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Autore: Soul of Paper    27/06/2021    3 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 62 - L’Assalto


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Do- dottore….”

 

E mo che faccio? E mo che faccio?!

 

Era nel panico più totale: Mancini che sorrideva, bello bello, conciato come George Clooney in uno spot di bevande da aperitivo - soltanto più ricco, visto il costo della marca di champagne che recava in dono - ignaro di quello che sarebbe successo di lì a poco. Non solo della figuraccia tremenda che stava per fare lui, ma pure di quanto la stava per inguaiare, che Calogiuri chissà che avrebbe pensato.


Ed il tutto sotto gli occhi della cara Irene.

 

“Allora, non mi fai entrare?” le chiese, ed il passaggio al tu la preoccupò ancora di più.

 

Aveva frainteso tutto il fraintendibile, mannaggia a lui!

 

Sentì un rumore dalla sala, si voltò d’istinto e Mancini le chiese “non dirmi che la tua gatta è ancora sul piede di guerra, se no a saperlo venivo con i parastinchi.”

 

“No, ma… ma forse sarebbe stato meglio,” sospirò, sapendo che non c’erano alternative, anche se la scusa di Ottavia incazzosa le sembrò improvvisamente molto allettante.


Ma dovevano parlargli per scagionare Calogiuri, e non c’era un motivo credibile per cui Mancini fosse arrivato fino a lì senza poi entrare, da raccontare a Calogiuri e ad Irene,

 

“Prego…” gli fece segno, prendendo il mazzo di rose e provando anche ad afferrare la magnum, per sicurezza, ma lui scosse il capo e proclamò con un sorriso, “è pesante. Tranquilla, la metto io sul banco-NE?”

 

Dall’esclamazione, e dal modo in cui si era bloccato all’improvviso, che tra un po’ non gli pungeva la schiena con le rose - che solo quello ci mancava! - Mancini si era evidentemente accorto di chi c’era in salotto.

 

Fu una scena surreale, quasi al rallentatore: vide la magnum cascare dalla mano di Mancini, mentre Calogiuri si alzò, con uno sguardo prima incredulo e poi di quando prometteva guai, guai seri. Irene balzò in piedi accanto a lui, con l’aria di chi non sapeva se ridere o se piangere, il tutto mentre lei urlò, cercando di buttarsi verso la bottiglia - prima di trovarsi il corridoio allagato da champagne! - le rose che caddero a terra.

 

Ma la magnum finì lo stesso sui piedi di Mancini, che lanciò un urlo, e le riuscì infine di afferrarla, prima che rimbalzasse sul pavimento.

 

E poi il rallenty si concluse, con lei in ginocchio per terra, con una bottiglia pesantissima in braccio, Mancini che continuò a lamentarsi, tenendosi i piedi, e Calogiuri che si diresse verso di loro, ma che venne bloccato da Irene, che si frappose fisicamente fra Calogiuri e lei e Mancini, piazzandosi all’ingresso del corridoio.

 

Ci fu un attimo di perfetto silenzio, in cui il procuratore capo smise con le esclamazioni di dolore e tornò dritto, rigido come un palo, ed in cui Irene lanciò un’occhiata a Calogiuri come a dirgli non fare lo scemo.

 

Ma Calogiuri stava guardando lei, solo lei, e quello sguardo tra incredulità, rabbia e delusione fu peggio che se la magnum le fosse finita direttamente sullo stomaco.

 

Era dai tempi di Lolita che quello sguardo non prometteva niente di buono, anzi, ma così deluso non l’aveva mai visto. Forse soltanto quando non lo aveva portato con sé a Matera prima e durante il divorzio, anche se in modo diverso, ovviamente.

 

E poi Irene ruppe il silenzio e l’immobilità, abbassandosi per toglierle la magnum dalle mani, raccogliendo i fiori da terra e rivolgendosi a Mancini con un “niente di rotto, spero?”, per poi, al diniego un poco incerto di lui, voltarsi verso Calogiuri e fargli un cenno che voleva passare. Quando lui si spostò, andò diretta al bancone per appoggiarci la magnum ed i fiori mezzi andati. Infine, come se nulla fosse successo, si sedette sul divano.

 

Calogiuri di nuovo si voltò a fissarla, poi lanciò uno sguardo in tralice a Mancini, che stava con la bocca ancora mezza aperta, di nuovo la guardò e le porse la mano, per aiutarla a tirarsi in piedi, visto che stava ancora in ginocchio.

 

Lei gli afferrò le dita e si lasciò aiutare, non riuscendo ad evitare una smorfia di dolore quando le ginocchia si fecero sentire con due fitte da capogiro - l’attendevano dei bei lividi, come minimo!

 

Calogiuri la sorresse e le parve preoccupato, con un “stavolta ci mettiamo subito il ghiaccio!” che la riportò dritta dritta a quando Angelo Latronico aveva tentato di sparare loro addosso nel capannone a Matera.

 

“Tranquillo, non è niente,” lo rassicurò, intenerita, ma percepì immediatamente, dalla tensione del braccio che teneva il suo e dall’ombra nell’espressione di lui, che la preoccupazione e l’emergenza erano una cosa, il fatto che fosse nero come la pece con lei e con Mancini un’altra.

 

Ma, alla fine, lui si avviò piano piano verso il divano, e lei ci si lasciò accompagnare e, quando ci si fu quasi accasciata, notò due cose: che Calogiuri continuava a fissare alternativamente bottiglia, rose e Mancini e che quest’ultimo era ancora bloccato all’ingresso.

 

“Giorgio, riesci a camminare fino a qua? Non restare lì impalato!” esclamò Irene, sempre con una nonchalance invidiabile, come se fosse tutto quanto normalissimo, un ritrovo serale come tanti altri.

 

Si chiese se fosse la scuola di recitazione, gli anni di studio come carabiniere prima e PM poi, o gli insegnamenti della sua famiglia altolocata.

 

Mancini fece un mezzo salto, come se si fosse riscosso da un’ipnosi e, seppure con un’aria un poco dolorante, fece qualche passo verso di loro, fermandosi però ad una certa distanza dal divano.


“Che significa?” chiese poi, rivolto a lei e ad Irene, sembrando ignorare o quasi Calogiuri, anche se si stava chiaramente riferendo a lui.

 

“Me lo chiedo pure io….”

 

Era stato solo un sussurro, ma l’aveva sentito forte e chiaro, come aveva percepito benissimo il tono di Calogiuri, che definire irritato e deluso sarebbe stato riduttivo.

 

Lo guardò, ma lui pareva fissare un punto sul pavimento di poco davanti a lui. Le braccia incrociate al petto.

 

Marcava malissimo, marcava!

 

“Non devi prendertela con Imma, convocarti qua è stata un’idea mia,” intervenne Irene, con un tono conciliatorio.

 

“Un’idea tua? Non sapevo che… che ora andaste così d’accordo, tutti e tre, più che altro.”


“Ci sono alcune cose che non sai e che dobbiamo raccontarti, ora che c’abbiamo le prove. Dai, siediti che ti spieghiamo,” lo invitò nuovamente Irene e se, normalmente, Imma si sarebbe incazzata tantissimo a vedere un’altra fare la padrona di casa a casa sua, in questo caso era più che grata per l’aiuto, se serviva a sciogliere un minimo la tensione e a farsi ascoltare da Mancini.

 

Il procuratore capo sospirò, poi la guardò in un modo, pure lui tra l’incredulo, il deluso ed il ferito - anche se sembrava pure parecchio imbarazzato - ed, infine, prese posto sull’ultima poltrona disponibile.

 

“Allora, che significa? Che ci fa lui qua?” chiese, in tono più composto, indicando con un cenno del capo Calogiuri, ma senza guardarlo realmente, per poi rivolgersi a lei con un’occhiata a dir poco penetrante, “mi sa che mi sono perso un po’ di cose, dottoressa.”

 

“Calogiuri è qua perché questo è il posto suo,” rispose, decisa, lanciando di rimando uno sguardo di sfida a provare a dire il contrario, e vide come Mancini si sgonfiò quasi subito, l’imbarazzo ed un’aria sofferente che presero il posto a tutto il resto, “ed è il suo posto perché mi fido di lui e perché mi ha dimostrato che posso fidarmi di lui. E mo abbiamo le prove, e non solo delle supposizioni, che lui è stato incastrato del tutto, da Melita, dall’avvocato e dalla cupola. E sappiamo pure come, ma abbiamo bisogno del suo aiuto, perché dobbiamo parlare urgentemente con Melita, che è in pericolo pure lei, anche se magari non se ne rende conto.”

 

Qualche attimo di silenzio totale e lanciò uno sguardo a Calogiuri ma lui, anche se pareva meno rigido di prima, guardava comunque verso il procuratore capo, con anch’egli un’aria quasi di sfida.

 

Forse per quello, forse per le sue parole, ma il volto di Mancini si trasfigurò di nuovo in una smorfia di rabbia.

