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Autore: KaienPhantomhive    27/06/2021    1 recensioni
[Aggiornamenti Settimanali | -1 Capitolo alla fine | Seguito de: "EXARION - Parte I"]
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La battaglia di Varsavia ha mostrato al mondo la forza del Quarto Reich Lunare. Ma la sete di potere non conosce limiti, da parte di nessuno. Nuove Divinità Metalliche attendono di essere risvegliate, e nuovi Contratti aspettano le loro anime come pegno. Fino a che punto può spingersi il desiderio di distruzione reciproca degli uomini? Ha senso ostinarsi a concludere una guerra, se è destinata a ripetersi per sempre?
Genere: Azione, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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15.

 

Un Desiderio

 

Giorno seguente. Ore 9:30.

 

Quella mattina Màrino si sentiva più carico del solito: era la ‘giornata di Sara’.

 

Sara era una ragazza della sua stessa età e frequentavano la stessa scuola, sebbene in sezioni diverse. Per lungo tempo erano anche stati vicini di casa, prima che i genitori di lei ne cercassero una più piccola, circa un anno prima della morte di quelli del ragazzo. Màrino conosceva perfettamente il motivo di quel trasloco: il padre di Sara, Fernando, era stato sempre un uomo modesto, sia nei modi che nel lavoro, ma negli ultimi tempi era cambiato. Con il contratto a tempo determinato agli sgoccioli, era finito a contrarre debiti su debiti (motivo ulteriore per cercare una casa più economica), che avevano portato alle lunghe nottate combattute per locali a bere e a imbottirsi i polmoni di nicotina, finché alcool e sigarette non avevano iniziato a essere sostituiti da qualcosa in grado di impadronirsi di fette sempre più ampie del suo cervello, rendendogli facili le urla e le mani su una moglie che altro non voleva che rimanergli accanto. Una sera però i ruoli si erano invertiti: nell’unico moto di coraggio trovato, quella donna concesse l’ultimo sguardo d’amore a sua figlia e l’ultimo di rancore verso il marito, poi si richiuse per sempre la porta alle spalle. Màrino sapeva che da allora le cose erano tutt’altro che migliorate per l’amica. Lei faceva il possibile per evitare l’argomento ma gli sguardi bassi, la voce insicura e alcune macchie scure sui polsi non mentivano. E come ciliegina sulla torta si aggiungeva l’incidente in cui era caduta in acqua per errore dalla banchina, cosa che l’aveva costretta in ospedale già da due settimane. Màrino le faceva visita ogni tre giorni e come sempre accade per due cuori tanto giovani, l’amicizia si era trasformata in qualcosa di più, perlomeno per lui. E a difesa di qualcosa di bello sorge spesso l’odio verso ciò che tenta di minacciarlo: il signor Fernando meritava una punizione. Ma non certo da Màrino, lui che era solo al mondo, lui non che non aveva molti amici, lui che non era forte o coraggioso. Anche se da quando aveva conosciuto quella Na-El…

 

Il ragazzo si obbligò a smettere di pensare a quanto accaduto e si preparò il più in fretta possibile, sperando di non ritardare per l’orario delle visite.

Esitò solo un momento sulla sua scrivania, dove fece ondeggiare un dito indeciso su due volumi della saga letteraria che stava prestando all’amica; non ricordava a che punto fosse arrivata ma alla fine optò per il terzo libro.

 

*   *   *

 

Giunto all’ Ospedale Dell’Angelo, Màrino non ebbe bisogno di perdere tempo con le bacheche digitali del punto informazioni. Aveva imparato in fretta la strada per la camera della ragazza ma, pur sapendo di essere in orario, chiese comunque alla donna che presiedeva alla reception del reparto convalescenze: “Sono qui per Sara De Bortoli. Sono ancora in tempo?”

L’infermiera concesse un’occhiata disinteressata all’orario delle visite: “È la 209. Hai dieci minuti.”

