inquietante luce violetta. Non l’aveva mai visto comportarsi così. Si chiese se era il segno che stava per esplodere.
   «Posso contenere la perdita» disse Dib, correndo verso una consolle posta davanti al nucleo. Inserì una sequenza di spegnimento, mentre i colleghi fuggivano in preda al panico.
   «Che fai lì, testone?!» lo chiamò Zafreen. «Non vedi che se ne vanno tutti?».
   «Si allontani, Guardia...» cominciò Dib, ma in quella la luce crebbe d’intensità e si tinse di bianco. Un fascio luminoso uscì dal nucleo, attraversando sia Dib che Zafreen, per continuare alle loro spalle.
   L’Orioniana strillò, rattrappendosi. Aveva la sensazione che ogni atomo del suo corpo si stesse strappando. Si disse che quella luce doveva essere un fascio di radiazioni letali. Non avrebbe rivisto Hakon... né si sarebbe scusata con Vrel, per come aveva rovinato le cose fra loro. Fu il suo ultimo pensiero, prima di perdere i sensi.
 
   «Cessato pericolo, la perdita si è fermata» disse un ingegnere, facendo capolino in sala macchine. Era un Rhaandarite, dall’ampia fronte bulbosa che accoglieva un cervello super-sviluppato. «Dib ha spento il collettore triciclico. Ehi, ma... dov’è?!» si stupì, osservando il salone da un capo all’altro. Era deserto. Non c’era traccia dell’Ingegnere Capo e nemmeno di Zafreen.
   «Plancia a sala macchine, abbiamo rilevato un picco di radiazioni cronotoniche» giunse la voce di Radek. «La situazione è sotto controllo?».
   «Sembra di sì» mormorò il Rhaandarite.
   «Senza offesa, ma vorrei sentirlo dire da Dib» precisò il Comandante.
   «È questo il problema» disse l’ingegnere, ridacchiando nervosamente. «Il capo è disperso. Come anche Zafreen. Sono stati presi in quel raggio e sono spariti».
   «Come, spariti?!» si stupì Radek.
   «Non ci sono più» confermò il Rhaandarite. «Non dovrebbero essere morti. Ma non sappiamo dove siano. Ci dia qualche minuto per capirlo, okay? La richiamo io».
 
   Juri Smirnov percorreva i corridoi ormai familiari del Reaper. Ogni volta che incrociava un Na’kuhl lo salutava con un lieve cenno del capo e lui rispondeva allo stesso modo. Nessuno sorrideva, né apriva bocca; non erano lì per fare amicizia.
   Lo storico giunse in infermeria. Salutò i medici col solito cenno e si recò alle salette di lunga degenza, fino a un ingresso vigilato da due guardie. Quando tentò di varcarlo, una delle due gli puntò un disgregatore al petto. «Autorizzazione?» chiese.
   «Eccola» disse Juri, mostrando il palmo della mano. Alcuni caratteri Na’kuhl brillarono rossi sulla pelle. Juri non conosceva i dettagli, ma sapeva che era un qualche genere di nanotecnologia. Gli permetteva di usare i computer della nave e ora anche di entrare in quell’area riservata.
   «È firmata da Vosk in persona» mormorò il sorvegliante con reverenza. Lui e il collega si scostarono immediatamente, permettendo al visitatore di entrare nella saletta.
   La capsula di Svetlana era lì, agganciata a una presa d’energia. Tutt’intorno alcuni oloschermi indicavano i segni vitali della bambina. Le sue condizioni erano stabili. Era ancora in stasi e lo sarebbe rimasta fino al termine della missione, come garanzia della lealtà di Juri.
   «Allora, Svetta, come stai oggi?» chiese l’Umano, posando una mano sul freddo coperchio della capsula. «Io non tanto bene. Sto aiutando i Na’kuhl a cambiare la Storia. Se andrà come pensiamo, l’Unione non esisterà mai. Sono il Giuda della nostra civiltà» mormorò, chinando il capo.
   «No, mi correggo... non sono Giuda» disse, rialzandolo di scatto. «È stata l’Unione a tradirci per prima. Ogni giorno che passa diventa più dittatoriale. Sarà meglio per tutti se non esisterà mai». L’Umano fissò il volto angelico della sorellina, così vicina, eppure ancora irraggiungibile. Era un tormento non poterla svegliare subito, per dirle che era guarita.
