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Autore: Andy Black    23/06/2021    1 recensioni
"Che tipo è Erica, dici?
Ti risponderò con estrema sincerità: una donna… complessa.
Una donna premurosa, piena di passione e comprensione, e di polemiche, e di domande sempre pronte, riposte in una cartucciera per grossi calibri che le girava attorno alla spalla destra. Erano domande scomode, che un uomo, all’epoca esuberante come lui, non riusciva ad accogliere con la giusta calma, o senza un pizzico di panico. Capitavano spesso delle volte che litigavano in maniera (forse) eccessiva… ma per delle cazzate. Sì, per delle vere e proprie stronzate: bracci di ferro perpetuati per ore, notti senza sonno passate a chiedersi perché, a chiudere, a riaprire. E mazzi di girasoli lasciati sui cancelli di casa sua.
In quella fase erano abbastanza lunatici. Entrambi.
O meglio.
Lui era confuso, più che altro. Lei pazza di gelosia, rabbiosa, quando le parlavo mi chiedeva cose che io cercavo di comprendere a mia volta, perché Ciro era una forza della natura, e non chiedi a un tornado perché non attraversa sulle strisce.
Lo fa e basta, te lo fai andare bene. Dici “è un tornado, perché dovrebbe attraversare sulle strisce?”
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La Teoria del Pesce Rosso
I fatti accaduti fanno riferimento a persone che non esistono più.
 
 
 
 
“Allora, Alice.
Scusami se ti ho fatta aspettare. Mi hai chiesto di Ciro, ieri, no?
Ebbene, se non me l’avessi chiesto oggi, ma dodici mesi fa, avrei raccolto tutta la diplomazia che avevo accumulata nelle tasche dei pantaloni e ti avrei detto che è un ragazzo… sì, forse avrei risposto… particolare.
A una prima occhiata sembra uno dei classici mastini da strada, pronti a sbranare il mondo con quell’aggressività da macho, con quella strafottenza che appartiene a chi, appunto, pensa poco, valuta poco, decide subito e non carica pesi sulla coscienza. Che certa gente pare non ne abbia, di coscienza.
No, il fatto è che lui una coscienza ce l’ha, e mi è bastato parlargli le prime volte per capirlo, che eravamo ragazzini davvero. Ma sì, quattordici, quindici anni, forse. Sedici, al limite.
Diciassette, ma probabilmente sto esagerando.
Lo conobbi al compleanno di un’amica comune, che ora non è più mia amica ma solo perché il tempo e lo spazio si sono dilatati, come succede spesso coi rapporti adolescenziali; eravamo in uno di quei locali un po’ arrabattati, nel senso che era la cantina di una pizzeria trasformata in sala per feste, anche se tendenzialmente rimaneva la cantina di una pizzeria, con cartoni per le consegne imballati e stipati un po’ ovunque e grosse lattine di olio d’oliva, accanto alla console di quel simil dj, che poi era Fabrizio, il cugino di Antonio della libreria.
Era già lì, lui, come il cioccolatino sui cuscini di un hotel a ore, e non potevi fare a meno di vederlo mentre ballava, urlava, spintonava e si divertiva coi miei amici, che erano anche suoi amici, anche se non ci eravamo mai visti prima.
Aveva i capelli neri, e lo ricordo bene, ma ci ha tenuto subito a dirmi che precedentemente erano rossi. Lui è rosso, come suo padre, come l’hai visto tu insomma, in questi giorni, ma in quel periodo si tingeva i capelli, e non chiedermi il perché, probabilmente questo gli suggeriva la testa. Figurati, mi ha raccontato di aver provato precedentemente a farsi anche biondo, con una decolorazione lampo di dubbia origine che gli ha bruciato i bulbi nel cuoio capelluto.
E ora se ne pente, ma è sempre stato così, lui: tutto e subito.
Lo so, storci il muso, Alice, ma Ciro ragiona solo se ha le spalle al muro, altrimenti è solo flusso di sangue che corre dai mignoli fino ai capelli.
È estremamente istintivo.
Ripeto, tutto e subito, altrimenti varia lunaticamente dalla strafottenza alle notti di pianto interminabili.
Ma questo lo hai già detto tu a me.
 
Infatti ti sto spiegando il motivo per cui Ciro non è ciò che sembra.
 
Non lo sapevo, ma quel giorno dello scorso anno mi avrebbe fatto una sorpresa in ufficio.
Lui te l’ha detto, fa il soldato, lo mandano fuori città più spesso di quanto vorrebbe e ritorna ogni tanto per periodi più o meno lunghi… oppure no, periodi brevissimi, quattro ore e va via di nuovo. Ma quando può fa sempre una capatina da me.
Parliamo molto, io e lui. Ascolto sempre ciò che ha da dire, anche perché non è uno che tende ad aprirsi con tutti; la cosa lo fa sentire fragile, e lui odia sentirsi così: cerca sempre di mantenere il controllo di tutto ma è emotivo, così tanto che, quando scoppia in lacrime, a volte è più per la collera di non esser riuscito a trattenere il pianto che per l’effettiva causa del dispiacere.
Ma divago, come sempre.
Ti ha portato in quella 500, l’altra sera, no? La guida come se fosse un kart, facendo slalom nel traffico della tangenziale, passando con precisione chirurgica tra le due corsie e scappando dalle parolacce che qualche vecchio rincoglionito abbonato alla corsia di sinistra gli lancia, proprio come faceva mia madre con le sue infradito, una ventina di anni fa.
Mio padre aveva gli zoccoli di legno, quelli che pesavano due quintali, e se me li tirava lui rischiavamo la prognosi riservata.
 
