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Autore: lucille94    19/06/2021    0 recensioni
Quando il suo nome diventa improvvisamente famoso in tutta Italia, Clarice Orsini è una ragazzina di quindici anni appena, poco più di una bambina. Ha folti capelli rossi, occhi verdi a tratti malinconici; è d'animo mite, ingenua per l'età giovanissima, chiamata dal destino - o piuttosto dalle ambizioni dei famigliari - a un ruolo per cui non è pronta, a un marito che non potrà mai comprendere fino in fondo: Lorenzo de' Medici, più tardi soprannominato il Magnifico.
Ciononostante, Clarice non è debole, perché per sostenere la pressione di un marito come il suo ci vuole coraggio, tenacia e dedizione.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rinascimento
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La diplomazia esige tempi lunghi e tanta cautela, così dovette passare un anno prima che le cose si muovessero. Tutto cominciò ad aprile 1468 con una lettera di Piero de' Medici al cognato Giovanni Tornabuoni, una lettera che sarebbe parsa troppo vaga a chi non fosse stato addentro alle politiche di famiglia, ma che suonò come un chiaro segnale di via libera. Da quel momento, Giovanni diventò un assiduo frequentatore di palazzo Orsini, con grande piacere del cardinale Latino e di sua sorella Maddalena.

Quanto a Clarice, all'apprendere delle trattative di fidanzamento in corso ella reagì come ci si aspettava da lei, ossia con remissiva obbedienza. Non aprì bocca per sollevare obiezioni, semplicemente parve crogiolarsi nella prospettiva di un matrimonio prestigioso com'era quello che le veniva preparato da altri.

Aurante, la figlia maggiore, si sarebbe sposata a fine maggio: aveva attraversato lo stesso percorso due anni prima. Una proposta, discussioni interminabili, infine il contratto e ora, sempre più prossime, le nozze con Gian Ludovico Pio di Savoia, un nobile condottiero del nord Italia. Ecco perché Clarice, un pomeriggio in cui il sole batteva sulla città spandendo la propria luce in ogni angolo, si mise alla sua ricerca. Era difficile fingere sempre, rispondere ogni volta con le parole adeguate, evitare che il timore sgorgasse dalle ciglia in forma di lacrime, o dalle labbra in forma di sospiri. Capitava che sua madre la riprendesse per qualche sguardo lontano, distratto; per rari tentennamenti e balbettii; per eventuali risposte sgarbate, quando la tensione la sovrastava.

Aurante aveva i capelli castani, non rossi come i suoi, ma gli occhi erano verdi e un po' più vispi. Aveva un carattere più estroverso e, a tratti, più testardo all'apparenza, ma questo solo perché Clarice aveva imparato precocemente a stare zitta se le circostanze non fossero state favorevoli. Di tanto in tanto, però, la schiettezza della sorella più grande aveva il vantaggio di sembrare più sincera dell'ambiguità di un'occhiata timida. Perciò Clarice decise di rivolgersi a lei.

La trovò nei giardini, fortunatamente sola. Non sapeva perché si fosse recata lì senza la compagnia di qualche dama o, per lo meno, di una fantesca; fatto sta che le si fece vicina con discrezione, uscendo allo scoperto solo quando ormai l'ebbe raggiunta.

«Aurante,» la chiamò, poi, senza attendere risposta, domandò: «Posso sedere con te su questa panca?»

A un cenno affermativo, sedette stringendosi forte una mano nell'altra. Non osò parlarle immediatamente del vero motivo che l'aveva condotta fin lì: preferì constatare innanzi tutto come, essendo solo maggio, facesse già così caldo.

«Infatti ti vedo più rossa del solito su quelle guance», replicò Aurante. «Ma tu non arrossisci per il sole, vero? Arrossisci perché hai visto Tornabuoni nel salone.»

«Come fai a saperlo?»

«Perché ti conosco.»

Clarice non avrebbe voluto introdurre l'argomento in modo brusco; tuttavia, dato che la sorella aveva rotto gli indugi, le andò dietro. «Sono venuti a discutere della dote, me lo sento. Nostra madre dice che non riescono a mettersi d'accordo per via delle usanze diverse.»