   «Quando tutto sarà finito, non so ancora come farò con te. Tu non sei cresciuta di un giorno, mentre io...» sospirò, sentendo molto più dei suoi quarantacinque anni. «Di certo non mi riconoscerai. E non posso neanche dirti la verità... sei troppo piccola per capire. Col tempo, forse. Potrei andare in un pianeta di frontiera e fingermi tuo padre. Ma tu vorrai la famiglia che conoscevi. E non potendo ridartela, forse sarò costretto a darti in adozione. Così, dopo tutti questi sforzi, ti perderò ancora. Ma almeno vivrai. Sì, questo è l’importante» disse, con le lacrime agli occhi.
   Asciugatosi il volto, Juri prese una sedia e l’accostò alla capsula. Sedette in modo da poter guardare il viso di Svetlana e trasse di tasca il d-pad che aveva recuperato dal passato. C’erano ancora le fiabe che aveva caricato da bambino, prima di andare all’ospedale.
   «Beh, finché sei qui voglio levarmi questa soddisfazione. Anche se non puoi sentirmi» disse l’Umano, scorrendo l’elenco delle storie. «Ah, eccola qui: Caschetto Rosso. Era questa che ti stavo leggendo. Ricordo il punto preciso in cui m’interruppero». Juri fremette e il suo viso si riempì di disgusto, nel ricordare quel tragico momento.
   «Ma stavolta non c’interromperà nessuno!» disse soddisfatto. Sedette più comodamente sulla sedia e fece un respiro profondo. «Dunque, stavo dicendo: trovata la nonna, il Mutaforma cattivo riuscì a sopraffarla e la imprigionò nel buffer degli schemi del teletrasporto. Poi assunse le sue sembianze e si mise a letto, aspettando l’arrivo di Caschetto Rosso.
   Di lì a poco, la vera Caschetto Rosso giunse alla stazione della nonna e attraccò all’hangar. Poiché la vecchietta non rispondeva alle sue chiamate, la bambina era un po’ preoccupata. Così, senza nemmeno togliersi la tuta spaziale rossa, corse all’alloggio della nonna. Qui la trovò a letto, che si fingeva malata: non immaginava che quello fosse il Mutaforma! Ma quando la scansionò col tricorder medico, notò dei valori molto strani.
   “Nonnina, che livelli di neurotrasmettitori alti che hai!” disse.
   “È perché sono tanto felice di vederti, bambina mia!” rispose il Mutaforma, contraffacendo anche la voce della nonna.
   “Ma nonnina, che livelli di tiamina e acido ascorbico alti che hai!”.
   “Sono le vitamine che prendo, tesoro mio!”.
   “Ma nonnina, che metabolismo rapido hai!” disse Caschetto Rosso, sempre più preoccupata.
   “È per digerirti meglio!” ruggì il Mutaforma, trasformandosi in un predatore vorace. Si avventò su di lei, deciso a mangiarla in un sol boccone.
   Ma Caschetto Rosso era stata addestrata dai Cacciatori Hirogeni e sapeva cosa fare in questi casi. Arretrando rapidamente, estrasse un fucile phaser di tipo 3 che teneva ripiegato nello zaino della tuta spaziale. Raddrizzata la canna, la bambina sparò al Mutaforma, vaporizzandolo prima che la toccasse. Poi accedette al computer ed eseguì una scansione di livello 5, accertandosi che non ci fossero altri mutaforma nascosti. Quando fu certa che la stazione era bonificata, alzò gli scudi e attivò le difese automatiche. Infine poté cercare la nonna.
   Dopo aver setacciato la stazione, quando ormai cominciava a temere il peggio, Caschetto Rosso scoprì gli schemi di una persona sospesi nel teletrasporto. Con mani tremanti per l’emozione, inserì la sequenza di materializzazione. Ed ecco, la nonna apparve sulla pedana, sana e salva!
   “Stai bene, tesoro mio?” chiese, correndo da Caschetto Rosso.
   “Sì, nonna” assicurò la bambina. “D’ora in poi non dovremo temere il Mutaforma, perché l’ho vaporizzato col mio phaser”.