 

“Quindi avreste fatto delle indagini, di nascosto, tutti e tre insieme?! E-”

 

“Di nuovo, la responsabilità è principalmente mia. Conosco la tua posizione, Giorgio, ma conosco anche bene Calogiuri, ed ero certa che non avrebbe mai potuto né mentire in tribunale, né tradire Imma. Abbiamo iniziato un’indagine io e lui, come tu avevi sicuramente già capito settimane fa, ma poi… anche Imma, passata la comprensibile rabbia iniziale, ha capito. E per fortuna, visto che è grazie alle sue intuizioni se abbiamo avuto le svolte che abbiamo avuto.”

 

“Oltre alle ricerche informatiche di Calogiuri, che sono state fondamentali,” precisò lei, ignorando il modo in cui Mancini la fulminò ancora di più: era pronta a vendere cara la pelle, fino in fondo, anche perché non c’era solo la sua di pelle in gioco.

 

Notò lo sguardo stupito di Calogiuri, ma, come i loro occhi si incrociarono, lui voltò di nuovo il capo e tornò a fissarsi in cagnesco con Mancini.

 

“Visto che ormai l’agguato me lo avete fatto…” pronuncio quest’ultimo, rivolgendosi soprattutto a lei e ad irene, “vi ascolto, tanto orm- AHIIII!”

 

Accanto a lei, Calogiuri fece un balzo per la sorpresa, mentre, al solo sentire l’urlo di dolore del procuratore capo… lei… altro che sorpresa!

 

Guardò verso i piedi di Mancini, temendo e sapendo già cosa ci avrebbe trovato. Ed infatti ci vide Ottavia che, chissà come, non solo era evasa dal bagno, ma gli si era avvicinata quatta quatta, tanto che non si erano accorti di lei fino all’ultimo - alla faccia dell’agguato!

 

I costosissimi pantaloni del completo erano un’altra volta ridotti a stelle filanti, il polpaccio che aveva i segni dei graffi nuovi, accanto a quelli dei precedenti, che ancora si vedevano leggermente.

 

“Ottà!” esclamò, saltando in piedi per cercare di afferrarla, ma non riuscendoci.

 

Ottavia - con un balzo che mica chiamavano felino per niente! - si gettò infatti in braccio a Mancini, iniziando a menare graffiate a destra e manca, mentre lui cercava di ripararsi non solo al viso ma pure lì.

 

“Ottà!” urlò, tentando di prenderla in braccio, ma invano, guadagnandosi pure lei una graffiata sul braccio come danno collaterale.

 

E fu allora che sentì un “Ottavia!”, secco e deciso, vicino al suo orecchio e che vide un lampo blu allungarsi verso la micia ed abbrancarla per la collottola.


Ottavia, di botto, si bloccò, come paralizzata, ed Imma si voltò verso Calogiuri che, con un’aria in apparenza severa - ma sotto sotto soddisfattissima, che non lo conosceva? - stava tirandola a sé, sempre tenendola per la collottola, rassicurandola, “tranquilla, non succede niente…” prima di guardarla dritto negli occhi e aggiungere, “se ti prendo in braccio normalmente stai tranquilla? Guarda che hai fatto alla mamma!”

 

E la voltò, sempre per la collottola, verso di lei, avvicinandola col muso al braccio graffiato. Poi se la mise nell’incavo del gomito ed Ottavia immediatamente si riebbe, guardando prima lui in un modo che, in confronto, il Gatto con gli Stivali di Shrek era un principiante e poi voltando il muso verso di lei, facendole occhioni ancora più teneri e cercando di leccarle il braccio ferito.

 

“Mi medico da sola, mo, e mi sa che non sono la sola da medicare!” la rassicurò Imma, pentendosene immediatamente quando Ottavia si girò di scatto verso Mancini e prese a soffiare, ringhiare e gonfiarsi tra le braccia di Calogiuri, fino a sembrare tre volte tanto.

 

Mancini, oltre a sembrare uscito da un servizio di moda punk, pareva terrorizzato.

 

“Ottavia!”

 

Bastò di nuovo la parola di Calogiuri perché Ottavia si fermasse e si voltasse a guardarlo, con un’aria finta angelica che manco Valentina da bimba con Pietro dopo averne combinato una delle sue.

 

“Va bene, basta così!” le disse, sedendosi insieme a lei sul divano, tenendola sempre ferma in braccio, ma facendole anche due coccole per tranquillizzarla, “vedi, siamo tutti qui tranquilli, non succede niente!”

 

“Insomma…” udì il sussurro di Mancini e poi una specie di fischio, che però non proveniva da Ottavia stavolta, ma dalle sue spalle.


Si voltò e c’era Irene che stava chiaramente cercando di trattenersi disperatamente dal ridere, ma, quando incrociò il suo sguardo, scoppiò in una risata così sonora che quasi non credeva potesse venire dalla regina del bon ton.

 

“Irene…” esclamò Mancini, ferito, e lei rise ancora di più e poi, con voce mezza rotta, gli disse, “scusami, Giorgio, ma… non ce la faccio! Dovresti vederti!”

 

E poi si rivolse a Calogiuri e ad Ottavia e aggiunse, “per fortuna con me non hai fatto così, signorina. Ma ti dovremmo reclutare: altro che i reparti speciali!”

 

Ottavia proruppe in un miagolio prolungato e soddisfatto e poi, dopo un paio di leccate a Calogiuri, fece per proiettarsi verso Irene, ma lui la trattenne, preoccupato.

 

“Dai, che io ed Ottavia ci capiamo. Vero che gli artigli per oggi li hai rinfoderati? Tanto l’orgoglio di Giorgio l’hai già distrutto abbastanza, credimi!”

 

Ed Ottavia fece un altro miagolio soddisfatto e quando Calogiuri - che palesemente stava cercando pure lui di evitare di scoppiare a ridere, ma sembrava più orgoglioso di Pietro quando Valentina lo chiamava il papà più bello del mondo - la lasciò libera, lei subito si fiondò tra le braccia della gattamorta, facendo le fusa in un modo schifosamente affettuoso.

 

“Ma come hai fatto?” le domandò Mancini, parendo ancora più distrutto, se possibile.

 

“Più che altro come non ho fatto, Giorgio,” lo punzecchiò lei, facendogli l’occhiolino ma lanciandogli poi uno sguardo molto più serio, che pareva quasi un cazziatone non verbale.

 

Mancini non rispose ma, dal modo in cui deglutì, aveva colto perfettamente ed Imma si chiese sempre di più come funzionassero le dinamiche tra lui ed Irene. Aveva capito da tempo che lui per lei fosse una specie di figura paterna ma… a quanto pareva a volte i ruoli si invertivano.

 

“Vado a prendere del disinfettante.”

 

Calogiuri.

 

Lo guardò, presa completamente in contropiede, mentre si rialzava dal divano e, dopo averle analizzato la ferita al braccio, disse, “meglio disinfettare subito, che non si sa mai.”

 

E fu il turno di lei di ricadere sul divano, osservandolo allontanarsi, sempre con quella rigidità nei passi, chiedendosi cosa sarebbe successo.

 

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“Ecco qua.”

 

L’aveva medicata in un modo accuratissimo, che manco al pronto soccorso, ma percepiva in tutto, anche nelle dita che la sfioravano, seppur delicatamente, la tensione che le faceva capire che non era comunque tutto a posto.

 

E poi per poco non si strozzò quando Calogiuri sollevò gli occhi verso Mancini e gli disse, “dottore, lo so che non si fida di me, ma… ho fatto un corso di primo soccorso. Posso medicarle almeno le ferite che sanguinano.”

 

Mancini parve mortificato e lo vide diventare nettamente più piccolo nella sua poltrona.

 

Quella sensazione di orgoglio le invase il petto, tanto forte che poteva scoppiarle.

 

Calogiuri era veramente un uomo, in tutti i sensi, anzi, un signore. E la signorilità non la davano lo champagne, il sushi ed i modi da esperto del galateo, ma il sapere esattamente come reagire in queste situazioni, come trasformare la cortesia nell’arma più letale di tutte. Certo, il primo istinto era stato magari quello di reagire diversamente ma… ma nonostante tutte le provocazioni alla fine sapeva sempre come far prevalere l’intelligenza e anche quella diplomazia che a lei mancava totalmente.

 

Tutto rimase nuovamente in sospeso per un attimo, Mancini che esitò, ma alla fine annuì, perché probabilmente sapeva di non potersi tirare indietro.

 

Calogiuri si mise al lavoro pure sul suo polpaccio e dopo sulle braccia e sull’addome. Mancini era quasi immobile, ma ogni tanto faceva una smorfia di dolore ed un lieve mugolio. Imma notò perfettamente che Calogiuri, sotto sotto, era più che soddisfatto, come notò altresì che, per carità, non è che ci stesse andando giù pesante, ma di sicuro non era delicato come lo era stato con lei.

 

Ad ogni mugolio di dolore seguiva un miagolio soddisfatto. Imma lanciò un’occhiata verso Ottavia che se ne stava spaparanzata, bella bella, a farsi coccolare e a godersi la scena, mentre Irene stava ancora fallendo nel tentativo di non sorridere.

 

“Ho finito con la medicazione. Visto lo stato dei vestiti… se vuole posso darle una delle mie tute.”

 

Mancini parve ancora più in imbarazzo ma scosse il capo con un, “non serve: ho sempre un cambio in auto e, a maggior ragione, quando vengo in questa casa.”

