Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Saelde_und_Ehre    21/06/2021    7 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

XXVI.
Kameraden auf Leben und Tod


Primavera 1940

Lontano dal centro nevralgico di Berlino, il quartiere di Köpenick era un’isola di natura e storia, dove il verde degli alberi che costeggiavano i viali si alternava al rosso dei mattoni, entrambi riflessi nello specchio trasparente della Spree. Non gli ci volle molto per trovare la casa di Reinhardt, una villetta a due piani con un piccolo giardino e una rimessa: Konrad l’aveva vista solo da lontano, le volte in cui era venuto a prenderlo per andare altrove, e aveva rimandato a lungo quella visita per motivi che tuttora lo rendevano titubante.
Tuttavia, giunto sulla soglia e accertatosi che il cognome sulla porta fosse quello giusto, inspirò profondamente e suonò il campanello.
Passò un uomo in bicicletta con un giornale sottobraccio, fischiettando una vecchia canzone, poi la porta si aprì e di fronte a lui comparve un ragazzo sui diciassette anni, coi capelli biondi e il volto coperto di lentiggini. Gli sembrò di rivedere Reinhardt quando erano più giovani: aveva gli stessi occhi, ma il fuoco che vi ardeva era più mite e controllato, quasi analitico, come se volesse studiarlo a fondo.
“Stefan Greifenberg?” gli chiese, dopo i soliti convenevoli.
Il ragazzo rispose di sì in tono neutro, senza smettere di osservarlo.
“Sono il capitano Bentheim, un amico di tuo fratello.”
Stefan annuì come se si immaginasse esattamente quella risposta. “Lui mi parlava spesso di lei, signore. Prego, si accomodi pure.”
Konrad lo seguì attraverso l’atrio e poi in un piccolo salotto, dove il ragazzo gli indicò una poltrona e lo invitò a sedersi. “Vado a preparare il caffè,” disse semplicemente, senza filtri, poi scomparve dietro una porta e lo lasciò solo, a scandagliare l’ambiente con scarso interesse: un tappeto a fantasie geometriche tra il divano e le poltrone, uno scaffale con dei libri e una pianta dalle lunghe foglie verdi, una finestra schermata da tende floreali.
Sopra il camino, una fotografia di Reinhardt in uniforme da cerimonia, il giorno della sua promozione a ufficiale: sul viso aveva sempre il solito sorriso sfrontato, rimasto invariato negli anni, che lui ricordava fin troppo bene.
“Le ho portato del caffè, signore,” lo interruppe la voce di Stefan. Posò il vassoio con due tazze su un tavolino, gliene porse una e sprofondò sul divano, recuperando un libro da sotto i cuscini. Aveva un contegno distaccato, schivo, che non si perdeva in cortesie borghesi, ma la facciata apatica lasciava trapelare una malcelata tristezza.
“Anche lui mi parlava molto di te,” disse Konrad, cercando di rompere il ghiaccio.
Stefan rimase per un po’ in silenzio, fissando la fotografia del fratello maggiore. “Lui parlava tanto, ma a differenza di tante altre persone, non lo faceva mai a vanvera. Era lui il mio miglior istruttore, quello che avrei voluto seguire anche in battaglia.”
“Era un ottimo comandante sul campo, avresti dovuto vederlo.”