   “Oh, bambina mia!” singhiozzò la nonna, stringendola forte. “Hai avuto paura?”.
   “Un pochino” rispose Caschetto Rosso. “Temevo che il Mutaforma ti avesse già mangiata. Ma per fortuna non era così. Perché non vieni a casa da noi, finché ti sarai rimessa in salute?” suggerì. “Il nostro Medico Olografico è molto bravo”.
   “Verrò volentieri” sorrise la nonna. “Ma se piloti tu la navetta, ricorda di mantenere sempre la giusta rotta! Così non faremo altri cattivi incontri”.
   “Sì, nonnina” promise Caschetto Rosso, prendendola per mano. Tornate sulla navetta, le due attraversarono la nebulosa, stando attente a non deviare dal percorso. Giunsero così al piccolo pianeta e alla casa di Caschetto Rosso, dove la mamma le accolse con gioia. La nonna fu ospitata con molte attenzioni, finché guarì. E così vissero tutti felici e contenti».
   Conclusa la fiaba, Juri sospirò appagato e spense il d-pad. «Vedi la morale, sorellina? Quando vai in una nebulosa infestata dai mutaforma, porta sempre il phaser con te. E soprattutto, non deviare mai dalla giusta rotta». L’Umano rimuginò sulle parole che aveva appena pronunciato. «Non deviare mai dalla giusta rotta...» ripeté, più a se stesso che a Svetlana.
 
   L’Excalibur orbitava attorno alla Luna. Dallo schermo di prua, la Terra appariva come una falce grigiastra. Intensi bombardamenti avevano riempito l’atmosfera di polveri, oltre a far evaporare parte degli oceani. In tal modo l’aria si era saturata di vapore acqueo, anidride carbonica e gas tossici, oltre che di particelle radioattive. Sotto quella cappa plumbea si stendevano città diroccate, all’apparenza da secoli. In tutto il pianeta non si registrava un solo segno di vita umano. Anche animali e piante erano estinti; solo i batteri estremofili prosperavano nella densa atmosfera.
   A confronto con quello spettacolo desolante, la Luna sembrava quasi in buono stato. O per meglio dire, non era molto diversa dal passato. Era sempre un piccolo mondo grigio, crivellato di crateri, senza atmosfera né masse d’acqua. Qua e là c’erano delle colonie. Alcune erano primitive cupole gonfiabili. Altre invece erano vere città, quasi del tutto sotterranee. Anch’esse mostravano segni di bombardamenti, che le avevano depressurizzate. I sensori non registravano segni vitali.
   Dalla cabina dell’Excalibur, Jaylah contemplò quello spettacolo desolante. Stentava ancora a credere quanto fosse disperata la situazione. «Sono un Agente Temporale... questa è la mia battaglia» si disse. Forse era per questo che si era addestrata così duramente, che aveva superato tante avversità. Aveva sempre avuto la sensazione di doversi preparare per qualcosa di grave che sarebbe accaduto a un certo punto della sua vita. Ora quel momento era arrivato. Ma ripristinare la linea temporale era un compito immane. Il destino di popoli e pianeti, forse dell’intera Galassia poteva dipendere da lei. No, era troppo. Preferì concentrarsi sulle persone che le stavano davvero a cuore. I suoi genitori, i colleghi della Keter... e naturalmente Jack. Doveva farlo per loro.
   «Potete darmi un momento? Vorrei registrare il diario di bordo» disse la mezza Andoriana. «Così, se qualcosa andasse storto... beh, non so chi potrebbe leggerlo» ammise sconfortata.
   «Certo, Tenente» disse Adam. Lui e gli altri lasciarono la cabina, dandole un po’ di privacy.
   Jaylah sedette stancamente sulla poltroncina del pilota e attivò la registrazione. «Diario del Tenente Chase, data stellare... 2500.01» disse, leggendo i dati di navigazione. «Abbiamo raggiunto il sistema solare, solo per scoprire che la Terra è devastata e senza vita. Idem per la Luna, Marte e le altre colonie. Le città sembrano in rovina già da secoli. L’atmosfera terrestre è radioattiva, quindi è rischioso scendere; comunque non c’è rimasto molto. Sulla Luna invece i resti sono ben conservati. Quando le colonie sono state bombardate e l’aria è sfuggita, l’interno è rimasto congelato. Io e la mia squadra abbiamo esplorato diverse città. Sono spettrali... anche perché qua e là ci sono i corpi delle vittime, conservati dallo spazio.