 

Calogiuri si rizzò in piedi, i pugni che gli si contrassero sulla bottiglia di disinfettante che aveva in mano, al punto tale che Imma temeva sarebbe esplosa.


“In che senso?” sibilò, con un tono pericoloso, guardando prima verso Mancini, ma subito dopo verso di lei.

 

“Nel senso che già ha avuto un incontro ravvicinato con Ottavia. Che non li hai visti i graffi più vecchi sulle gambe?” si affrettò a precisare lei e Calogiuri abbassò nuovamente lo sguardo, anche se ormai Mancini era mezzo fasciato ed incerottato, strinse la mascella, deglutì, ma poi annuì.

 

Ottavia, al solo nominarla, si produsse in un altro miagolio orgoglioso e poi in un rapido fischio in direzione di Mancini, con un’espressione che sembrava dire ti tengo d’occhio!

 

Il procuratore capo si schiarì la voce e poi, dopo essersi slacciato il primo bottone della camicia, chiese, “allora, quali sarebbero queste prove?”

 

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“Sorpresa!”

 

La vide fare un salto e mettersi una mano sul cuore, per poi strabuzzare gli occhi ed esclamare,  “ma sei scema?! Mi hai fatto prendere un colpo! Che ci fai qua?”

 

Non era la reazione in cui aveva sperato quando aveva deciso di prendere il treno alta velocità all’ultimo ed arrivare da lei, per aspettarla a casa.

 

Era già sera, ormai, aveva fatto tardi veramente.

 

“Se non mi vuoi qua, me ne posso pure tornare a Roma!” esclamò, ferita.

 

“Ma che sei scema davvero, Vale? Ma certo che ti voglio qua! Ma… mi hai fatto prendere un infarto, pensavo ci fossero i ladri, o peggio, in casa!”

 

Lo sguardo ed il tono di Penelope, così sinceri, la calmarono subito ed avvertì una fitta di senso di colpa. E non solo per avere dubitato.


“Scusa ma… ti volevo fare una sorpresa!”

 

“Ed è riuscita, ma magari la prossima volta sorprendimi di meno,” ironizzò, facendole l’occhiolino, per poi aggiungere, “però non mi hai ancora accolta come si deve!”

 

Non se lo fece ripetere due volte, la prese per il viso e la baciò, come erano da settimane che voleva fare, e provò, come sempre, quella specie di rimescolio che Penelope le causava. Per fortuna, perché aveva temuto che dopo Carlo….

 

“Che c’è?” le sussurrò Penelope, staccandosi di poco da lei e guardandola negli occhi.


“In che senso?”

 

“No, è che… mi sembri strana, Vale. Di solito quando ci baciamo sei più… rilassata. Ma è successo qualcosa?”

 

Le pigliò un colpo: Penelope la conosceva troppo ma troppo bene e probabilmente, pensando a Carlo, si doveva essere tesa, senza accorgersene.

 

“No, no. Ma è che… è da così tanto che non ci vediamo.”

 

“E lo so, Vale, ma ti prometto che quando arriverà l’estate e mi laureerò avrò più tempo.”

 

Sospirò: lo sapeva, ma non era facile. Anche perché pure lei aveva ormai pochi esami e poi la laurea ma… più andava avanti e meno sapeva cosa avrebbe voluto fare veramente nella vita, mentre Penelope lo sapeva perfettamente, e questo a volte un po’ glielo invidiava.

 

“Va bene. Ma adesso ci prendiamo una serata tutta per noi. Possiamo ordinare qualcosa e-”

 

L’espressione di Penelope si fece improvvisamente imbarazzata.

 

“In realtà... ho già promesso ad alcuni del corso che saremmo andati a mangiarci qualcosa ai Navigli e poi a sentire un concerto di un gruppo di uno di loro da quelle parti. Ci tiene tanto e gliel’ho promesso da settimane, anche perché è un contest e spera di vincerlo. E non voglio litigarci, che ho un sacco di lavori in gruppo con lui questo semestre. Ti dispiacerebbe se… se andassimo là? Non dovrebbe essere male come musica e possiamo stare da sole dopo il concerto e domani.”

 

“Sì, ma io domani ci sono solo la mattina, poi parto,” sospirò, delusa. Ma del resto, era lei che non l’aveva avvertita per tempo, “e va bene… ma… non so se ho un vestito adatto per un concerto.”

 

“Ed è qua che entra il gioco il vantaggio di avere una fidanzata con la tua stessa taglia e che ha un armadio pieno di cose che forse sarebbero adatte solo per un concerto, ma che si mette lo stesso tutti i giorni.”

 

Le sorrise, perché Penelope la metteva sempre di buonumore quando ci si metteva, e le diede un bacio.

 

In fondo, magari, questo concerto non era poi così male.

 

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“E questo è il filmato, dottore.”

 

Imma aveva appena finito di raccontare tutto e stava porgendo a Mancini il tablet con il filmato.

 

Come si sporse un poco verso il procuratore capo, partì una sequela di soffi dalla direzione di Ottavia.

 

Quanto era orgoglioso di lei! Orgogliosissimo! Però sapeva che ora dovevano lavorare, e quindi la guardò come a dire adesso mo basta! e lei fece un’espressione innocentissima e riprese a farsi accarezzare da Irene, che sembrava sempre più divertita.

 

Almeno lei!

 

Gli occhi gli caddero automaticamente sulla bottiglia e sulle rose, abbandonate sul bancone della cucina, e gli tornò quella rabbia che lo aveva preso non appena le aveva viste in mano a quel beccamorto.

 

Chissà che si credeva quello stronzo!

 

Ma forse, se se lo credeva, c’era un motivo, no? - gli sussurrò la vocetta interiore della sua gelosia, che aveva il tono di Irene.

 

Spiò Imma, accanto a lui, e la vide di nuovo attaccata allo schienale del divano, imbarazzata. Come sempre, Imma parve percepire il suo sguardo, i loro occhi si incrociarono. Capì che fosse dispiaciuta e gli sembrò pure un poco intimorita ed in colpa.

 

Ma quella colpa non gli piaceva per niente, mentre spostò subito l’attenzione verso Mancini, intento a guardare il video.

 

Chissà che cos’è successo veramente tra loro due? - si chiese e gli chiese nuovamente quella voce.

 

La verità era che gli faceva male anche il solo pensarlo, ed in testa gli si proiettavano scenari sempre peggiori, tra la reazione di Ottavia, la storia del cambio d’abito e come Mancini sembrava praticamente certo sul tipo di serata e soprattutto di fine serata che avrebbe passato con Imma, nonostante lei gli avesse fatto una chiamata in apparenza molto professionale.

 

Imma gli aveva solamente detto che aveva provato a lasciarsi andare con Mancini, ma non era riuscita ad arrivare fino in fondo. Ma… quanto fondo era quel fondo? Che, prima del fondo, ci potevano stare talmente tante di quelle cose che mo, a ripensarci, gli facevano andare il sangue al cervello.

 

E poi gli aveva garantito di avere messo i paletti con Mancini e invece… altro che paletti! Quello gli unici paletti che vedeva erano quelli della porta dove era convinto di poter andare a segno liberamente.

 

Scosse il capo: doveva concentrarsi sul caso, ne andava del suo futuro, della sua libertà, della sua reputazione e di tutto il maxiprocesso.

 

Per la gelosia ci sarebbe stato tempo pure dopo, fin troppo tempo.

 

“Ho visto il video,” proclamò il procuratore capo, appoggiando il tablet sul tavolino e guardando prima lui e poi Imma in un modo che gli fece ancora più rabbia, come se fossero tutti scemi, “ma non prova nulla, se non che questa Lolita ha passato un pizzino ad un pregiudicato in carcere.”

 

“Lo so che non prova niente da solo, dottore, ma Lolita e Melita già si conoscevano, erano nello stesso giro. Melita aveva l’amicizia con Calogiuri dai tempi di Maiorca e, pure se non sono uscite foto con lei, magari è da allora che l’hanno vista con noi, e se la sono tenuti buona per l’occasione giusta. Se qualcuno voleva invalidare l’accusa, l’arma migliore era rendere la verità poco credibile. Ed ormai Calogiuri si era fatto, immeritatamente,” sottolineò, guardando verso Irene e poi tornando a fissare Mancini, “la reputazione da donnaiolo. Quindi quale modo migliore per incastrarlo e far cadere la legittimità di tutta l’accusa?”

 

Da un lato gli riempiva sempre il petto di orgoglio quando Imma lo difendeva così, a spada tratta - per non parlare della soddisfazione per la reazione che questo provocava in Mancini! - ma dall’altro lato… questa difesa era arrivata tardi. E l’entrata di Mancini, conciato in quel modo, non aveva fatto altro che ricordarglielo.

 

“Dottoressa, capisco il suo ragionamento, ma è tutto molto fumoso e non c’è niente che dimostri realmente che sia andata così.”

 

“Ed è per questo che abbiamo bisogno di te, Giorgio. Perché dobbiamo avere prove definitive e sono sicura che Calogiuri non abbia mai tradito Imma, ci posso mettere la mano sul fuoco, né che sia capace di commettere un crimine.”