“Mi aveva detto lo stesso di lei, l’ultima volta che mi ha scritto,” ammise il ragazzo. “Mi raccontava delle azioni che conducevate insieme, aveva una gran stima nei suoi confronti. Solo una cosa non ho mai saputo, e forse non la voglio neanche sapere.” Prese il libro, lo sfogliò con aria svogliata, poi lo richiuse. “Nei poemi di una volta, nemmeno gli eroi più valorosi potevano sfuggire al Fato: loro, però, sapevano già a cosa andavano incontro, e lo facevano a testa alta. Che cos’è che guida la traiettoria di un proiettile invece, se non il mero caso?”
“Perché il fato non esiste, siamo noi a determinare il corso delle nostre azioni finché siamo in vita. La morte ci accompagna costantemente in guerra: l’unica cosa a cui dobbiamo pensare è fare il nostro dovere di soldati, fino alla fine.” A quelle parole, ricercò istintivamente con lo sguardo la fotografia sulla mensola del camino, immaginandola mentre riprendeva vita e colore. Si concesse un breve istante, poi si costrinse a distoglierlo, per spostarlo di nuovo sul ragazzo. “Adesso è a te che spetta raccogliere l’eredità che ti ha lasciato tuo fratello, nessun altro può farlo. Contemplare le rovine e cantare la gloria passata è compito dei poeti, mentre l’uomo d’azione punta a ricostruire ciò che è stato distrutto.”
Stefan non rispose; si limitò a leggere a bassa voce qualche verso dell’Iliade. “Quale delle foglie, tale è la stirpe degli umani. Il vento brumal le sparge a terra, e le ricrea la germogliante selva a primavera. Così l’uom nasce, così muor.”
Konrad s’incupì: quel ragazzo, così simile a suo fratello ma opposto per carattere, avrebbe calcato le sue stesse orme, anche se Reinhardt non sarebbe stato lì per vederlo. Era un passaggio di testimone, tanto inevitabile quanto doloroso, e per lui era giunto il momento di farsi da parte, di chiudere quel capitolo anche se faceva male.
“Per ogni soldato caduto in autunno, ne risorgeranno altri in primavera,” gli disse, congedandosi. Uscito di nuovo fuori all’aperto, camminò fino alle rive del fiume: il vento scuoteva i salici, intorno ai quali passeggiavano padroni coi loro cani, un gruppo di ragazzini giocava a pallone e le barche fendevano dolcemente la superficie trasparente.
Il tempo andava avanti con tranquilla indifferenza, limitandosi ad alzare le spalle di fronte alle piccole tragedie quotidiane e agli avvenimenti che lasciavano delle tracce indelebili nelle vite di chi li aveva vissuti. Persone che non potevano semplicemente essere dimenticate, come i passanti che andavano e venivano senza che l’occhio ci facesse caso. C’erano delle cose che non potevano essere ricostruite, ma a cui la memoria riservava un monumento glorioso.
Si sforzò di non indugiare troppo in quei pensieri: la battaglia di Grabnik era stata vinta anche grazie a lui, che aveva tenuto fede al suo voto fino all’ultimo e non s’era perso d’animo neanche allora. Era tra quelli che più credeva nella vittoria, e aveva messo in conto di ottenerla anche a prezzo della sua stessa vita – questo, però, non l’aveva mai detto.
L’avrebbe ricordato per quel che era e non per quello che sarebbe dovuto essere.
Nel frattempo, a occidente, la guerra presto sarebbe ricominciata.