 

Era sul punto di entrare quando qualcuno che veniva in senso opposto lo urtò sovrappensiero. Due occhi spossati, animati da un lume torvo e infossati in un viso paonazzo, irto di qualche spillo di barba ingrigita, il tutto confezionato da capelli scuri, unticci e scomposti che a Màrino francamente davano il voltastomaco. Fernando De Bortoli, il padre di Sara. Il ragazzo indietreggiò di mezzo metro, colto di sorpresa, mentre Fernando chiese con un mezzo grugnito che dimostrava tutta la difficoltà nell’apparire sobrio: “E tu che vuoi, qui?”

“Sono venuto a trovarla.” – rispose innervosito Màrino guardando altrove e provando a superarlo.

“Ora non puoi vederla.” – De Bortoli gli mise una spalla davanti.

“È l’orario di visita, certo che posso.” –lo stava sfidando con le pupille ben piantate addosso a lui.

“Chi è, papà?” – arrivò una vocetta tremante da dentro la stanza.

“Sono io!” – esclamò Màrino con una voce allegra che cozzava con lo sguardo raggelante che aveva assunto.

Fernando si risollevò sulla schiena e lo squadrò da capo a piedi, masticandosi la lingua per trattenere l’impulso di mettergli le mani al collo.Annuì amareggiato con la testa, distolse lo sguardo e poi se ne andò senza replicare anche se a Màrino non sfuggì il poco fine “Stronzetto.” che gli aveva dedicò tra i denti.

Quando entrò nella stanza la trovò lì dove se la immaginava: seduta sul letto della stanzetta d’ospedale, con le gambe sotto lenzuola bianche. Il suo profilo in controluce era scuro, ma sembrava proprio che non attendesse altri che lui.

Quando le si sedette accanto – sulla seggiola pieghevole di plastica – lei lo salutò raggiante: “Ehi, sei venuto anche oggi!”

“Ovvio.” “– ammise lui sorridente – “Un giorno sì e tre no.”

“Molto carino da parte tua. E anche un po’ inquietante, eh.”

Una breve risata li unì. Poi il ragazzo si ricordò del libro nella tracolla e lo estrasse: “Ah, tieni. Ti ho portato il terzo volume. Ti mancava questo, giusto? Non mi ricordo bene.”

“Sì, sì, è lui!” – confermò Sara, girandosi il volume tra le mani, tutta entusiasta – “Grazie, Màrino!”

“Prego.” – tentò di contenere il sorriso, come se dimostrarsi troppo soddisfatto fosse disdicevole.

“Sono contenta che vieni sempre. E voglio subito iniziare a legg-”

Una scarica di tosse la interruppe. Breve ma violenta.

Màrino sussultò e le mise istintivamente una mano sulla schiena:

“Ehi, piano! Non parlare a voce troppo alta.”

“Non è niente. Scusa.” – cercò di ricomporsi, schiarendosi la voce indebolita – “I medici dicono che la polmonite è stata leggera, sono già quasi guarita. Resta solo un po’ di irritazione.”

Màrino non ne sembrava molto convinto ma sperava sinceramente che i ‘dottoroni’ di Venezia sapessero fare il loro mestiere. Stava per dire dell’altro quando notò qualcosa che lo disturbò non poco: “E qua cos’hai?”

Le prese d’istinto il polso: da sotto il pigiama antisettico spuntava un braccino sottile sporcato di macchie di un grigio sfilacciato di violastro. Lividi, vecchi di almeno un paio di giorni.

“Niente.” – lei si ritrasse di scatto, tirando giù la manica – “Non è niente.”

“Chi te l’ha fatti?” – domandò accigliato Màrino, temeva già la risposta.

“Me li sono fatta da sola.” – la voce di Sara era incrinata, tentando di convincere sé stessa.

“E come?”

“Quando sono caduta in acqua.”

“L’acqua non stringe i polsi.”