 

“E pure io ce la metto la mano sul fuoco, anche se ci ho messo un po’, presa dalla rabbia,” aggiunse Imma, e si sentì prendere per la mano in una forte stretta, incrociando di nuovo gli occhi di lei, che lo guardavano in un modo che alleviava un poco quella morsa allo stomaco, “mi fido di Calogiuri e non soltanto ad occhi chiusi, ma pure ad occhi aperti, apertissimi, perché mi ha dimostrato in ogni modo quanto è sincero, e so che uomo è, e che si farebbe ammazzare piuttosto che tradirmi e tradire il nostro lavoro in quel modo.”

 

Quando Imma ci si metteva, sapeva proprio come colpirlo dritto al cuore, nonostante la rabbia, e Mancini si fece nuovamente piccolo piccolo sulla poltrona.

 

“Ma che ci fa alle donne, maresciallo?” gli chiese poi, scuotendo il capo, prima di aggiungere, “come potevano sapere di Lolita e che il maresciallo aveva quei segni distintivi?”

 

“Di Lolita lo sanno diverse persone a Matera, ed è probabile che pure lei in carcere non ne abbia fatto mistero, del motivo per cui sta in galera. E Calogiuri è pieno di nei, che potesse averli pure in punti più… intimi era probabile. Avranno fatto un tentativo: in carcere a Matera i Romaniello hanno molti amici, non deve essere stato difficile contattarla e farsi dire quello che sapeva.”

 

Imma era decisa, decisissima, ancora più del solito, e Mancini sospirò di nuovo.


“Dottore, non si fida più del mio intuito? Lo sa che molto raramente mi sbaglio, pure se si tratta, come in questo caso, di vicende in cui sono coinvolta anche personalmente. E se qualcuno scopre che siamo arrivati a Lolita, anche se l’abbiamo fatto con la massima discrezione, Melita come unica persona che può smentire questa storia può essere in grave pericolo, o meglio, sono mesi che sta in grave pericolo, anche se forse non lo capisce.”

 

“La Russo non è più sotto protezione, visto che Santoro e tutti gli altri hanno ritenuto che non avesse alcuna associazione criminale da cui difendersi, ma soltanto un maresciallo con manie di grandezza. E quindi il prefetto mi ha chiesto di toglierle la scorta e non mi sono potuto opporre, anche perché la Russo stessa non la voleva.”

 

“La dobbiamo trovare, dottore, subito!” ribadì Imma, sembrandogli realmente molto preoccupata.

 

“Possiamo provare al suo ultimo domicilio, ma se non fosse lì e se dovremo far partire le ricerche… devo dare una motivazione valida.”

 

“Dobbiamo coinvolgere anche Mariani, dottore, di lei ci si può fidare. E pure Conti, nonostante la vicinanza con Santoro, è una persona affidabile.”

 

“Va bene. Partiamo dalla casa della Russo e, se non fosse lì, oltre a me e ad Irene coinvolgeremo i due marescialli e pure De Luca, se è disponibile.”

 

“Beh, pure noi possiamo-”

 

“No, dottoressa. Voi da qua non vi dovete muovere: se la trovaste voi, qualunque cosa vi dicesse sarebbe sicuramente invalidata in tribunale. Ci pensiamo noi. Dateci una lista dei luoghi che frequentava abitualmente, i locali notturni, se magari hanno delle stanze per gli ospiti….”

 

Fu il suo turno di sospirare, insieme ad Imma, ma sapeva che non c’era un’altra soluzione.

 

“Va bene, dottore, va bene. Ho fatto una lunga ricerca su dove lavorava Melita quando dovevamo prendere contatto con lei per chiederle dell’avvocato. Posso darle quell’elenco, più i nominativi di alcuni suoi amici o pseudo tali che abbiamo conosciuto io ed Imma.”

 

Mancini annuì e Calogiuri si alzò per prendere il computer e mettersi al lavoro.

 

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“Allora? Non sono bravissimi?”

 

Abbozzò un sorriso, ma lei quella specie di musica tutta grugniti - o growl come li chiamava Penelope - non la capiva proprio.

 

“Avete visto l’ultima installazione alla Triennale?”

 

“Quella su Aymonino?” chiese Penelope al compagno di corso, un certo Edoardo, che si era avvicinato con una bottiglia di birra dal nome impronunciabile.

 

“Sì, sì. L’argomento è Fedeltà al Tradimento, molto interessante, no?”

 

E lo aveva chiesto a lei, sì proprio a lei, che per poco non si strozzava.

 

Anche perché non aveva la minima idea di chi fosse sto tizio di cui parlavano, poi l’argomento, figuriamoci!


“I- immagino…” rispose, perché non sapeva che altro dire.

 

“Ma non lo conosci? Perché sei di Matera, giusto? E Aymonino ha lavorato tantissimo lì! Ha fatto il Rione Spine Bianche e Piazza del Mulino.”

 

A lei il Rione Spine Bianche e Piazza del Mulino erano sempre sembrati dei casermoni di rara bruttezza, ma magari era lei che non ci capiva niente di architettura ed arte, quindi annuì con un “ho presente, sì!”

 

Edoardo iniziò ad attaccare un papiro infinito su sto architetto e sugli stili che aveva usato, di cui lei non capiva niente.

 

L’unico motivo per cui non riusciva ad addormentarsi era il fracasso tremendo nelle orecchie, che cominciava a capire come si doveva essere sentita sua madre al concerto di Achille Lauro.


Forse non era abbastanza colta ed alternativa per gli amici di Penelope e si sentì completamente fuori luogo, come un pesce fuor d’acqua.

 

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Silenzio.

 

Quello che la circondava era il silenzio.

 

Quel silenzio che tanto aveva sempre amato con lui, quei suoi silenzi timidi, intelligenti e bellissimi, dietro ai quali si nascondeva un mondo da scoprire.

 

Ma ora l’aria era più pesante che quella di Kyoto ad agosto, in mezzo al cemento. 

 

Mancini ed Irene se n’erano andati, Ottavia dormicchiava, orgogliosa e molle, sulla poltrona appena lasciata libera dall’altra gatta, forse meno morta di quanto l’avesse sempre considerata.

 

E, quando era tornata in salotto, dopo averli accompagnati alla porta, aveva trovato Calogiuri in piedi davanti al divano, con le braccia incrociate, che guardava verso la magnum e le rose con uno sguardo che, se avesse potuto, avrebbe frantumato la prima in mille pezzi e fatto avvizzire istantaneamente le seconde.

 

Gli era sembrato leggermente meno rabbioso nell’ultima parte dell’incontro con Mancini ma… Calogiuri aveva la capa tosta e mica era così facile che gli passasse, quando stava così.


E, tutto sommato, non riusciva neanche a dargli tutti i torti, perché se si fosse trovata lei al posto suo e la cara Irene si fosse presentata in quel modo….

 

In realtà forse ci si era trovata, in passato, dopo Milano, tutte le volte che aveva dubitato, erroneamente, della fedeltà di Calogiuri, ma ora… ora era lei a doversi riguadagnare la sua fiducia.

 

E pure trovarsi in quel ruolo non era facile e piacevole, per niente.

 

Senza altre parole, andò verso il bancone, prese il mazzo di rose, un poco ciancicato, aprì la porta della pattumiera e ce le buttò dentro.

 

Sollevò lo sguardo verso di lui, che però rimase con uno sguardo indecifrabile, poi prese la magnum e disse, “questa la vogliamo buttare nel lavandino o la rimando a Mancini?”

 

“Per me puoi pure berla tutta quanta o farci il bagno dentro,” la freddò lui, secco, prima di aggiungere un, “metto in carica il computer ed il cellulare, in caso trovino Melita.”

 

Stava per dirigersi in camera da letto, quando lei d’istinto mollò la bottiglia sul bancone, con un tonfo, e lo chiamò, preoccupata, “Calogiuri!”

 

Lui si fermò e lei lo raggiunse, sempre più in ansia, perché si voltò verso di lei con un’espressione che non avrebbe saputo dire se fosse più rabbia, delusione o stanchezza.

 

E soprattutto quella le faceva paura, perché non aveva niente a che vedere con la stanchezza fisica.

 

“Che ti succede?” gli chiese, anche se in fondo lo sapeva benissimo.

 

“Che mi succede? Mi succede che mi hai fatto una testa così per tutti questi anni su pali, paletti, barriere. E io ci ho messo un po’, forse, perché sono buono - o un po’ ciuccio - ma li ho messi. Mentre qua… Mancini è chiaro che non solo ci sperava, ma che era sicuro di poter… concludere la serata con te in un certo modo. Quindi, o Mancini è matto o-”

 

“Ma li ho messi i paletti e sapessi quanti pali gli ho dato, Calogiù, ma lui non so perché non si rassegna! L’ultima volta che gli ho parlato… gli ho detto chiaramente che non provavo niente per lui e che ero ancora innamorata di te, ma non potevo certo dirgli che eravamo tornati insieme. Lui mi aveva garantito che non mi avrebbe più importunata ma, in caso avessi cambiato idea col tempo, avrebbe aspettato un mio cenno. Io gli avevo ribadito che non c’era proprio niente da aspettare ma… deve aver interpretato la mia telefonata di stasera come il famoso cenno.”

 

Calogiuri scosse il capo e non sembrò rassicurato, per niente.