Comunque. Io quel giorno, quello di cui ti voglio parlare, me lo sono trovato davanti alla porta del bagno, ma ora lo voglio immaginare mentre perdeva sogni e salute nel tentativo di parcheggiare quel piccolo missile marchiato Fiat lungo Viale Michelangelo, che alle sei del pomeriggio, di giovedì, sembra l’ombelico del mondo.
Probabilmente si sarà fermato in doppia fila, davanti ai cassonetti dell’umido qui sotto, avrà bestemmiato tra i denti, mi avrà maledetto, assieme alla mia fissa “di avere l’ufficio al centro di Napoli perché dà un’altra impressione”. Amo immaginare che, durante le difficili manovre, per entrare tra i cassonetti e gli scooter, abbia mandato a fanculo tra denti qualcuno che gli stava suonando il clacson alle spalle.
Che lo farei anche io, ma mica si può essere perfetti?
 
In ogni caso, la porta del bagno, sì. Dicevo… Esco dall’ufficio per andare a dire alla mia segretaria che non sa fare le fotocopie e me lo ritrovo accanto alla porta del gabinetto, poggiato al muro, con la giacca di pelle marrone aperta su di una t-shirt Obey, gialla, che io non avrei mai il coraggio di indossare.
Quello non è il mio colore. No. Mi vedi, vesto più… classico. Non distrarmi, Alice.
È lì, con gli occhiali poggiati sulla fronte e il volto di chi sta trattenendo la pipì da più tempo di quanto vorrebbe, con le braccia incrociate e un dubbio sul volto.
Lo saluto, lui mi sorride a mezza bocca come fa sempre, e viene ad abbracciarmi. E io accolgo il suo abbraccio, con calore. Era pure periodo di Covid ma sticazzi. Lo so, è sbagliato. Infatti finii per contrarlo da una collega.
Mi stai distraendo di nuovo, con queste domande… È che ho questo fatto, io, questo problema, che per raccontare una cosa ci metto un casino di tempo. E tu stai ridendo, sì, ma ho la concentrazione bassa, dovrei fare il bagno nell’Adderall ma ho paura di diventare come Elliott Alderson.
Dicevo… gli chiedo che ci faccia fuori alla porta del mio bagno e mi risponde che una donna dalla gonna lunga e verde si è chiusa lì dentro mezz’ora prima. E io rido, perché lo fa con quella faccia insofferente che non riesce mai a nascondere quando è contrariato per qualcosa.
Sì, perché se c’è una cosa che Ciro non riesce a fare è celare.
Onesto.
Brutalmente, a volte.
Nettamente meglio di chi non trasmette nulla e poi muore dentro. Ciro muore fuori, urla e sbraita, se necessario.
Esce la signora Viglietti dal bagno, lui si scusa e sparisce per un minuto oltre la porta della toilette, per poi tornare visibilmente turbato. Io guardo l’orologio, capisco l’antifona, so che c’è qualcosa che non va. Mi chiede se possiamo entrare nel mio ufficio e gli dico che va bene e quindi mi avvio per primo, lui chiude la porta alle nostre spalle e si accomoda sulla poltroncina di fronte alla mia. Accarezza con le mani piene di anelli i poggiabracci di pelle nera, un po’ consunta. Un paio di mesi dopo le ho cambiate, quelle sedie, e l’anno dopo ho cambiato la scrivania.
Lui però si guarda attorno come Neil Armstrong quando mise piede sulla luna, alternando lo sguardo tra gli attestati di lavoro che tengo ordinati sulla parete alle mie spalle e le nuvole che si rincorrono oltre le finestre serrate di quel novembre, che ancora richiamava i colori dell’estate ma che copriva i palazzi del Vomero di quell’umidità che ti penetrava nelle ossa. Fissa poi la fotografia di Chiara, non sorride né nulla, fa giusto un cenno con la testa e mi chiede se va tutto bene con lei. Io gli rispondo di sì, ogni tanto qualche scaramuccia, e lui mi dice che queste cose fanno pure bene.
“Fanno capire che sei vivo” mi dice.
 
Io non lo vedevo da un paio di mesi. Era a Lampedusa per gli sbarchi, in quel periodo, e onestamente, più di una chiacchierata su WhatsApp ogni tanto, non ci siamo fatti.
Sai com’è… io le cose mie, lui le cose sue…
Ma guarda Chiara con insistenza, quasi con fastidio, e allora mi viene naturale chiedergli cosa stesse succedendo.
E mi risponde “Erica”.
 