«La verità è che non vogliono farti sfigurare davanti ai Medici. Povera stellina, chissà che cosa ti aspetta laggiù.»

«Perché dici così?»

«Come perché? Sei davvero tanto ingenua?» domandò di rimando. Dato che Clarice non dava cenno di comprendere a cosa alludesse, Aurante riprese: «Firenze non ha una buona fama; sono gente immorale, gretti avari o lussuriosi o tutt'e due. Tuo marito di certo non fa eccezione, se è vero quel che si raccontava a Roma al tempo del suo viaggio qui».

«Se sono brutte cose, io non le voglio sapere.»

«Invece credo che sotto sotto tu le voglia sapere eccome! Per esempio, una notte...»

«Non è per questo che sono venuta da te», la interruppe, prendendole la mano con uno scatto improvviso. Aurante sbuffò guardando il cielo azzurro. «E perché, allora?»

«Per chiederti se hai paura di sposare Gian Ludovico.»

Ci pensò su; magari fece solo finta. Quando rispose, la sua voce era un po' più acuta di prima, come se fosse forzatamente gaia e leggera: «No, non ne ho. È venuto a trovarmi, dopotutto, ci siamo parlati e posso dire di conoscerlo. Lorenzo, invece, verrà a corteggiarti?»

«Giovanni Tornabuoni dice che, fosse per lui, sarebbe già stato qui. È suo padre che non lo vuole lasciar venire per paura di qualche imboscata lungo la via.»

Aurante arricciò il naso. «Vecchie scuse, Clarice. Secondo me non gli interessi affatto. Dopotutto è il tuo primo e unico pretendente e ti chiede in moglie senza averti mai vista: io non sarei affatto lusingata da tutto ciò.»

La piccola e indifesa Clarice si sentì schiacciare da simili parole, benché esse non fossero in tutto veritiere; ma il suo segreto sarebbe rimasto tale ancora per qualche tempo. Per un momento le passò per la mente il sospetto che sua sorella parlasse spinta dall'invidia, ma nella sua purezza d'animo scartò quel pensiero. Era molto più semplice, in effetti, rassegnarsi all'idea di un matrimonio di convenienza con uno sconosciuto che non teneva a lei, piuttosto che illudersi e rimanere poi scottata per troppa ingenuità. Andava per i sedici anni, ora e tempo che smettesse di sognare ad occhi aperti. Tuttavia, la sua memoria la riportò indietro all'aprile del 1466: aveva ancora il profumo di incenso nelle narici e il suono delle campane sembrava cullarla. E c'era quel ragazzo che la guardava, quasi che l'aspettasse, e teneva in mano il suo guanto nero orlato di ermellino, glielo tendeva sorridente, accennava un inchino e restava lì, in attesa. "Buona Pasqua di Resurrezione, madonna", le diceva.

«C'è dell'altro che forse non sai», disse Aurante, riscuotendola dalla breve distrazione. «A Firenze le donne perbene sanno leggere e scrivere e gli uomini badano a questo come badano al viso e al corpo delle loro mogli e figlie. Una fanciulla non sarà benvoluta in famiglia se si rivela ignorante.»

«Ne sei certa?» titubò lei, che a malapena riusciva a tenere la penna in mano per più di tre righe. Vide la sorella mordersi le labbra con un ghigno antipatico. «Lo sai che Lucrezia Tornabuoni è patrona di poeti e dicono scriva ella stessa lodi e sonetti?»

Sì, l'aveva sentito dire. Era una di quelle voci che si insinuava tra un pettegolezzo e l'altro e che a Roma condiva tutto con un sapore di biasimevole trasgressione. A Firenze, però, non c'era biasimo per passatempi letterari e questo la spaventava.

«Anche lui scrive, anche Lorenzo», riprese Aurante, divertendosi a tormentarla. «Conviene che ti metti di buona lena o farai una magra figura.»