 

“Ma pure se non sapeva che eravamo tornati insieme, ed aspettava un tuo segnale… qua è chiaro che il segnale per lui non era di possiamo riprendere a vederci, ma che era un via libera a tutt’altro. E, per quanto non sopporti Mancini, non mi sembra così stupido da farsi un’idea del genere senza motivo. Che è successo con lui?”

 

“Ma che vuoi che sia successo? Visto il luogo, il giorno e l’ora si sarà fatto un film nella testa e-”

 

“E immagino benissimo che genere di film. Imma, non svicolare. Che è successo veramente con Mancini? Fino a che punto siete arrivati, esattamente? Perché questa non mi pare la reazione di qualcuno che ha giusto avuto qualche bacetto, o magari pure qualcosa in più di qualche bacetto, ma-”

 

“Ma che senso avrebbe dirtelo?” gli domandò, in panico completo per quella domanda a cui sperava davvero di non dover rispondere, perché qualsiasi risposta sarebbe stata solo peggio, “perché ti devi fare del male così, Calogiuri? Non è successo niente che abbia alcun significato per me, niente di serio e-”

 

Ha senso, invece, perché la fantasia per me è peggiore della realtà, ormai, te lo garantisco.”

 

“Ma non-”

 

“Imma.”

 

Il modo in cui aveva pronunciato il suo nome, il modo perentorio in cui la fissava, senza darle scampo. Sapeva di non poter fare altro che rispondere.


Ed il peggio era che quelle tecniche le aveva imparate da lei, mannaggia a lei e a lui! Non era piacevole trovarsi dall’altra parte, affatto.

 

“Ci… ci siamo baciati, una sera soltanto, Calogiuri, è successo tutto una sola sera. E poi… avevo bevuto… e... tra quello e la rabbia, gli ho permesso di cominciare a spogliarmi e... gli ho tolto la camicia ma… quando… quando l’ho sentito slacciarmi il reggiseno e… e quando ho sentito i suoi muscoli che non erano i tuoi… mi sei venuto in mente tu e… mi sono sentita uno schifo e l’ho bloccato prima che potesse togliermelo.”

 

Le era uscito non sapeva come e vedeva Calogiuri da un lato forse impercettibilmente sollevato, ma poi gli occhi gli si riempirono di lacrime in un modo che le fece ancora più male di tutto il resto.

 

“E allora… e allora capisco perché mo sperava di arrivare fino in fondo, no? E menomale che almeno tu non hai nei di cui può raccontare agli altri.”

 

Nonostante l’ironia, era gelido, rigido, distante.

 

“Calogiuri, io-”

 

“Lo so che… che tecnicamente non stavamo insieme… e che… che eri arrabbiata con me. Ma io da quando stiamo insieme ufficialmente, e pure da prima, non ho mai toccato un’altra, mai, al massimo le ho dato un bacio, pure da ubriaco, mentre tu e lui…. Lo so che forse è stupido, e da immaturo, ma… ho bisogno di starmene da solo per un po’. Mi prendo il divano per stanotte. Se vuoi andare in camera, ti avviso se ci sono notizie.”

 

Fu come una doccia gelida, un macigno nello stomaco. No, non era proprio bello trovarsi dall’altra parte di quel muro. Ed il peggio era la civiltà con cui Calogiuri stava dicendo tutto quello, la freddezza. Avrebbe preferito mille volte sentirlo urlare, in una sfuriata delle sue.

 

“No. Tu non sei ancora del tutto in forma e non puoi dormire sul divano letto. Ci dormo io al massimo e, pure se mo stai arrabbiato, almeno su questo non voglio discussioni. Hai già trascurato troppo la tua salute, pure per colpa mia.”

 

“Non mi piace che dormi in salotto. La camera da letto è più sicura. Ed il divano letto è comodissimo.”

 

“In che senso più sicura?” gli domandò, stupita.


“Se dovesse mai entrare qualcuno… il salotto è subito di fronte. Con il lavoro che facciamo… non posso non pensarci.”

 

Le venne una botta tremenda di magone, perché lei no, non ci aveva mai pensato, e perché lui comunque metteva l’incolumità di lei prima di tutto, pure se era arrabbiato.

 

“Calogiuri, capisco che sei deluso e ferito ma… c’abbiamo pure da attendere la chiamata per capire se trovano Melita o no. Non è meglio se stiamo insieme? Il letto è grande e possiamo stare ognuno al posto suo. Siamo adulti, no? Almeno per stanotte.”

 

Lui fece un mezzo sorriso amaro.

 

“Lo sai che non funziona così, dottoressa, e che non ci riesco a stare troppo lontano da te. E… ho bisogno di stare da solo coi miei pensieri, come tu hai avuto bisogno di stare da sola con i tuoi.”

 

Non era una ripicca, non solo. Ma tutta quella calma la spaventava, anche se… era almeno sollevata di sapere di fargli comunque effetto sempre, al di là di tutto. Sapeva che non era in discussione quello che Calogiuri provava per lei ma… poteva essere in discussione molto ma molto di peggio: la fiducia.

 

Perché così rassegnato e deluso, no che non lo aveva mai visto.

 

“Allora, se succede qualcosa mi chiami: sei morto se non lo fai! Ottavia la lasciamo sulla poltrona e vediamo dove preferisce dormire?”

 

Calogiuri annuì e, in quella pace solo apparente ed in realtà ricolma di tensione, si avviò verso quella stanza da letto che aveva veramente sperato di non dover affrontare più da sola.

 

Ma almeno era con lei, sotto lo stesso tetto. E rispetto a quello che era successo a lui era già tanto, in fondo, tantissimo.

 

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“Vale, tutto bene?”

 

Spalancò gli occhi: alla fine nemmeno il death metal aveva potuto nulla, si era addormentata durante l’ennesimo discorso su un vernissage di non ricordava più quale pittore, a lei completamente sconosciuto.

 

“S- sì… scusami… ma… tra il viaggio e tutto sono un po’ stanca,” abbozzò, perché era l’unica scusa che potesse non offendere nessuno.

 

“Eh, lo vedo! Ad addormentarti con questa musica ce ne vuole. Dai, ce ne torniamo a casa?” propose Penelope e dire che la proposta la entusiasmasse sarebbe stato dire poco.

 

Si affrettò quindi ad annuire, ma quel rompiscatole di Edoardo chiese a Penelope, “allora domani proseguiamo col lavoro di gruppo?”

 

“Domani pomeriggio, domani mattina c’è Valentina,” obiettò per fortuna lei, mettendole una mano sulla spalla.


“Ma se perdiamo la mattina rimaniamo indietro e lo sai, che sull’anatomia femminile sei tu la più esperta.”

 

La voglia di dirgli e ti credo, per come sei noioso! fu straripante, ma si trattenne, prima di sembrare sua madre.

 

“Lo so ma… una mezza giornata non sposta molto, no?”

 

“Rischiamo di non finire in tempo per la consegna, dobbiamo tenerci almeno un giorno di margine, lo sai, se c’è qualcosa da rifare.”

 

Penelope sospirò e la guardò.

 

Valentina era incredula: voleva strozzare questo stronzo di Edoardo, ma anche Penelope perché non si imponeva di più? Lei che era sempre così tosta e senza peli sulla lingua.

 

E invece… la guardava come a chiederle il permesso.


E che poteva dirle di no?

 

“Sono arrivata io all’improvviso. Va bene, però mo andiamo a casa che non ce la faccio più.”

 

Si sentì stritolare in un abbraccio e Penelope era molto felice.

 

Lei assai meno.

 

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Niente, nemmeno lì, niente.

 

Uscì dall’ennesimo locale notturno, ogni passo che gli sembrò pesare di più di quando arrivava alla fine del triathlon e le gambe erano sull’orlo di cedere ma lui non mollava.

 

E non poteva mollare neanche in quel momento, anche se si sentiva a pezzi, e non solo fisicamente.

 

Si era fatto un film in testa tutto suo, si era illuso, mentre Imma… anzi forse avrebbe dovuto ricominciare a pensare a lei come alla dottoressa Tataranni… era ancora innamoratissima di quel cretino e lo sarebbe forse stata sempre. Lui le piaceva, la lusingava magari, ma niente di più. E non aveva voluto capirla, perché gli capitava raramente di innamorarsi e, quando succede, si fa di tutto per rimanere aggrappati a quell’ultimo filo di speranza.

 

Ma ormai la speranza era sepolta sotto neanche un macigno, ma un monte intero.

 

E poi quel cretino alla fine ha avuto molto coraggio. E ci ha fatto più bella figura di te!

 

La voce della sua coscienza gli ricordò fastidiosamente quella di Irene e la figura di merda epocale che aveva fatto.


Perché non poteva essere definita in altro modo.

 

Ma ora doveva pensare solo al lavoro, soltanto al lavoro, a trovare la Russo, prima che si spargesse la voce che la stavano cercando e magari ci arrivasse qualcuno prima di loro.

 

E doveva assolutamente togliersi dalla testa Imma, in qualche modo, in ogni modo, anche se non sarebbe stato facile, dovendola vedere tutti i giorni per lavoro.

 

E poi dove la trovava un’altra che potesse anche solo lontanamente paragonarsi a lei? Al suo carattere, alla sua intelligenza, a quella bellezza insolita, ma proprio per quello affascinante, che la caratterizzava.