Allò.
Alì, non farti prendere dal panico e dalla gelosia, ma con ogni probabilità Erica è stata la sua prima relazione importante, e lui all’epoca aveva quasi venticinque anni.
Per intenderci… non era piccolo.
Forse, addirittura, Erica è stato il suo primo approccio più serio alla sfera sentimentale. È stata lei, per prima, a fargli cambiare il modo di vedere il pianeta donna.
 
Che tipo è Erica, dici?
 
Ti risponderò con estrema sincerità: una donna… complessa.
Una donna premurosa, piena di passione e comprensione, e di polemiche, e di domande sempre pronte, riposte in una cartucciera per grossi calibri che le girava attorno alla spalla destra. Erano domande scomode, che un uomo, all’epoca esuberante come lui, non riusciva ad accogliere con la giusta calma, o senza un pizzico di panico. Capitavano spesso delle volte che litigavano in maniera (forse) eccessiva… ma per delle cazzate. Sì, per delle vere e proprie stronzate: bracci di ferro perpetuati per ore, notti senza sonno passate a chiedersi perché, a chiudere, a riaprire. E mazzi di girasoli lasciati sui cancelli di casa sua.
In quella fase erano abbastanza lunatici. Entrambi.
O meglio.
Lui era confuso, più che altro. Lei pazza di gelosia, rabbiosa, quando le parlavo mi chiedeva cose che io cercavo di comprendere a mia volta, perché Ciro era una forza della natura, e non chiedi a un tornado perché non attraversa sulle strisce.
Lo fa e basta, te lo fai andare bene. Dici “è un tornado, perché dovrebbe attraversare sulle strisce?”
Sai, lei è una donna delicata, di classe, molto a modo.
Tutti ci siamo chiesti cosa diamine ci abbia visto in lui, all’inizio, ma era nostro amico, e meglio che a prenderselo fosse una brava ragazza piuttosto che la solita scappata di casa che si era lasciata mettere incinta, pazza e uterina, anonima e slavata.
Io ero felice.
E lei inizialmente faceva resistenza, non lo voleva per nessun motivo. E dire a Ciro di no equivaleva a sfidarlo. Provaci anche tu, digli di no. Si innamorerà di te in due secondi e domani te lo ritroverai a dormire sul cofano della tua macchina.
Successe anche allora, sviluppò dei sentimenti complessi per lei; certo, non sapeva che fosse amore, dato che le uniche cose che amava, all’epoca, erano sua madre e Mauro Icardi.
Interista, sì, ma ha anche dei pregi.
 
Ma stiamo parlando di Erica. Fammi continuare.
Si conobbero durante un aperitivo, prima della pandemia, forse ancor prima di Natale, che il Signore me ne scampi, non ricordo mai bene questi particolari. Lui la vide in mezzo a un gruppo di amiche, in cui c’era questa ragazza che conoscevano entrambi. Ciro la saluta, lei gli presenta Erica e un altro paio di ragazze e lui decide di puntare lei.
E inizialmente era tutto fisico, sia ben chiaro. Lui voleva soltanto portarsela a letto, ma lei non voleva assolutamente cedere. E come ti ho già detto, dirgli di no equivaleva a trovarselo nello stato di famiglia: cominciò subito un pressing asfissiante su di lei, che neppure il miglior Walter Gargano: fiori, telefonate, proposte di uscite, drink offerti e mai accettati, notti passate a inviare messaggi le cui risposte arrivavano soltanto al mattino. E che ansia, lui trascorreva i chiari di luna appeso a un filo, a cavalcioni su di un pendolo impazzito che oscillava tra mille domande e una strana consapevolezza, a lui sconosciuta: non lo sapeva ancora, ma stava ponendo le basi per la sua prima malattia di cuore.
Lui soffriva.
Non capiva.
So che non t’immagini Ciro soffrire per amore, ma credimi, in quel periodo era ingestibile: si lasciava aggredire da tutti i malesseri che seguivano dal disinteresse di Erica, che dal canto suo vedeva questo ragazzotto cresciuto e si chiedeva cosa volesse da lei, che era letteralmente un altro paio di maniche.
Sì, Alì, non prenderti collera, non faccio paragoni con te, ma Erica era una regina senza trono, con interessi ben più importanti di quelli di Ciro. E sto parlando di uno dei miei migliori amici, ma lui in quel periodo pensava all’alcool, ai locali, agli amici, al fantacalcio. È speciale, se lo conosci, ma dall’esterno può sembrare uno dei tanti.
Erica invece aveva ottenuto una borsa di studio ed era lillì per laurearsi, parlava un italiano perfetto ed era abituata a contesti decisamente più formali. Contesti in cui Ciro si sarebbe sentito un pesce fuor d’acqua, e la cosa, nel corso della loro relazione, un po’ gli è pesata. Era di una differente estrazione, di un’altra educazione.
 
Non che faccia parte di una tribù congolese, eh....
 