La stazione era gremita di ufficiali, gendarmi e soldati carichi di bagagli. La scarsa luce dell’alba penetrava dalle vetrate che sovrastavano le enormi arcate di ferro, dove il treno attendeva disteso sui binari come un lungo verme. Friedrich gettò un ultimo sguardo al tabellone degli orari e al grande orologio, poi seguì Hans attraverso quella fiumana di uomini in grigioverde. Avevano passato indenni il controllo della gendarmeria e le raccomandazioni di von Rauheneck, ma il loro passaggio continuava a essere intralciato dalle masse di civili – in particolare ragazze – giunti sul posto per salutare i soldati in partenza per il fronte. Ancora una volta, il capitano si volse verso il compagno e fu colto da una consapevolezza ancora più totalizzante, che racchiudeva in sé tutto il senso di ciò che li univa come soldati e come uomini. Non sapeva cosa aspettarsi dalla Francia – o forse lo sapeva, ma non osava spingersi troppo oltre col pensiero – e una vaga inquietudine tornò a serpeggiargli nell’animo.
“Von Kleist!” lo salutò il capitano Wessel, fresco di promozione. Aveva sempre la stessa piega ai capelli, la stessa espressione; l’unica cosa che cambiava era un distintivo per feriti apposto sull’uniforme. Con lui c’era Fromm, che gli rivolse un sorriso imperscrutabile.
Bühler si allontanò, richiamato dal colonnello Wolff, e i due capitani rimasero da soli, con Wessel che li seguiva un po’ in disparte. “La clessidra viene di nuovo capovolta…” disse Friedrich a bassa voce, sentendosi inavvertitamente scuotere da un brivido: tra i suoi colleghi, Fromm era l’unico in grado di capirlo, ma c’erano cose che non poteva dire neanche a lui. Forse aveva ragione Manfred quando diceva che, prima di ogni volo di guerra, l’unica cosa certa era il decollo. Sapevi di partire, ma non se saresti tornato: c’erano troppe variabili in gioco, troppi scenari ugualmente probabili. Tuttavia, era proprio in quei momenti, in bilico tra la vita e la morte, che le faccende triviali perdevano ogni importanza e la forza delle idee prendeva il sopravvento sulla realtà terrena. Non era successo così anche a lui, quando aveva simbolicamente accettato il proprio fato? Allora cos’era che lo preoccupava?
Non era la paura di morire, né quella di perdere Hans, né il minaccioso spettro della corte marziale…
“Ma ciò che è stato non si ripeterà,” gli rispose l’altro, dopo una breve pausa. “Non allo stesso modo, almeno.”
Ecco cos’era che lo preoccupava: l’imprevedibilità del caso, che s’intrometteva per deviare ogni corso tracciato. Una minima variazione che poteva portare con sé conseguenze inimmaginabili, o una serie di coincidenze contemporanee che, combinate tra loro, generavano un esito imprevisto.
Certe volte si riusciva a prevenirle, arginarle o risolverle, altre se ne veniva semplicemente sopraffatti. Per lui quel ciclo malsano era stato stroncato da uno stendardo sporco del suo sangue, suo castigo e redenzione; il problema era stato risolto alla radice e la clessidra del tempo aveva ripreso a girare. Aveva rinunciato a una parte di sé per rinascere; quello che era stato non si sarebbe mai più ripetuto.
Lo stesso, su una scala più ampia, valeva per la Germania, che aveva vinto contro la Polonia e si preparava a scendere in campo contro mezza Europa, posta di fronte a prove ancora più ardue. Era il futuro la vera incognita: avevano vinto una battaglia, ma la fine della guerra era ancora lontana.
Cercò di nuovo Hans con lo sguardo e lo vide avvicinarsi insieme a Konrad: i soldati avevano ricevuto l’ordine di radunarsi presso i rispettivi comandanti. Mentre i civili venivano allontanati dai gendarmi, i fanti in grigioverde iniziavano ad accalcarsi sulla banchina tra le aspre grida dei sottufficiali; Kühn e Hartmann, che fino a poco prima parlottavano tra loro, si presentarono a rapporto in simultanea. Friedrich scorse di sfuggita anche il generale von Salza, attorniato dagli ufficiali del suo Stato Maggiore: anche l’uomo, che personalmente aveva insistito per valorizzare il suo gesto, ricambiò lo sguardo, e il messaggio giunse a destinazione come una freccia scoccata da un arco silenzioso.
La locomotiva emise un lungo sibilo, dal fumaiolo uscì un pennacchio di fumo grigiastro che annunciava la partenza imminente. Ancora saluti carichi di promesse, lacrime e baci soffiati, mentre Hans e Friedrich, impassibili, aspettavano che i loro soldati occupassero i vagoni.
Salirono per ultimi, trovando posto uno di fronte all’altro vicino al finestrino; le porte si richiusero e il treno partì sferragliando. Mentre le patrie campagne si allontanavano, si scambiarono un’occhiata fugace e non ebbero bisogno di parole per capirsi.