 

Lo squillo del telefono lo fece sobbalzare. Guardò il monitor dell’impianto dell’auto.

 

Mariani.

 

“Pronto, Mariani, ci sono novità?” le chiese, perché non immaginava altro motivo per quella telefonata.

 

“Sì, dottore, l’ho… l’ho trovata.”

 

Capì immediatamente, dal tono con il quale erano state pronunciate quelle parole, che non era una bella notizia.

 

“Che è successo?”

 

“Ho… ho chiamato prima l’ambulanza e poi subito lei, dottore. Melita è… è in condizioni che… io non so se ce la farà, anche se respira flebilmente. Le stanno dando i primi soccorsi e poi la porteranno d’urgenza all’ospedale, dicono che deve essere operata.”

 

Merda.

 

“Ma… ma che le è successo? Che tipo di ferite?”

 

“L’hanno praticamente massacrata di botte, dottore: se non avesse avuto i tatuaggi… quasi non si riconosceva.”

 

Merda! Quei bastardi!

 

“Mariani, mi dia la sua posizione.”

 

“Sono nel locale dove Melita ha rincontrato per la prima volta la dottoressa Tataranni e il maresciallo. Quello in stile inglese. Le mando l’indirizzo e-”

 

“Non serve, Mariani, ho presente, ma-”

 

“Ma probabilmente è un segnale, dottore. Ed un modo per tirare dentro Calogiuri.”

 

“Arrivo subito, mi aspetti lì, Mariani.”

 

“Devo dare la notizia agli altri, dottore? Posso chiamare la dottoressa Ferrari e-”

 

“No, la sento io la Ferrari: mando lei in ospedale. Lei mi aspetti lì, Mariani, visto che è stata la prima ad intervenire. E, per quanto riguarda la dottoressa ed il maresciallo, li avvertiremo solo una volta che avremo chiara la situazione. Non che facciano colpi di testa, lei capirà benissimo che devono stare il più lontano possibile da quella scena del crimine.”

 

“Va bene, dottore, ai comandi! La aspetto!”

 

“Dieci minuti e sarò lì!”

 

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“Vado prima io in bagno o vuoi andarci tu?”

 

“Vai pure prima tu, Vale, che lo vedo che sei stanca.”

 

Valentina sospirò ed annuì: non era soltanto stanca fisicamente, ma pure mentalmente, dopo quella serata tremenda.

 

Si fece una doccia rapida, si lavò i denti e poi tornò in camera.

 

E trovò Penelope nel letto.

 

Addormentata.

 

Sapeva che aveva avuto una settimana tremenda ed aveva lavorato anche tutto quel giorno, ma un’ondata di delusione e quasi di rabbia la assalì.

 

Era tentata di svegliarla, ma a che sarebbe servito?

 

Si infilò nel letto accanto a lei, ma sotto la coperta, spense la luce e, cercando di trattenere la voglia di piangere, provò a dormire, cosa che, dopo quella serata disastrosa, non le fu difficile.

 

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Sbarrò gli occhi, guardando verso la sveglia sul comodino.

 

Niente: erano le tre di notte ed il sonno proprio non ne voleva sapere di arrivare.

 

Vide il cuscino vuoto dal lato di Calogiuri. Sentì una fitta al petto ed un magone alla gola. Non era più abituata a dormire da sola, poi mo solissima proprio, perché Ottavia non l'aveva raggiunta.

 

Forse era rimasta addormentata sulla poltrona, dopo l’effetto sonnifero della gattamorta.

 

Sapeva che l’idea di dormire era un miraggio.

 

Con un sospiro, d’istinto, si alzò di scatto, si infilò ciabatte e vestaglia che faceva freddo e si avviò verso il salotto.

 

Piano, pianissimo, più che poteva - che non era proprio il suo forte - percorse il corridoio, fino ad intravedere la figura che protrudeva dal divano letto.

 

Il magone le peggiorò e rimase a fissarla come ipnotizzata, perché non solo c’era Calogiuri, mezzo rannicchiato, che quasi pareva un bimbo, gli occhi chiusi ed un braccio che penzolava giù dal divano, ma, all’altezza del suo addome, si distingueva pure un’altra silhouette pulsante.

 

Ottavia.

 

Non sapeva se essere offesa da questo tradimento e di essere stata, per l’ennesima volta, spreferita a papà da una creatura, o se commuoversi, perché Ottavia sembrava da un lato proteggerlo e dall’altro inchiodarlo al letto, come per accertarsi che non andasse via.

 

Quanto li amava, tutti e due! Però con Calogiuri aveva sbagliato e molto: non gli aveva dato fiducia ed aveva tirato tanto la corda. Ed ora temeva sempre di più che la corda, anzi, quel filo sottile ma resistentissimo, quasi indistruttibile, che li aveva sempre uniti, si stesse per rompere del tutto.

 

Una mano si mosse, istintivamente, tentata di accarezzargli i capelli, ma si bloccò appena in tempo e virò su Ottavia, dandole una rapida grattatina.

 

La micia spalancò un solo occhio e la fissò, con uno sguardo che sembrava quasi dirle tu hai fatto sto casino e mo tu rimedi, subito!

 

A volte si chiedeva se sul serio Ottavia non fosse, alla fine, più intelligente di tutti loro messi insieme.

 

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“Mariani. Che è successo? La Russo?”

 

“L’hanno appena portata via, dottore: sembra che siano riusciti a stabilizzarla quanto basta per il tragitto verso l’ospedale.”

 

Si guardò intorno, in quella stanza dal letto circolare, che pareva uscita da un boudoir, e notò la macchia di sangue sul pavimento ed alcune che punteggiavano la parete rosa.

 

Gli agenti della scientifica erano impegnati nei rilievi.


“Si sa qualcosa di più sulla dinamica dei fatti? In che condizioni era la vittima?”

 

“Ho fatto delle foto, dottore, guardi lei stesso.”

 

Le immagini di quella ragazza una volta bellissima, col volto completamente tumefatto ed il corpo pieno di lividi, scattate evidentemente mentre i paramedici l’assistevano, gli fece mancare un attimo il fiato: era abituato alla violenza, ma chiunque fosse stato, era stato davvero brutale.

 

“Una brutalità tremenda, dottore,” proclamò Mariani, accanto a lui, “e questo, purtroppo, farà sembrare il crimine personale. Molto personale. Di questo caso si occuperà Santoro o la Ferrari?”

 

Sospirò: Mariani era sveglia, sveglissima, ed aveva già capito perfettamente come rischiavano di andare le cose.

 

“A logica Santoro, Mariani. Ma… vedremo….”

 

La verità era che avrebbe dovuto valutare molto ma molto bene i rischi e i benefici di ogni opzione, perché c’era in gioco la credibilità di tutta la procura.

 

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Si sforzò di tenere gli occhi chiusi, anche se la tentazione di aprirli era fortissima.

 

Il sonno non ne aveva voluto sapere di arrivare, anche perché qualcuna gli si era praticamente gettata sulla pancia, che gli sembrava di avere una borsa dell’acqua calda, di quelle che sua madre gli dava da bambino quando stava poco bene.

 

Era proprio nel dormiveglia che aveva sentito dei passi, inconfondibili, anche se alleggeriti dalle ciabatte di tessuto, e che l’aveva intravista, tra le ciglia socchiuse.

 

Si era imposto di non farla avvedere che fosse sveglio, perché la verità era che non era pronto ad affrontarla ed aveva bisogno di riflettere davvero, seriamente, senza farsi condizionare da quello che lei gli suscitava. E non soltanto l’attrazione, ma il fatto che quando l’aveva vicino… tutto il resto passava sempre in secondo piano.

 

Ma stavolta no: stavolta c’erano troppe cose che gli facevano male e che aveva bisogno di digerire, da solo.

 

Ma lei glielo voleva proprio rendere difficile, perché l’aveva sentita avvicinarsi a lui, non solo per i passi, ma perché ne avvertiva la presenza nell’aria. E poi aveva percepito la carezza che aveva fatto ad Ottavia, come se l’avesse fatta a lui.

 

L’istinto di aprire gli occhi, tirarla sé ed abbracciarla fu intensissimo.

 

Ma la visione di Mancini, tutto tronfio con le rose ed il vino e, soprattutto, le immagini mentali che gli arrivavano, di Imma e lui quasi nudi, a casa di quel maiale, prevalevano su tutto il resto.


Sperava soltanto che Imma tornasse presto a letto, anche se, da un lato, quella presenza silenziosa sembrava accarezzarlo. Ma, se normalmente ci si sarebbe beato in quelle carezze, ora si sentiva come se avesse ogni nervo scoperto, sensibilissimo, e gli era quasi insopportabile, pure se gli scaldava il cuore.

 

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“Che ci fai qua?”

 

Si voltò di scatto e, purtroppo, non si era sbagliata: era Santoro, in tutta la sua insopportabile supponenza.

 

“Mi ha detto il dottor Mancini di venire qua, visto che Melita è una testimone chiave anche del maxiprocesso.”

 

Santoro parve preso in contropiede.

 

“Pensavo che fosse chiaro a Mancini che non dovessi più avere contatti con la Russo.”