Anche Ciro è stato cresciuto da una buona famiglia ed è un ragazzo rispettoso. Del resto è un soldato. Sa quando stare al proprio posto, sa quando parlare. Ultimamente ha anche imparato cosa dire, ed è soddisfacente, per me che ho passato più di dieci anni a elargire schiaffetti correttivi.
Non ridere.
Ma con Erica non sapeva che pesci prendere.
All’inizio era solo panico. E chiedeva a me, che prima di uscire con Chiara ero già stato con qualche donna un po’ più seria e sintonizzata sulla relazione a lungo termine.
E mi viene da ridere, perché all’epoca il solo concetto gli faceva venire l’orticaria.
La relazione a lungo termine. Questa sconosciuta.
Aveva sempre scambiato le donne come fossero figurine, e all’improvviso una ragazza dai capelli tipo biondi, minuta e dalla voce squillante lo aveva fatto deragliare da tutte le sue convinzioni.
Un po’ come se fosse stata una rivelazione. Un angelo sceso in terra.
Cazzo, che faccia che hai, Alice. Scusami, non volevo farti ingelosire… ma ti sei presentata qui con una lista di lamentele sul mio amico e io ti sto dicendo che non è proprio così. Erica non era perfetta, ma Ciro l’aveva inquadrata in quel modo.
 
No, Alì.
 
Erica aveva mille difetti e starle accanto non era semplice. E io le volevo bene, le voglio bene ancora, perché alla fine è una brava persona. Ma non è innocua.
Come ogni donna, secondo me.
Quando lui la feriva con gli atteggiamenti lei rispondeva a parole, lanciando vere e proprie lame, capaci di fargli sanguinare cuore, stomaco e polmoni, senza scalfirgli il torace.
Perciò dico che non è stato semplice per lui provare a gestire quella relazione. Ma inizialmente era meraviglioso. Sai, quella cosa che non c’è nulla di più bello di vedere un uomo innamorato di una donna… è vero.
Odia ammetterlo, ma non sopportava la superficialità con cui lei lo giudicava. Ci perdeva il sonno.
Cominciarono maratone al telefono, tra Whatsapp e Instagram e telefonate vere e proprie, in cui lei parlava, e parlava, e lui rimaneva ad ascoltarla anche per ore intere senza aprire mai bocca.
E a lui andava bene così.
Sentiva la sua voce, ascoltava le sue parole, ogni tanto dava un cenno, ma si sentiva vivo, e la cosa era strana.
“Parla sempre”, diceva, “ma a me va bene così”.
 
Di che parlavano?
 
Lei stava vivendo un momento suo tutto particolare, onestamente, tra stress familiare e universitario e tante altre piccole cose che, una donna sensibile come lei, a volte subiva con forse un po’ troppa veemenza.
Era probabilmente la prima volta che Ciro non era superficiale con qualcuna: le dava consigli, finiva per passare più tempo al telefono con lei che con la testa sul cuscino, di notte.
E ci provava in continuazione.
 
“Esci con me.”
“No.”
“Esci con me.”
“No.”
“Esci con me.”
“Ho detto no.”
 
E lui si disperava.
A un certo punto, pensa, decise anche di mandarla a fanculo… sai, non era abituato a prendere tutti quei due di picche, il ragazzo, e a un certo punto valutò fosse meglio smettere di star dietro a una ragazza così diversa, così diametralmente opposta da quello che era il modello di donna che gli ballava costantemente davanti agli occhi. Lei, così differente da tutto ciò, così preziosa e celata, lo innervosiva.
“Vada a farsi fottere” diceva, con l’aria di chi si stava pentendo delle proprie parole.
 
E poi successe il fatto del padre.
Sì, insomma… il papà. Il papà di Ciro andò via prima del tempo.
Fu una situazione difficile. Lo fu anche per noi, che lo abbiamo visto soffrire. Gli siamo stati accanto, gli abbiamo fornito costantemente una spalla su cui piangere e distrazioni perenni. Casa sua era sempre piena di persone, di noi amici, che cercavamo in qualche modo di alleviare la pesantezza di una situazione del genere.
E poi, un pomeriggio, si presentò anche lei.
Gli fece le condoglianze, stette un po’ con lui e con la sua gente, conobbe sua madre, che decise di farla sedere accanto a lei, di parlarle. Le disse di stare vicino a Ciro, che in quei giorni non aveva ancora avuto la possibilità di metabolizzare il fatto per bene, che c’era sempre un casino di gente a casa e che non voleva lasciarsi andare davanti a tutti, ma che di notte era difficile riprenderlo.
Io non lo so, se fu quel discorso o la situazione in genere, ma forse Erica lo rivalutò in quel momento. Lo vide fragile e un po’ più solo, nonostante trenta persone che lo sostenevano con la vicinanza e l’affetto.
Ma che te ne fai della vicinanza e dell’affetto in una situazione del genere?
 
Parlammo molto, in quel periodo, io e lui.
Parlò molto anche con Erica.
Gli facemmo forza.
Due settimane dopo i due avevano cominciato a lavorare sul gettare per terra le loro differenze, e io credo che molto dipenda da quella sindrome dell’infermierina che molte donne si portano appresso ogni volta che vedono un uomo bello e dannato, pieno di problemi, che cercano di curare e migliorare.
Tu lo conosci, questo atteggiamento?
Sì?
Anche tu?
Ha mai funzionato?
 