   Ma la ricerca è andata a buon fine. Nell’ultima ispezione abbiamo trovato il processore centrale di una colonia, ancora in buono stato. Lo abbiamo portato a bordo e Adam è riuscito ad accedere al database storico. Abbiamo appurato che la divergenza si è verificata nel 2053, l’anno della Terza Guerra Mondiale. Nella nuova linea temporale il conflitto non c’è stato. Sulle prime fu un bene, ovviamente. L’umanità si risparmiò enormi sofferenze e iniziò a colonizzare lo spazio ancora più in fretta. Il problema è che, stando bene, non dovette mai allearsi con altre specie. Quindi niente Federazione. E quando iniziarono i conflitti con Klingon e Romulani, era troppo tardi. La distruzione delle colonie lunari risale al 2190; immagino che la Terra sia stata bombardata subito dopo. Non so se alcuni Umani siano sopravvissuti... molti saranno fuggiti. Se c’erano sacche di superstiti, si sono estinte negli ultimi tre secoli. Fatto sta che adesso il sistema solare è del tutto abbandonato».
   La mezza Andoriana s’interruppe, per raccogliere le idee. Non sapeva se Andoria fosse nello stesso stato. Sperava ardentemente di no. Ma anche la sua seconda patria era a rischio, in questa linea temporale da incubo. Tutti lo erano.
   «Così il nostro compito è... semplice» riprese Jaylah, sarcastica. «Dobbiamo andare nel 2053 e impedire ai Na’kuhl di alterare la Storia. Loro hanno ancora il Reaper, noi solo l’Excalibur. E se qualche abitante del 2053 ci chiedesse che stiamo facendo, gli diremo: “Tranquillo! Dobbiamo solo far scoppiare la Terza Guerra Mondiale. È per il bene dei vostri discendenti!”».
   Dopo questo sfogo, la mezza Andoriana si prese il volto tra le mani, cercando di calmarsi. Si sentiva in trappola, perché ogni futuro conteneva tragedie. Si chiese che ne avrebbe pensato Juri: lo storico l’aveva spesso consigliata nei momenti difficili.
   «Se qualche ufficiale della Keter o qualche Agente Temporale troverà mai questo diario, vorrà dire che noi abbiamo fallito. In tal caso, lo supplico di portare a termine la missione. Ne va delle sorti di tutta la Galassia. Tenente Chase, chiudo».
   Terminata la registrazione, Jaylah si massaggiò le tempie. Aveva volutamente tralasciato di dire che forse tra loro si annidava un traditore. Non voleva parlarne nemmeno con i suoi Agenti, per non creare un clima di sospetto fra loro. Ma quelli che avevano partecipato all’ultima riunione tattica ne erano informati e gli altri probabilmente avevano dei timori. Forse si aspettavano che lei chiarisse la situazione. La mezza Andoriana fu sul punto di farlo, ma alla fine si trattenne. Voleva che i suoi Agenti si concentrassero sulla missione. A sorvegliarli ci avrebbe pensato lei.
   Presa questa decisione, Jaylah riaccolse i colleghi in cabina. «Pronti al balzo temporale» disse. «Ricordate che ci aspetta il XXI secolo terrestre. Era un’epoca di grandi innovazioni tecnologiche, ma culturalmente barbara. Ci troveremo in una società sull’orlo del collasso, in preda alla paranoia.
Quindi state in guardia! Dobbiamo assolutamente evitare che i nativi ci scoprano. Non devono nemmeno vederci coi telescopi» disse, attivando l’occultamento.
   «E quando troveremo i Na’kuhl, che faremo? Loro hanno ancora l’astronave!» notò Selmak.
   «Un problema alla volta» disse Jaylah, inserendo le coordinate temporali nel sistema di guida. «Il nucleo è carico. Raggiungeremo la Vecchia Terra fra tre... due... uno...». Chiuse gli occhi, mentre la cabina sbiancava intorno a lei. La grande battaglia della sua vita era appena cominciata. 
 
   
 
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