 

“Vista la tua gestione della Russo e a cosa hanno portato le tue decisioni? Ne dubito,” rispose, perché con Santoro la diplomazia era inutile ed avrebbe lottato con le unghie e con i denti con Mancini per avere assegnato a lei quel caso.

 

E non solo perché Santoro aveva già il nome del suo colpevole scritto in faccia, senza nemmeno sapere nulla, come dimostrato dal suo, “le mie decisioni? Non pensavo l’amichetto tuo arrivasse a tanto!”

 

“Calogiuri non è l’amichetto mio e non hai la minima idea di come siano andate le cose. E se davvero pensi che sarebbe capace di ridurre una donna così...” rispose, lanciando un’occhiata a Melita, da dietro il vetro della terapia intensiva.

 

Stavano ultimando gli ultimi esami prima di un intervento d’urgenza. Il medico aveva detto che avrebbe sicuramente perso un rene, che pure l’intestino poteva essere compromesso, e che, soprattutto, dovevano assolutamente cercare di ridurre l’emorragia cerebrale in corso.

 

Se fosse sopravvissuta, le possibilità che tornasse ad una vita autosufficiente erano molto poche, ma anche solo che non rimanesse in uno stato vegetativo. Ed avrebbero dovuto farle un intervento di ricostruzione del naso e della mascella per consentirle respirazione e masticazioni normali.

 

Ne aveva viste di vittime ridotte male, ma Melita era forse quella ridotta peggio in assoluto tra quelle sopravvissute, cosa che era già un miracolo di per sé. Ma non era affatto detto che fosse una benedizione, anzi.

 

“Il maresciallo è un violento. Non dirmi che hai creduto alla storia della palla da tennis di Mancini! E Melita lo ha denunciato e quindi….”

 

“Se avessi studiato un minimo di psicologia, sapresti pure tu che Calogiuri, tra tutti gli agenti che abbiamo, è il meno violento, a parte Mariani. E quindi secondo te, dopo settimane e settimane dalla denuncia, e senza novità rilevanti, Calogiuri avrebbe tentato di uccidere Melita, giusto per attirare tutti i sospetti su di sé? Non solo non ha senso e non aveva nessun interesse a farlo, ma perché non farlo prima allora, se doveva essere il raptus di un uomo violento?”

 

“La verità è che voi vi fate tutte incantare dal fatto che è giovane e bello. Ma per fortuna a me non la fa e anche Mancini non lo sopporta. Vedremo a chi assegnerà il caso e a chi darà ragione!”

 

“Forse a chi ha prove concrete di quanto asserisce, invece di sparare nel mucchio?”

 

“Mi sembri la dottoressa Tataranni. Ti facevo più professionale e meno stupida.”

 

“Potrei dire lo stesso di te,” gli rispose, e poi, per fortuna, arrivò un medico facendo cenno ad entrambi di far silenzio mentre, dietro al vetro, due infermieri portavano via Melita, verso la sala operatoria.

 

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“Irene?”

 

“Giorgio, finalmente! Qua c’è Santoro che fa il bello ed il cattivo tempo: è convinto che avrà lui il caso e-”

 

“E lo avrà, almeno per ora.”

 

Fu come una doccia gelida, mentre le montava l’indignazione: non ci poteva credere, non ci poteva credere!

 

“Cosa?! Giorgio, lo sai benissimo che Santoro è già convinto che Calogiuri sia colpevole. Ci va a nozze, con l’indagine che già ha aperto nei suoi confronti e-”

 

“Lo so, Irene, lo so, ma-”

 

“E poi lo sai benissimo che Calogiuri non è colpevole: eravamo insieme quando è avvenuta l’aggressione e-”

 

“Appunto, Irene, appunto. Eravamo tutti insieme, tutti. Tranne Santoro.”

 

Rimase per un attimo a bocca spalancata, avendo capito perfettamente dove volesse andare a parare Giorgio, ma una parte di lei non ci voleva credere.


“Lo sai anche tu che non c’è un’alternativa, Irene. Lo so che hai capito.”

 

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La telefonata la fece scattare sul materasso: era tornata a letto da poco, dopo essere rimasta per un tempo indefinibile a controllare Calogiuri ed il suo sonno, che pareva però tranquillo, quasi fin troppo.

 

Si era arresa a tornarsene in camera quando la tentazione di svegliarlo con un abbraccio stava per diventare irresistibile.

 

E mo sto squillo infernale, che non prometteva niente di buono.

 

Irene.

 

Erano ormai quasi le cinque di mattina - ma quanto tempo era stata a guardare Calogiuri dormire? - e sperava che fossero buone notizie, ma c’era qualcosa che le si torceva dentro, che le faceva capire che difficilmente sarebbe stato così.

 

“Pronto?”

 

“Imma. Abbiamo poco tempo. Abbiamo trovato Melita, massacrata di botte. La stanno operando e… non so se ce la farà e, pure se ce la farà, è difficile che riprenda coscienza del tutto. Mancini ha deciso per il momento di affidare il caso a Santoro. Stanno per venire a prendere Calogiuri per interrogarlo.”

 

Un pugno gelido le strinse il cuore, ancora prima che Irene aggiungesse, “l’aggressione è avvenuta molto probabilmente quando con Calogiuri c’ero anche io, oltre a te, ma non Mancini. Ma… Mancini vuole che per ora non diciate nulla del nostro incontro, Imma.”

 

“Ma… ma è l’alibi di Calogiuri e-”

 

“Lo so, Imma, lo so, ma-”

 

“E il mio di alibi non varrà nulla, e già lo sai e-”

 

“E vuoi che ci esautorino tutti dal caso, tranne Santoro? Cercherò in ogni modo di farmi assegnare il caso Imma, te lo prometto, ma se tutti ci schieriamo come alibi di Calogiuri-”

 

“Sembrerà che vogliamo coprirlo per salvare la faccia della procura?” sospirò, perché, effettivamente, sapeva che per i giornali sarebbe stato così.

 

“Esatto, Imma. E, pure se riuscissimo ad evitare le accuse a Calogiuri, resterà per sempre il dubbio che sia stato tutto insabbiato e la sua reputazione non ne uscirà mai pulita. Dobbiamo scagionarlo del tutto, da tutte le accuse, ma non possiamo farlo se siamo tutti esautorati dal caso e se ci tolgono il maxi processo.”

 

Aveva ragione, lo sapeva che aveva ragione, ma-


“Imma, lo so che non hai molta stima di me, ma… fidati di me e di Giorgio. Lo conosco bene e… per quanto non ami Calogiuri ed in alcuni momenti non sia stato professionale - e si sia reso pure parecchio ridicolo - si è impegnato con me ad aiutarci a scagionarlo. E quando prende un impegno, Giorgio lo mantiene, sempre.”

 

“Al momento mi fido più di te che di lui e-”

 

“Ed è tutto dire?”

 

Le venne da sorridere, nonostante la situazione: alla fine la cara Irene, quando non ci provava con Calogiuri, in fondo, non era poi così male.

 

“Spiegherò tutto a Calogiuri, anche perché abbiamo poco tempo, ma… sta a lui decidere, ovviamente, visto che c’è la sua di vita in ballo.”

 

“Va bene. Ma ho preferito chiamare te, perché… so che conosci, anche se non condividi, certi meccanismi meglio di quanto possa farlo Calogiuri.”

 

“Ne parlo a lui e… saprete com’è andata quando arriverà in procura. Ma se provate a fregarci-”

 

“Lo so, Imma, lo so. Ma tu lo dovresti sapere quanto tengo a lui, no? Fidati almeno di questo!”

 

E le toccò ammettere che era vero: la gattamorta aveva sempre protetto Calogiuri con le unghie e con i denti, peggio di Ottavia.

 

Chiuse la chiamata, il cellulare che le sembrò pesare più del suo primo telefono in assoluto, uno di quei portatili inizio anni duemila, che di portatile non avevano niente, e che le avevano assegnato per via del suo incarico - che lei col cavolo che avrebbe speso soldi, per essere poi rintracciabile e scocciabile, oltretutto!

 

Si alzò di forza dal letto, considerò la possibilità di rivestirsi - ma no, non potevano far capire che fossero stati avvertiti! - si infilò la vestaglia e si costrinse a non correre verso il divano letto, perché non doveva sembrargli insicura o spaventata.

 

Doveva fargli coraggio lei mo.

 

Lo vide, ancora addormentato, Ottavia che ormai praticamente ci aveva fatto la cuccia sulla sua pancia, e decise il da farsi.

 

La accarezzò, ma meno delicatamente di prima, finché non aprì di nuovo una palpebra.


“Ottà, devo parlare con papà,” le sussurrò, facendole cenno verso il pavimento.

 

Ottavia fece un’espressione strana, ma poi, dopo averla inchiodata con un’occhiata intensissima, si stiracchiò leggermente e, con la sua regale felinità, balzò a terra.

 

E mo arrivava il momento più difficile.


“Calogiuri, Calogiuri…” lo chiamò, cedendo alla fine all’impulso e toccandogli una spalla, mentre gli accarezzava i capelli con l’altra, “Calogiù, ti devi svegliare, è urgente!”

 

Alla fine, lo vide aprire gli occhi azzurri e sonnacchiosi: le sembrò quasi un bimbo indifeso e le si strinse il cuore.