Lei dischiuse appena le labbra per replicare ma evidentemente non le venne in mente nulla, perché le richiuse. Aveva paura di dirlo ma ancora di più avrebbe voluto farlo. Si tratteneva a stento, glielo si leggeva negli occhi persi nel vuoto. Màrino intuì in quel silenzio tutto il peso della verità.

“Tuo padre?” – mormorò lentamente, con orrore – “È stato lui?”

“No.” – lo disse tanto in fretta da risultare premeditato.

“Te li ha fatti lui?!” – ora Màrino stava iniziando ad alzare la voce, stringendo le lenzuola in un pugno.

“No, guarda, ti sbagli.” – gli occhi le si stavano inumidendo e le labbra le tremavano dal nervosismo.

“Che schifo.” – sibilò lui, scattando in piedi – “Io vado dalla polizia.”

“No!” – gridò lei, paralizzandolo – “Per favore, non lo fare.”

“Ma guarda che ti ha fatto!”

“Non è stato lui.” – ci stava provando in tutti modi a sembrare credibile.

“Come puoi difenderlo, dopo questo?!” – Màrino stava iniziando ad attirare l’attenzione degli infermieri che passavano per il corridoio.

Era davvero sconcertato: come era possibile che lei si ostinasse a coprire l’inutile esistenza di quella versione mancata di uomo che aveva l’unico merito di averle donato parte del suo DNA? Poteva spingersi a tal punto l’amore di una figlia verso suo padre? Era forse lui quello a non capire, troppo privato dei sentimenti dopo la morte dei suoi genitori?

“Dai, su, non è grave.” – disse ancora lei, grattandosi le unghie; la sua voce ora era fredda, lontana – “Non fa niente. Sono stanca, quindi se potessi farmi riposare…”

“Ma…”

“Per favore.” – lo stava mandando via.

Lui rimase fermo come un palo, inebetito da quel comportamento: lui la adorava, era la sua amica. Di più: lui le voleva bene. Probabilmente un giorno avrebbe capito che il suo affetto andava molto oltre la semplice amicizia e per tanto non avrebbe mai – in alcun modo possibile – accettato che quella ragazza così fresca e spontanea potesse rimanere ferita da qualcosa, benché meno da un essere ripugnante come Fernando De Bortoli.

Tutto quello che lui desiderava era starle accanto. Il suo Desiderio, già. Quel segreto che aveva pronunciato alla ragazza nel sogno – Na-El – che in cambio gli aveva promesso di donargli la forza e i mezzi necessari per adempiere a quel compito. Difenderla, come un eroe difende i più deboli, era la sua missione. Tutto ciò che contrastava doveva essere eliminato. Anche il signor De Bortoli. Anche suo padre.

“Grazie ancora per il libro.” – ripeté Sara, che ora aveva girato lo sguardo alla finestra.

Era proprio il caso di andarsene. Prima di uscire dalla stanza si voltò ancora verso di lei per dirle un’ultima frase che tuttavia dimenticò. Si decise ad andarsene una volta per tutte.

 

*   *   *

 

Màrino era sulla via del ritorno, ma la sua mente rimaneva appigliata per una mano a quella ragazza che aveva appena lasciato.

Io cerco di aiutarla e lei mi manda via! Perché lo fa? Perché lo protegge?! Vorrei che quell’uomo crepasse. Se potessi…!

L’aria di metà mattinata era ancora fresca quando un tonfo sordo, lontano ma distinto, gli colpì i timpani. Era come un sacco che cade a terra. O un corpo. Seguì un secondo rumore più forte, come di legno che si spezza e poi suoni indistinti che dovevano essere umani. Accelerò il passo, verso il ponticello che collegava il suo lato della strada con il successivo e allora capì. Dall’altra parte del sestiere, proprio sul ciglio del canale, due uomini erano ritti davanti a quello che all’inizio gli apparve solo come un mucchio di grossi pezzi di abete rosso e una grande scatola nera aperta al suolo, ai piedi di una terza figura che se ne stava rannicchiata a terra.