Clarice, che aveva già maturato il medesimo proposito prima ancora che la sorella glielo suggerisse, avvertì l'urgenza di cominciare immediatamente, quel pomeriggio stesso: non avrebbe atteso un minuto di più. Salutò, afferrò la gonna con entrambe le mani e corse nello studiolo di suo padre. Trovò subito ciò che cercava: un pennino, il calamaio e un foglio di carta già in parte scritto e lasciato da bruciare nel camino per l'inverno successivo. Sedette alla scrivania, intinse la punta della penna e, con la lingua che spuntava a un angolo della bocca, tracciò esitante una bella e grande C, poi una l e via di seguito, finché non lesse il proprio nome tutto intero: Claricie Ursini. La grafia era un po' esitante, ma l'esercizio l'avrebbe portata a migliorare.

*

Il suo proponimento incontrò presto l'opposizione di sua madre Maddalena: con il trasferimento della famiglia nei possedimenti di Monterotondo, per scampare la calura della città, ella le fece attendere più lezioni di danza che non di scrittura. Con Aurante lontana, ormai maritata, Clarice perse l'abitudine di chiudersi nello studiolo a tu per tu con una pagina bianca, rallegrandosi invece dei miglioramenti nel ballo. Sua madre teneva la corrispondenza, insistendo che Lorenzo venisse a conoscerli prima che le trattative si chiudessero, ma da Firenze non arrivavano mai risposte assertive. Maddalena non si perdeva d'animo, e ad ogni missiva concludeva con un invito destinato a rimanere in sospeso.

Il tempo passò in fretta scorrendo come acqua cristallina: e come l'acqua, il suo passaggio inebriava Clarice di emozioni piacevoli, di attesa e impazienza; se non che, quando l'acqua le arrivò alla gola, la sua percezione cambiò all'improvviso. Se ne accorse il 26 dicembre, vigilia delle sue nozze per procura, mentre si metteva a letto con i capelli raccolti sulla testa. Era prossima al matrimonio e non si era quasi accorta di essere fidanzata: mai una lettera, mai un regalo da parte del suo futuro sposo. Entrambe le famiglie avevano agito tramite intermediari, con il risultato che i due giovani non avevano quasi avuto parola in nulla e non si erano mai parlati.

Il giorno dopo fu ancora peggiore del precedente. Gli Orsini erano raccolti nel salone del palazzo, gli emissari dei Medici erano all'ingresso. Clarice indossava un abito rosso e di rosso era vestito anche lo sposo: non Lorenzo, perché stava a Firenze, ma Filippo de' Medici, arcivescovo di Pisa e lontano cugino di Piero, suo suocero. Il cardinale Latino, con indosso i paramenti, benedisse la vera nuziale e pronunciò una preghiera, quindi Filippo colse l'anellino d'oro e glielo mise al dito.

Al termine della cerimonia, Clarice si ritirò nello studiolo del padre. Quando impugnò il pennino, la sua mano tremava sensibilmente.

«Magnifico Consorte», cominciò, «ardischo di scrivervi per dirvi che quest'oggi sonno divenuta la donna vostra con la benedizione di Nostro Signore. Prego che voi stiate bene e lo stesso vostro e mio padre Piero, vostra e mia madre Lucretia, e tucti li altri. Mia madre vi benedice e aspetta vostre bone nove et eziandio io il medesimo. Ho speransa che vogliate venirmi a prendere quando che sia per condurmi alla cara Firenze che voi amate. Non altro. Recommandatemi a tucti. Rome 18 decembris 1468»

Prese un respiro dopo tante righe scritte di getto in una grafia forse troppo rigida per trasmettere fino in fondo l'intensità del suo affetto. Lasciò sufficiente spazio, quindi, in lettere piccole, quasi che volesse scomparire, scrisse Vostra Clarice de Ursinis.

*

Il giorno seguente, scherzo del destino, arrivò una lettera da Firenze datata 25 dicembre: Lorenzo in persona scriveva, e si indirizzava alla fidanzata ormai diventata moglie. Conscio che la missiva sarebbe pervenuta dopo la celebrazione delle nozze per procura, Lorenzo aveva scritto sul verso: Magnifica domina Clarice de Ursinis coniugi sua amantissima in Roma. La lettera passò da una mano all'altra, trattata sempre con grande reverenza, finché giunse tra le pallide dita di Clarice, che lesse con trepidazione il titolo cui non aveva ancora fatto l'abitudine. Non resistette alla tentazione di aprirla subito e così, si potrebbe dire volata a una seggiola accanto al camino principale, sedette e strappò la ceralacca.