Erica mi fu presentata il ferragosto di quell’anno, che i due avevano cominciato da poco a girare assieme ufficialmente. Ero terribilmente ubriaco. Ricordo che quella sera, al posto del canonico Peroncino, prendemmo delle Tuborg, di quelle con le linguette a strappo sul tappo, che puntuale mi si stracciò tra le mani, lasciando la bottiglia chiusa.
Taggai Tuborg Italia in una storia Instagram, in cui mi lamentavo.
Ebbi diverse reaction.
Fatto sta che quella fu l’unica delle dieci Tuborg che non riuscii ad aprire, quella sera e, inutile dirlo, volavo oltre le nuvole, addirittura oltre quell’umidità, che dove viviamo noi è tipo onnipresente. Ciro ed Erica si presentarono lì, lui era tutto sorridente e un po’ imbarazzato sul prato di casa di Luca, che ci ospitava con quelle meravigliose braci di carne non proprio ottima che compravamo mettendo un tot ciascuno, e alcool, e altro.
Ora vive ad Amsterdam.
Fa il cuoco, cucina bene.
Insomma, Erica seguiva Ciro imbarazzata, che delle trenta persone lì non conosceva nessuno se non due o tre, che in quel momento erano impegnati in un acceso dibattito su qualcosa che onestamente non mi interessava.
No, non li ascoltavo, giocavo a calcio a piedi nudi; ruppi le rose alla mamma di Luca e lei ora mi guarda malissimo, sono ancora mortificato, dopo tanto tempo da quella sera. Beh, ad ogni modo, urlavo, sbraitavo, prendevo Enzo per il culo e tornavo a bere un sorso dalla birra che avevo poggiato su di un tavolino un po’ traballante, e la cosa durò per venti minuti, mentre Erica mi guardava divertita.
Non mi vedrai mai così, Alice. Potrai anche sposare Ciro, e non so neppure se augurartelo (rido) ma io sono un uomo diverso, e quell’aspetto di me è morto e sepolto.
Fu lo stesso Ciro a dirmi che stavo esagerando.
Cioè. Lui, a me.
Meraviglioso, so che avresti voluto essere lì solo per vedere quella scena.
 
“Fermati un po’. Vieni un po’ qui, parla un po’ con Erica”.
 
Ed Erica era carina, piccolina, minuta, davanti a me, che sono un armadio a quattro ante.
Ora tu immagina la scena: seduti su due sdraio, io accanto a Chiara, a destra, che parlava dio solo sa con chi, e allo stesso Enzo, che si era rotto le palle di giocare a calcio tipo al secondo tiro ma adorava vedermi ubriaco mentre facevo cose.
E lo vedi, Enzo, non è cambiato.
Lei era di fronte a me, Ciro la stringeva, mi guardava come per dire “non fare cazzate e datti un tono”.
Lei mi dice “parliamo” e io recupero la lucidità con una velocità impressionante.
“Parliamo” le ribatto, e in ogni caso sette minuti dopo la sconvolgo per qualcosa che il signor Tuborg ha contribuito a farmi dimenticare. Fatto stava che l’avevo impressionata.
 
Cosa le dissi?
No, non me lo chiedere, non mi ricordo nulla. Ricordo solo che all’improvviso risposi dicendo qualcosa di molto profondo, e lei non se lo aspettava da me, che forse ero più ubriaco che sudato. Ma lei, poi, tutta elegante, davanti a me, sudato, sconvolta.
Che risate.
Me la feci amica.
Tre giorni dopo Ciro ci litigò e mi chiese di parlare un po’ con lei. E lì la conobbi meglio anche io. E onestamente non capivo cosa li tenesse uniti: Ciro era troppo un bad-boy e lei sembrava uscita da un romanzo smielato di Nicholas Sparks, così perbene e perfettina, mai un capello fuori posto e quell’attitudine da prima della classe, ma entrambi cominciarono a parlare con me per risolvere le loro divergenze.
Sì, un po’ come un consulente di coppia.
Eravamo fidanzati in tre, a un certo punto, solo che di quella relazione io mi sorbivo solo le rotture di palle. Non ridere. Però ero felice, vedevo che Ciro stava cambiando letteralmente volto, stava maturando rapidamente e stava sviluppando un certo atteggiamento propositivo per le cose.
Aveva attitudine, e bisognava dargliene atto, dato che non era il tipo di persona che puntava, mirava, sparava e centrava al primo colpo.
Anzi.
Era un ottimo temporeggiatore. Un recuperatore dell’ultimo minuto, un addetto al rimpianto per tentativo non pervenuto.
E con Erica ci stava mettendo il massimo.
 
Ma il massimo, spesso, non basta.
 
Litigavano.
Litigavano spesso, lui la vedeva spesso insoddisfatta e a sua volta veniva colto dallo sconforto. E noi uomini odiamo questa cosa, Alice. Siamo fidanzati con persone che vogliono qualcosa da noi ma che si aspettano che noi indoviniamo cosa. Certo, c’è chi capisce che alcuni atteggiamenti sono sbagliati, ci sono donne che si adattano ai comportamenti del proprio uomo, ma la gran parte delle coppie scoppia perché esistono quelle cose che tutti accettano, che credono essere la base del rapporto ma che alla fine sono solo il principio di un harakiri.
Sì, parlo dei compromessi, tesoro.
Cosa?
Tu credi che siano giusti?
 