L’alloggio del comandante di battaglione era un appartamento all’ultimo piano, dalla cui finestra aperta si riusciva a vedere la sagoma della cattedrale di Amiens rischiarata dai lampi delle esplosioni lontane. Nonostante la guerra onnipresente intorno a loro, la brezza di fine maggio portava il profumo degli alberi che ombreggiavano il viale, accentuando l’illusione di quel piccolo attimo di tregua.
Hans si affacciò alla finestra, tenendo tra le mani un bicchiere di vino del Reno: le stelle splendevano in uno spicchio di cielo inviolato, remote e brillanti, riflettendosi sulle rive della Somme – un fiume testimone di molte battaglie, che lui aveva conosciuto attraverso i libri e riviveva in prima persona. Tutto passava, come le sue placide acque, e il tempo che li separava dalle loro prime battaglie gli pareva appartenente a un’altra epoca, come un sogno remoto che però aveva lasciato la sua impronta duratura. “Sai, spesso mi viene da ripensare a quando siamo partiti per la guerra, e a quante cose siano cambiate da allora… solo due cose non cambieranno mai: Eichmann che profetizza sventure e Schneider che traffica sigarette.”
“Tutto cambia, tutto si evolve… tranne loro,” replicò Friedrich con una leggera risata.
Hans sorrise appena, lasciando che l’aria fresca della sera gli accarezzasse la nuca. Fin dai tempi della Polonia, avevano tacitamente concordato di non pensare alla guerra durante i pochi momenti che potevano trascorrere da soli, ma quell’osservazione lo colpì per l’implicita verità che sottintendeva: tutto cambiava, perfino loro. Quella guerra su più fronti li aveva resi più forti, più consapevoli; aveva provato a spezzarli, ma non era riuscita neanche a piegarli. Realizzò che tempo prima si era sbagliato: Friedrich non era vittima del fato come gli eroi a cui lo aveva sempre paragonato, perché sfidando la sorte ne era uscito ferito ma vincitore, come un pioniere di un’epoca dove l’idea è volontà e legge.
“Mi dispiace non esserci stato. Era la nostra battaglia, avremmo dovuto affrontarla insieme.”
“Qui ti sbagli, Schwabe. Anche se in quel momento non eri presente, è anche grazie a te se ce l’ho fatta.”
Indugiò per un po’ in quel pensiero, chiedendosi quali e quante altre prove avrebbe riservato loro il futuro; poi, senza dire nulla, andò a rovistare nel suo bagaglio, ne trasse la sua cartella rossa dagli angoli ormai consunti e la posò sul tavolo. “È vero: tutto cambia, tutto si evolve, e io ho ripreso le vecchie abitudini. Questo,” disse, traendone un foglio, “l’ho fatto l’altro giorno, alla villa del vecchio banchiere francese, mentre tu suonavi quel pezzo al pianoforte.”
Solo loro due conoscevano il significato di quelle note, e anche in quel momento, mentre mostrava a Friedrich il suo disegno, gli sembrava ancora di sentirne riecheggiare la melodia.

Sulla cima della montagna si ergevano due querce secolari, così vicine che le loro radici e i loro rami sembravano intrecciati. La base e l’erba attorno erano annerite dalle fiamme: l’incendio le aveva lambite, ma non aveva impedito loro di rimettere le foglie.
All’ombra dei due alberi, due cavalieri dai mantelli bianchi si affacciavano sullo strapiombo. Uno aveva i capelli biondi, leggermente scompigliati e accesi dai riflessi dell’alba, brandiva una spada e alla sua lancia era appeso uno stendardo; l’altro, di poco più alto, era castano, portava un elmo sottobraccio e uno scudo con un’aquila nera.
Contemplavano la vallata inondata di luce, teatro delle loro future battaglie, e poi il sole che maestoso risaliva all’orizzonte, dissipando le nuvole.





Eccoci alla fine di questa avventura.
L’hanno iniziata in tanti, ma l’avete finita in pochi: come una banda di fratelli, come soldati uniti nel cameratismo e nelle difficoltà, è a voi che vanno i miei più sentiti ringraziamenti.
Grazie per avermi accompagnato fin qui, grazie di cuore.
  
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Saelde_und_Ehre