“Ehi!” – urlò loro contro, senza nemmeno riflettere – “Che gli state facendo?!”

Quello per terra non era semplice legno, ma uno strumento ad archi ormai inservibile, la scatola nera il suo contenitore e la figura a terra un ragazzo. Davanti a lui si ergevano due uomini di età indefinibile dato lo stato di trascuratezza in cui versavano loro e le loro felpe smunte. Uno dei due – che aveva la testa rasata e un tatuaggio di un Fascio Littorio sulla nuca – diede un colpetto all’altro, indicando l’intruso. Il compagno dai capelli più ispidi si voltò verso Màrino e fece di rimando: “Ehi, muso de’ mona! Cazzo ti guardi?!”

Màrino non pensò nemmeno lontanamente che avrebbe potuto essere poco saggio lanciarsi di petto in quella faccenda, ma agì d’impulso. Scese dal lato opposto del ponticello, fronteggiandoli a pochi metri di distanza. Ora poteva vedere il ragazzino steso a terra, che gli rivolse un’occhiata supplichevole.

“Ma che vi ha fatto?!” – gridò –“Lasciatelo stare!”

Il suo degno compare sgranò gli occhi come ste stesse parlando con un folle scriteriato: “Come, scusa? Ma chi ti credi di essere, cojon!”

“Aspetta un attimo…” – il tizio pelato lo squadrò interamente e poi chiese divertito – “…sei mica il figlio degli Alto? Quello che gli si sono suicidati i genitori?”

Centro. Màrino deglutì senza rispondere.

“Un cagnolino orfano dovrebbe starsene a casa, anziché cercare rogne.” – il sorriso di quel tipo era un ghigno orrendo.

Màrino fissò prima lui, poi il ragazzo a terra e poi ancora il tizio nerboruto.

“Vi ho chiesto che cosa vi ha fatto.” –la sua voce iniziava a farsi meno spavalda.

“Lo vuoi sapere?” – l’uomo puntò il ragazzo con l’archetto del suo strumento ad archi, che doveva avergli strappato dalle mani prima dell’arrivo di Màrino – “ ‘Sto imatonìo è un insetto ebreo! E pure reciòn, te lo dico io.”

Pronunciò quelle parole con così tanto disprezzo da farlo sembrare un peccato capitale.

“E non è nemmeno italiano. Vengono qui a sporcarci la città!”

E gli spezzò l’archetto con un ginocchio.

Insetto ebreo! Màrino non credeva alle sue orecchie. Che razza di giustificazione voleva essere? Nel 2050 la gente andava in giro a picchiare ragazzini di religione diversa? E in più quel tale aveva parlato con una tale certezza delle proprie ragioni che pareva si aspettasse di essere supportato.

“E per questo lo trattate così?!”

“Ma ti se sbregà?!” – sbottò il tizio con la camicia allargando le braccia, più sorpreso che infuriato – “Sei uno degli Alto, no? Cazzo ti frega de ‘sto mona! Uno come te dovrebbe stare dalla nostra parte!”

Dalla vostra parte?” – ripeté lui, colmo di disprezzo – “Cosa vi fa credere che io sia come voi? Non vi azzardate manco per sogno a parlare di noi!”

Qualcosa scattò come una molla nel cervello del ragazzo, facendo prendere una vacanza al senso di autoconservazione, mentre gli si scagliò contro. Il tipo dalla testa rasata incassò l’impatto con il suo corpo, ma non ci volle grande sforzo per afferrarlo per le braccia e rispingerlo via: “Ehi, oh, piano. Fai poco l’eroe.”

Màrino sbatté dolorosamente il fondoschiena e terra, finendo per fare compagnia all’altro ragazzo. Ma ormai era entrato in una dimensione parallela in cui l’unico dolore che poteva avvertire era quello dentro di lui.

“Sono quelli come voi che infangano il nome della mia famiglia!”