Bene.
Ti dirò cosa pensa un emerito stronzo come me.
Gli opposti si attraggono, sì, ma solo i primi venti minuti; prova a rimanere con la persona più diametralmente opposta a te per tutta la tua vita, e ti accorgerai di come anche l’uomo più amabile possa risultare arido, quando non hai nulla da dirgli.
E certo, succede perché siete troppo diversi.
 
Chi si somiglia si piglia, tesoro. Le persone simili non fanno compromessi, vanno sempre nella stessa direzione, hanno sempre qualcosa in comune, vivono sempre di qualcosa che li accende contemporaneamente.
E lo so che è bello scoprire cose nuove e blablabla ma davvero, dopo un po’ ti rompi i coglioni di accettare atteggiamenti che per te non dovrebbero esistere in nessun modo.
I compromessi li fanno tutti, all’inizio.
 
Sua madre è palese che mi odi, mi guarda in cagnesco, suo padre sembra un malato da ricovero e suo fratello passa più tempo davanti al telefono chiuso in camera che all’aria aperta, ma è importante che una volta al mese vada a casa loro a far vedere loro che lui ha una vita sentimentale
.
Oppure.
 
Odio i suoi amici, sono dei coglioni, uno è pure il suo ex, ma non posso di certo dirle che non mi fa piacere che esca con quella gente!
 
Ancora.
 
Anche questa settimana siamo in questo ristorante del cazzo, e io sono stanco di pizza. Voglio sushi ma a questo stupido non piace! E non si pone neppure il problema di assaggiarlo! No!
 
E fin quando entrambi si palleggiano l’onere del mi faccio in là, allora ci sta ancora.
Ma quanto tempo passerà prima che capirai che i pizzichi sulla pancia ti hanno riempita di lividi, Alice?
I compromessi sono degli atti di autointossicazione.
E sai che succede?
Che uno se ne rende conto prima dell’altro, smette di fare la sua parte e rimarrà a godersi quei quindici minuti di riverenza che gli rimangono, prima che si inneschi quel qualcosa che distrugge tutto.
Sì, si pianta il seme del malessere, diventa un’ortica enorme, spinosa, con le radici spacca le fondamenta create per tanto tempo e finisce che tutto crolla.
Quando cominci a fare compromessi non puoi più smettere.
Le coppie si scollano, l’amore finisce, le persone che dormivano nello stesso letto finiscono poi per odiarsi, per parlare male dell’altro durante rimpatriate con vecchi amici, che ti chiedono come mai non ci sia anche lei.
 
“Perché ci siamo lasciati”.
“Ma no! Quando?!”.
“Sei mesi fa… Le cose non andavano”.
“Cielo, che gaffe…”.
“Figurati…”.
 
Ora, Ciro ed Erica erano diventati campioni di compromessi, ma a un certo punto si guardavano entrambi allo specchio e si chiedevano il perché di determinate cose.
Cioè, non c’erano solo liti, tra i due, ma la gran parte delle volte sì.
A te piace litigare?
Ah, sì? Non ridere, capisco perché sei amica di Chiara.
Ciro fu il primo a scoppiare. Appese la loro relazione al chiodo a inizio ottobre, che il sole era ancora caldo, e dovetti sgonfiare le lacrime di Erica a poco a poco, mentre ascoltavo il punto di vista più o meno convincente del mio amico, che mi spiegava che certi atteggiamenti non li accettava più.
Il perché te l’ho detto, Alì, non mi ascolti. Erica era una donna complessa.
Ciro aveva perso il padre da poco ed era allergico alle relazioni. Fu sicuramente terapeutica, per lui, la presenza di questa ragazza, così docile al suo fianco, ma immagino che per lei non sia stato semplice accettare la costante presenza di donne in cerca di un quarto d’ora di qualcosa d’inutile. E anche se lui le rifiutava, per lei non era abbastanza. Era gelosa, si arrabbiava e tecnicamente a Ciro non si poteva dire nulla, perché faceva effettivamente la cosa giusta.
Quindi lui accoglieva lamentele che non comprendeva e finì per sbroccare totalmente: chiuse in una scatola l’affetto che provava per lei e decise di riporla sul ripiano in alto dell’armadio.
Fatto stava che dopo qualche settimana di chiacchiere tra me ed Erica, lei, dal nulla, riesce a riprendere le redini della propria vita. Ed è qui che torniamo nel mio ufficio.
 
Ricordi, no?
 
Aspè, hai uno sguardo poco convinto.
Cioè?
Non ti piace ciò che ti sto dicendo di Ciro? Beh, allora non ascolti davvero! Ti sto spiegando che tutto questo serve a farti capire dove voglio andare a parare!
Io non le so spiegare, le cose, scusa.
 