Magnifica consorte, vi scrivo nel Santo giorno della nascita di Nostro Signore perché ho al presente recevuto con alegrezza grande la lettera di messer Giovanni mio zio che mi dice il 27 venturo si pronuncerà la promessa e saremo come sposati. Sappiate che sono contento e sto bene, così spero di voi. Attendo l'ora di conoscervi e i giorni paion passare lenti con voi tanto lontana. Vi voglio dire che si terrà in Firenze una giostra in onore vostro e io vi prenderò parte, pregovi di dedicare qualche vostro santo pensiero alla mia salute. Ogni mattina ringrazio Nostro Signore d'avermi dato sì cara donna, ché voi siete tenuta per fanciulla pura e onorevole e ch'io non merito, sicché mi racomando a voi, a vostra madre Magdalena e alla brigata vostra. Qui stiamo tutti bene. Non altro per ora. In Firenze 25 dicembre 1468.

E sotto, in lettere chiare e distese e senza abbreviazioni, Lorenzo de' Medici marito vostro.

Clarice sentì il cuore batterle così forte da temere che scoppiasse. Strinse la lettera al petto come a voler prevenire un simile evento, si volse verso la madre e proferì in un sospiro: «M'ha scritto, m'ha scritto di suo pugno e mi ha chiamata Magnifica consorte! Oh, madre mia, sono così felice che vorrei partire domani per andare a Firenze».

Incapace di tenere per sé la propria euforia, uscì nel giardino del palazzo e si mise a saltare e ballare, incurante del freddo pungente dell'aria decembrina. Poi, quando il fiatone la costrinse a fermarsi, un nuovo pensiero fece capolino nella sua mente. Fece allestire la carretta e ordinò che la sua governante si preparasse ad accompagnarla. Voleva andare a incontrare lo zio acquisito, Giovanni Tornabuoni, alla sede della filiale dei Medici a Roma, per comunicargli la lieta notizia della lettera. L'avevano incoraggiata tutti a usare più confidenza con i parenti di suo marito cosicché questi potessero scrivergli di com'era affabile, dolce e gentile la sua sposa. In questo caso, però, era la vera e spontanea gratitudine di Clarice a spingerla a uscire contro l'abitudine.

Cavalcò al trotto per le strade della città senza tener conto dei mendicanti che alzavano le mani verso di lei per qualche elemosina: non aveva occhi per guardarsi attorno, persa nei propri sogni da bambina. Quando, però, si trovò di fronte Giovanni in persona, per la prima volta sola e senza l'assistenza della madre, Clarice non seppe come cominciare. Lo zio fiorentino era un uomo robusto, con un bel viso pieno e regolare e i capelli precocemente ingrigiti; aveva sempre un'espressione affabile ed era di buona compagnia, fine ed elegante nel parlare e misurato negli atti. Trovatosi davanti la ragazzina, per prima cosa le si inchinò chiamandola Madonna con molto sussiego e lei, vezzeggiata al punto giusto, cedette di nuovo all'emozione. «Messer Giovanni, vostro nipote mi ha scritto una lettera e la gioia è stata tanta che ho voluto dirvelo di persona, perché ve ne rallegriate con me», esordì con un gran sorriso. Giovanni annuì ma, prima che potesse ribattere, Clarice riprese: «E parla di una giostra a cui parteciperà in onore mio! Oh, ditemi, sarà pericoloso? Non vorrei ricevere nuove spiacevoli...»

Lo zio sorrise e, per rincuorarla, le disse: «Non stiate in pena, i miei nipoti sono entrambi abbastanza forti da restare in sella senza difficoltà. Lorenzo, inoltre, si è allenato molto in vista di quella giostra, sicché non avete da temere né pericoli né disonore». Quindi invitò la fanciulla a fermarsi qualche tempo presso di lui e lei accettò di buon grado, provando l'ebbrezza di sentire per la prima volta l'accento fiorentino piegarsi a chiamarla Madonna Medici.

 

   
 
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