‘Dovresti stare dalla nostra parte’. Era tutto lì. Se i suoi erano morti, se ora lui era rimasto a sorreggere il peso della vita in solitudine, se la gente lo allontanava come ricoperto da un’aura funesta.Tutto era per quella frase, per quella convinzione che si era diffusa come un morbo per i vicoli gorgoglianti di muschio di quella città in putrefazione.

“È per gente come voi che mamma e papà ci sono andati di mezzo!” – strinse un pugno fino a conficcarsi le unghie nella carne.

Gli Alto: dei bigotti. Era iniziata così e poi aveva attraversato tutte le sfumature dei ‘ricconi’, ‘razzisti’, dei ‘ladri’ e alla fine dei ‘fascisti’. Quando poi si venne a sapere i Nazisti erano tornati sulla Terra e che i movimenti estremisti avevano iniziato a prendere forma anche a Venezia fu la fine: l’idea di un’influente coppia di procuratori distrettuali di indirizzo centro-conservatore aveva messo in un tale allarme la popolazione che presto la diffidenza divenne paranoia. E poi minacce. E alla fine l’omicidio-suicidio – nessuno seppe dare una sentenza definitiva – dei coniugi Alto. Màrino era orfano per via di un gossip.

“È anche per colpa vostra se adesso sono solo!” – ormai la voce era un ringhio rabbioso.

Qualcosa di oscuro baluginò in fondo ai suoi occhi e non sfuggì ai due uomini. Non avrebbero potuto dire cosa animasse il suo sguardo, né perché improvvisamente si sentissero in pericolo. Ma c’era una vibrazione profonda, ancestrale – istinto base, forse – che suggerì loro che quel giorno era meglio cambiare aria. Il tizio con il Fascio tatuato scosse lentamente la testa, incapace di scollargli gli occhi di dosso ma anche di attaccarlo. Un po’ alla volta indietreggiarono: “Ma va’ a cagar sule ortighe.”

E se ne andarono, spinti da quella indescrivibile sensazione.

“Ora puoi alzarti, se ne sono andati.” – disse Màrino, dopo qualche secondo – “Dai, ti aiuto.”

Lo tirò su per un braccio. Ora che aveva modo di squadrarlo meglio, si rese conto che quella chioma lucida di capelli nocciola, in parte appiattita sulla tempia sinistra da due sottili forcelle, non gli era del tutto nuova e nemmeno il gilet di cachemire bianco. Neanche i pezzi di quello strumento musicale gli erano proprio stranieri, a pensarci bene. Poi l’illuminazione: era lui. Era davanti al violoncellista – se avesse conosciuto il termine – senza volto dell’aula di musica.

“Mi dispiace per…” – gli disse, provando a indicare il violoncello a pezzi, ma lasciò perdere l’idea di dargli un nome più preciso – “…quello.”

Ma il ragazzo non sembrava ascoltarlo, così insistette: “Beh, potresti anche ringraziare, eh.”

Lui si voltò con gli occhi bassi e ciancicò impacciato: “Oh…yeah. Thanks.”

Una risposta in un’altra lingua.

“Parli Inglese?”

Il ragazzo confermò con un cenno veloce del capo.

“E ce l’hai un nome?” – era peggio di estrarre un molare.

Quello non rispose subito, forse non aveva del tutto colto la frase.

“Il tuo nome.” – gli ripeté, paziente – “What’s your name?

La più scolastica delle frasi pronte. Il ragazzo batté gli occhi in segno di comprensione, come se gli si fosse accese una lampadina in testa, e rispose con una vocetta debole e insicura: “Oh. Aaron. Aaron Alford.”

“Io sono Màrino.”

 

Camminavano già da un quarto d’ora abbondante, dopo che Aaron era stato aiutato a recuperare i pezzi sparsi dello strumento e a chiuderli nella grande custodia da schiena.

“E così sei a Venezia per studio?” – quel nuovo incontro aveva riacceso tutta la curiosità di Màrino.

“Sì. Sono…ehm…transfer student.” – non ne sembrava troppo convinto – “Studio Italiano. Provo.”