Dicevo.
Sta guardando con insistenza la foto di Chiara, tanto che comincio a pensare che voglia confessarmi d’esserci stato a letto assieme. Però poi mi dice Erica, e nella mia testa detona un “porca troia, no” così forte che lo sento ancora oggi.
Erano passati quaranta giorni da quando lui l’aveva lasciata, e lui mi si presenta davanti con quella faccia che diceva tutto.
Capisco immediatamente: si è pentito della sua scelta.
Ha lo sguardo basso, come quando litigammo da ragazzi e venne a scusarsi con me.
Successe solo una volta.
Non è bravissimo a chiedere scusa. Però ha imparato a fare anche questo.
Rimane a fissarsi le dita delle mani, aspettando che io gli legga nella mente, come faccio spesso, ma stavolta penso che debba essere diverso.
“Parlami”, gli dico. Gli chiedo cosa c’entri Erica. Lui fa spallucce, alza lo sguardo e mi fissa negli occhi. Sono lucidi, trattiene le lacrime.
“Non vuole tornare con me”, mi fa.
Allora io alzo gli occhi al cielo e affondo la testa nella mia sedia, infossando il collo nelle spalle.
Sbuffo, sono stanco di Erica e Ciro.
“Ancora…”, gli dico, con un tono di domanda celata, quasi lasciva, e lui riabbassa lo sguardo e mi fa segno di sì. E alla fine lui piange.
Sì, Alice, piange.
Mi dice che hanno parlato, che ha capito, durante l’ultima missione, di essersi comportato come un cretino. Di aver avuto sempre torto, di non aver compreso mai davvero la sua natura.
Mi dice che si è reso conto del suo cambiamento effettivo, in quell’anno, circa, e che tutto era dovuto a Erica: considerata la morte di suo padre, avrebbe finito per fare qualche stronzata se non si fosse ritrovato quella donna accanto.
Ha capito il suo valore e me lo sta dicendo, col cuore in mano e le lacrime a graffiargli le guance, e credimi, è brutto da vedere, perché gli voglio bene.
Ma ormai è tardi, e lui lo ha capito nel modo peggiore.
Davanti a me c’è un uomo distrutto, Alice, che ha capito una cosa che per tutti è basilare: il tempo non può tornare indietro. Tutto rimane vivido, doloroso e malinconico, ma soltanto nei ricordi, che, in quanto ricordi, non sono niente; i ricordi non puoi cambiarli, altrimenti diventano fantasie.
E le fantasie non sono nulla di reale.
Sono film proiettati dai nostri occhi, nelle nostre teste, Alice.
Ciro aveva acquisito quella consapevolezza, quel giorno.
Forse qualche giorno prima, in realtà.
Quando si era presentato davanti a me voleva, forse, la mia benedizione. O la mia sentenza.
 
Insomma… è col volto basso, stanco forse, per le ore di sonno che aveva perso in quei giorni, e non si muove. Rimane immobile, respirando come se l’aria non sia abbastanza per me e per lui. Poi sospira e mi guarda.
Mi manca”, mi dice, e guarda di lato, verso la vetrinetta piena di faldoni e libri e gadget e listini. Non li capisce, non sa neppure cosa siano ma li fissa, come se potessero dargli le risposta che cerca.
Non lo so, ma credo si faccia tante domande.
Gli dico che non ha senso che gli manchi dato che è stato proprio lui a lasciarla e allora lui annuisce con forza, mi dice che lo sa e che si è accorto di aver commesso un grave sbaglio.
“Perché?”, gli chiedo, e lui mi dice che certe sensazioni, certi brividi, è convinto di non essere più in grado di provarli. Si sente solo, si sente legato a lei.
Vuole sentirsi migliore di ciò che è.
E io lo guardo male, penso di conoscerlo bene e so che quelle lacrime di coccodrillo sono il suo marchio di fabbrica, però qualcosa è diverso e me ne rendo conto quasi subito, perché ricordo che non si parla della solita ragazza conosciuta quarantott’ore prima e utilizzata e poi gettata e poi ricordata all’improvviso una notte d’estate.
Si parla di Erica, Alice.
Alcune persone rimangono dentro e non escono più, perché siamo noi a non volerle far andare via. Lui l’ha vista un po’ come la panacea per tutti i suoi mali, e tecnicamente la cosa è sbagliata, perché si era adagiato sull’effetto… come dire… terapeutico, dell’avere una donna a sostenerlo.
Erica gli mancava e lui voleva riconquistarla, mi chiede cosa può fare per farla tornare indietro, mi comincia a sparare addosso un mare di cose così romantiche da farmi dubitare della reale identità del mio amico, che tutto era fuorché un uomo sdolcinato.
“E secondo te, riempirla di regali e di bei gesti le farà dimenticare che non sei stato un bravo fidanzato, per lei?”, gli chiedo, e lo vedo alzare le sopracciglia, ancora con lo sguardo basso, dapprima fisso sulle sue mani, poi spostato verso sinistra, a fissare le mattonelle lucide del pavimento del mio ufficio.
Si prende il suo tempo, prima di dirmi “no. Non lo farà”.
Io allora ribatto subito, gli chiedo per quale motivo si stia mettendo in questa posizione pessima, dato che ritengo che certe volte sia meglio lasciar perdere.
Eh, lo so che bisogna combattere per ciò per cui si crede ma a tirare troppo la corda finisce che ti tagli le mani.
E io ci tengo alle mie mani, sono le uniche mani che ho.
 
Un momento! Ora ti dico che mi ha risposto!
 
Lui alza lo sguardo e mi dice una cosa, che mi ha letteralmente sconvolto: mi chiede di dirgli la prima cosa che mi viene in mente sui pesci rossi.
Aspè. Ha senso, in realtà.
Che cazzo c’entrano i pesci rossi?”, gli faccio, e lui mi dice letteralmente di non rompergli il cazzo e di rispondere, in perfetto stile Ciro.
Onestamente, la prima cosa che mi viene in mente è che non hanno una buona memoria.
 
Sai, hai la memoria di un pesce rosso, quel modo di dire, insomma.
 
“Cazzata”, mi risponde, incrociando le braccia sul petto. Si vedeva ben definito il tatuaggio che nasconde quando ha addosso la divisa. Quale? È una rosa. In ogni caso continua, mi chiede quale sia la seconda.
Esatto. La boccia di vetro.
Lui sembra estremamente soddisfatto della mia risposta, riapre le braccia e dà un grosso colpo sulla scrivania di legno, graffiandola col suo anello. Te l’ho detto, poi l’ho sostituita l’anno dopo. In ogni caso mi fa, e ti cito proprio le sue parole:
Qui ti volevo!"
E allora io mi acciglio, che in realtà non ci ho capito proprio moltissimo. Lui annuisce, si rende conto del mio spaesamento e mi dice che non è complicato.
In realtà non è così...” mi fa. “Non è che i pesci rossi non abbiano alcuna memoria... Ma anche se fosse così, prova a pensare a questo: prendi questo pesciolino e lo metti in un lago… lui vive in una boccia di vetro, e ogni giorno gira attorno alle stesse immagini… ma tutto diventa nuovo, tutto diventa diverso, se lo si fa nuotare in un luogo più ampio…”.
Mi dice proprio così. Io annuisco ma non capisco dove voglia andare a parare.
Cosa c’entrava lui, con quella teoria del pesce rosso?
Mo’ te lo dico, stai calma.
“Insomma…”, mi dice, “metti questo pesciolino in un lago enorme, lui nuota a destra e sinistra, assaggiando la luce del sole, il rumore del vento, anche la pioggia… la temperatura diversa… quindi tante cose che all’improvviso potrebbero rompere il meccanismo di reset”
Allora avevo capito.
Non l’ho neppure lasciato continuare, perché era chiaro dove volesse portarmi, col suo discorso: Ciro era il pesciolino rosso, aveva provato la piscina, il sole, il vento, la pioggia e la temperatura diversa e poi qualcuno l’aveva rimesso nella sua boccia di vetro.
Ma il meccanismo di reset si è rotto.
Quindi lui non dimentica più quelle sensazioni.
Erica, per lui, è quella piscina. E lui si sente un pesce rosso intrappolato di nuovo in quella boccia, che per tutta la sua vita è andata bene, fino a quando non ha assaggiato la libertà.
Davanti a me, avevo un uomo in gabbia.
Un pesce rosso nella boccia di vetro, che non dimentica più. L’odore della pioggia è diventato il profumo della donna di cui si era innamorato, il sole che illuminava l’acqua invece gli occhi di lei che lo guardavano innamorati. E il vento, certo, è la sua voce.
Ciro non riusciva più a tornare indietro, nonostante scappare fosse per lui la cosa più semplice.
 
E io gli ho detto di riprovarci.
Gli ho detto di non cedere.
Di migliorare, di cogliere lo spunto per crescere come uomo e raggiungere la stima di sé che non credeva di riuscire ad avere.
 
Alice… con Erica, Ciro ha fallito. Lei ha trovato un altro uomo e ora ci sta assieme. Non l’ho più vista, da allora. E certo, il dolore del mio amico è stato tanto, ha passato tanti giorni a chiedersi il perché di tante cose.
E poi ha capito che la causa di tutto era lui.
Quindi, amica mia.
Non ti ho fatta venire qui per parlare di Erica. So che Ciro ti piace e sarebbe strano parlare di un’altra alla donna che sta cercando di capire come funziona quello che reputo un fratello.
Tra l’altro sei un’amica di Chiara, e io sono terrorizzato dalla mia donna, che è piccolina ma dà dei pizzichi degni di un campione. Non voglio ritorsioni, ecco. Ma perché ho fatto questo lunghissimo giro di parole?
 
Per farti capire che lui ha lavorato su se stesso e che è andato avanti.
 
Perché è vero che certe persone ti restano dentro, ma il nostro corpo alla fine ha la meglio su ogni cosa, e lo espelle. Ciò che resta è il frutto delle esperienze fatte, come il segno del passaggio di un fiume sotterraneo in una grotta.
Bella questa, eh?
Ciro ha espulso Erica diversi mesi fa, ed è andato avanti. Ha affrontato i suoi problemi ed è diventato, finalmente, l’uomo che voleva essere. Ne ha preso le sembianze, ha il suo modo di fare, il suo modo di pensare.
Certo, stiamo lavorando ancora sul suo equilibrio ma… cioè, insomma, ha capito che significa mettere il cuore in gioco.
E con te non credo stia scherzando.
A me non sembra roba da poco.”

 


 
   
 
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