Tendeva a eliminare qualche congiunzione ma la pronuncia era buona.

“E da dove vieni di preciso?”

England. Liverpool.”

“Ah, come la squadra di calcio! E ti trovi bene, qui?” – ma realizzò di quanto era appena successo e non lo trovò proprio un bel cartellino da visita – “Cioè, a parte…certa gente. Ma non siamo mica tutti così.”

Yeah, yeah. Lo so.” – Aaron provò a rassicurarlo con un sorriso forzato – “Qui sto bene. Più caldo di Liverpool. Però anche più acqua!”

Quell’ovvia constatazione strappò a Màrino una risata.

“Solo che…” – Aaron si grattò la testa e strizzò gli occhi, come se aspettasse di ricevere uno scapaccione – “…ho rotto cello.”

“Cosa?”

Cello. Ah, giusto. Violoncello, si dice da voi, no?”

“È quello strumento che porti lì dentro?”

It was. È della scuola. Preso in prestito.” – Aaron fece schioccare la lingua in un’ammissione di colpa – “Mi sa che andranno…pretty mad.

Nel tempo di questa conversazione erano intanto arrivati davanti alla suddetta scuola, che ora appariva come un patibolo per il povero ragazzo inglese.

“Ma no.” – lo incoraggiò Màrino – “Se gli quello che è successo, capiranno sicuramente.”

 

Tre rampe di scale e diverse imprecazioni dopo, Màrino si ritrovò smentito. A poco servì mostrare i pantaloni rovinati dall’asfalto o spergiurare che era stato testimone oculare della scena, il preside – al netto di una certa dose di scettiscismo – non avrebbe potuto chiudere un occhio neanche volendo davanti a uno dei preziosi violoncelli della scuola, ridotto in quello stato. Quando uscirono dall’ufficio del preside, Aaron si lasciò cadere se una sedia in corridoio. Avrebbe voluto piangere dal senso di colpa, mentre Màrino aveva i nervi a fior di pelle: “Assurdo! E ora?”

“Chiamo i miei.” – Aaron fece spallucce – “Pagheranno la multa.”

Provando a cambiare argomento, Màrino disse: “Comunque, per il resto è tutto ok? Preferisci che ti accompagno a casa?”

“No, grazie. Tutto ok. Non è un problema.”

“Ok.” – e, come se avesse spento l’interruttore delle conversazioni, Màrino fece per andarsene.

Wait!”

Si voltò ancora.

“Uhm.” – Aaron tamburellava con le dita sulle gambe, imbarazzato – “Sono qui da poco. Uhm. Non conosco bene Venezia e…non ho amici. Ancora. Sarebbe un…uhm…problema, se ci vedessimo ogni tanto?”

Màrino pensò un momento alla possibilità e con lo stesso trasporto con cui si può accettare di andare in una direzione anziché in un’altra, annuì: “Si può fare.”

 

*   *   *

 

Ore 21:00. Giardino ‘Malipiero’.

 

Le luci delle case rilucevano sui canali immersi nella sera quando Màrino raggiunse la sua amica al loro ritrovo abituale. Le si sedette accanto, come ogni volta, guardando i tremuli riflessi dei lampioni sull’acqua.

“Stavo per andarmene.” – disse Na-El in un modo che sembrò un rimprovero.

“Ho fatto tardi, scusa.”

Rimasero per un po’ in silenzio, nel freddo e silenzioso vento dall’odore salmastro. Poi Màrino prese la parola: “Oggi ho conosciuto uno. Penso che potremmo diventare amici.”

Na-El si voltò verso di lui. Fu un movimento quasi a rallentatore, nel vento delicato che le scuoteva appena le chiome turchesi. Piegò la testa nella sua direzione come se potesse vederlo, con quell’occhio vitreo e quella bendatura floreale. La sua piccola bocca si incurvò impercettibilmente verso l’alto: “Allora dovresti presentarmelo, un giorno.”

 

 

   
 
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