 

Ma poi, lo sguardo gli si fece più duro, e si scostò leggermente dal suo tocco, mettendosi a sedere, serissimo.

 

Altro che bimbo! Un uomo era, e pure dalla capa tosta, tostissima.

 

“Che succede?” le chiese, stropicciandosi per un attimo gli occhi, prima di bloccarsi e domandarle, “Melita?”

 

“L’hanno trovata, Calogiù,” disse, e bastò uno sguardo per capirsi.

 

“Morta?”

 

“No, ma quasi. L’hanno riempita di botte, è in condizioni critiche all’ospedale, la stanno operando. Non sanno se ce la farà e… pure se ce la facesse….”

 

Calò il silenzio, non serviva dire altro. Lo sapevano entrambi cosa significava.

 

“Stanno arrivando, vero?”

 

Il modo in cui glielo aveva chiesto, rassegnato, era peggio di un pugno allo stomaco.

 

“Sì, ma solamente per interrogarti. Irene mi ha avvisato che Mancini ha assegnato il caso a Santoro e-”

 

“Quello stronzo mi vuole far finire in galera, Imma! E ci sta riuscendo! Altro che aiuto!”

 

“Irene mi ha detto di no, che le ha promesso che ti aiuterà, e-”

 

“E tu gli credi?”

 

“No, ma Irene gli crede e… e lo conosce meglio di tutti noi. E lo sai che sta facendo di tutto per scagionarti.”

 

“Almeno lei…” lo sentì sussurrare e fu un altro cazzotto, ma per ragioni diverse.

 

“Ascoltami. Mi ha detto che… che non devono sapere che noi sappiamo e che… che quando Melita è stata aggredita qua con noi c’erano anche lei e Mancini.”

 

“Che cosa?!”

 

“Ti fornirò io un alibi, Calogiuri, ma-”

 

“Ma il tuo alibi non vale niente, dottoressa, lo sai! Mancini sta provando a fregarci e-”

 

“Calogiuri. Se ti fornisco un alibi, e te lo fornirò, verrò sospesa, sicuramente, o chiederò di nuovo aspettativa. Ma se te lo fornissimo tutti e dicessimo che ci stavamo incontrando in segreto…”

 

“Ho capito…” sospirò lui, e sapeva con certezza, dal modo in cui deglutiva, dallo sguardo angosciato che aveva negli occhi, che aveva veramente capito tutto, “l’alibi di tutti voi varrebbe ancora meno, vero?”

 

“Calogiù-”

 

“Capisco che vuoi dire, Imma, ma io sono ancora convinto che Mancini se ne approfitterà, per cercare di fregarmi. Lo so, me lo sento. Pure se tu ed Irene-”

 

“Non lo permetterò, Calogiuri. Lo so che… che ti ho lasciato solo, per troppo tempo, ma… lotterò fino all’ultimo per scagionarti. Stiamo sulla strada giusta, dobbiamo capire chi… chi ha passato le informazioni a quelli che hanno fatto questo a Melita. Vedrai che ce la faremo, te lo prometto!” lo rassicurò, anche se pure lei si sentiva tutto tranne che sicura, ma doveva farsi vedere forte per lui.

 

“Imma… ti ricordi cosa mi avevi promesso, tanti anni fa?”

 

“Che cosa?” gli domandò, presa in contropiede.

 

“Che non mi avresti mai fatto promesse che non eri certa di poter mantenere.”

 

La disperazione nello sguardo e nella voce non se la sarebbe mai scordata. Ed un impulso le prese, irresistibile, pure più di quelli che una volta la prendevano in presenza di Calogiuri. Gli buttò le braccia al collo e lo strinse più forte che poteva.

 

Lui si irrigidì, e le fece malissimo, ma non era il momento di pensare a se stessa.

 

“Allora ti prometto questo, Calogiù: non ti mollo, qualsiasi cosa succeda non ti mollo più. E lo sai che quando prometto qualcosa vado fino in fondo, che la capa tosta quella non me la leva nessuno. E non devi mollare neanche tu, chiaro?”

 

Percepì nel petto il singhiozzo di Calogiuri ancora prima di udirlo. E poi le si sciolse tra le braccia, letteralmente, ricambiando la stretta tra le lacrime.

 

Per un secondo, nonostante tutto quello che stava accadendo, provò una strana pace dentro.

 

Ma proprio in quel momento suonò il campanello.

 

Maledizione!

 

Suonò una seconda e una terza volta, seguito da un bussare incessante.

 

“Carminati…” sospirò Calogiuri, e sentì la stretta allentarsi e poi lasciarla, lui che la spingeva delicatamente per le spalle per allontanarla.

 

Lo guardò, ma teneva gli occhi bassi, di nuovo quella maschera rigida sul volto, nonostante fosse bagnato dalle lacrime.

 

“Devi asciugarti, Calogiù. Vado io a rispondere.”

 

“No. Non ti lascerei mai rispondere alla porta a quest’ora, dottoressa. Vado io: è meglio così.”

 

E di nuovo altre scampanellate ed il bussare sembrava una carica di gnu.

 

“Aprite, carabinieri!”

 

Sì, era proprio Carminati. E ci mancava solo che svegliasse tutto il palazzo, ci mancava!

 

“Arrivo! Sto arrivando!” urlò lui, fortissimo, alzandosi dal letto, in maglietta bianca e pantaloni della tuta, mentre si asciugava rapidamente il viso con le mani.

 

Una parte di lei avrebbe voluto che non arrivasse mai a quella porta, ma sapeva che era inevitabile.

 

Sperava veramente che, con tutto quello che aveva imparato in quegli anni insieme, non si facesse fregare durante l’interrogatorio di Santoro.

 

Fece per raggiungerlo, ma lui le fece segno con la mano di fermarsi, all’inizio del corridoio.

 

E poi aprì, il cigolio della porta che le parve un boato.

 

Subito ci si infilò un piede, e poi intravide la faccia suina di Carminati.

 

Fosse stata un’altra circostanza gli avrebbe contestato la violazione di domicilio, ma non poteva.


“Calogiuri Ippazio, ci deve seguire, subito!” proclamò tutto impettito quel maiale, con l’aria di chi ci stava godendo tantissimo - e del resto giusto quel tipo di godimenti poteva permettersi!

 

Quasi come se avesse sentito il suo pensiero, si voltò verso di lei e le lanciò uno sguardo che definire lascivo sarebbe stato un eufemismo.

 

Del resto aveva ancora la camicia da notte e la vestaglia leopardate, non cortissime ma ben sopra al ginocchio.

 

Come in un lampo, vide lo sguardo di rabbia di Calogiuri e si affrettò, prima che facesse qualche idiozia, a interromperli con un, “Carminati, cos’è questa storia?”

 

“Non posso riferirle nulla, dottoressa,” le rispose, con l’aria di chi ci stava godendo doppiamente, “Calogiuri, mi deve seguire subito. E dovrò riferire naturalmente che si trovava qua, dottoressa. Per fortuna il receptionist dell’hotel dove sapevamo che soggiornava, se la ricordava benissimo, chissà come mai!”

 

“E riferisca pure, Carminati! Qua non c’abbiamo niente da nascondere!”

 

“No, infatti.”

 

Il modo in cui vennero pronunciate quelle due parole, seguite da uno sguardo dal basso verso l’alto, le fece venire un moto di nausea.

 

Vide i pugni di Calogiuri contrarsi e gli lanciò un’occhiata come a dire manco per sogno! Stai calmo!

 

Per fortuna, lui capì e fece palesemente uno sforzo per calmarsi.

 

“Allora, andiamo?” chiese anzi Calogiuri a Carminati, che rimase sorpreso.

 

“Magari prima mettiti qualcosa di più pesante, Calogiuri, che fuori fa freddo. Immagino che debba soltanto interrogarlo, Carminati, visto che non sta esibendo alcun mandato di arresto, e che quindi possa prendersi qualche minuto per rivestirsi.”

 

Il maialetto - in tutti i sensi - si limitò ad annuire e non potè controbattere, primo perché quella che stava dicendo era soltanto la verità, secondo perché di procedura penale ne aveva, in ogni caso, capito sempre pochissimo.

 

Avrebbe voluto seguire Calogiuri fino in camera e lui le fece cenno di accompagnarlo, per non lasciarla da sola con Carminati, ma lei scosse il capo: non si sarebbe mossa di lì, col cavolo che dava a Carminati libero accesso alla casa!

 

Calogiuri infine si rassegnò, sapendo che non avrebbe cambiato idea. Passò qualche minuto interminabile con lei ferma come un gendarme al suo posto, mentre quello schifoso la guardava, che manco fosse stata una di quelle brioche di cui amava ingozzarsi a tutte le ore.

 

Percepì un solletico alle caviglie e vide Ottavia, che gliele circondava, e che iniziò a sollevare pelo e coda verso Carminati.

 

Stava per abbassarsi per prenderla in braccio, prima che facesse casino, quando udì i passi di Calogiuri, stranamente decisi e veloci, che la raggiunsero e le passarono oltre.

 

“Andiamo,” disse a Carminati, deciso, lanciandole soltanto un’ultima occhiata.

 

Il problema era che, oltre alla decisione, ci leggeva pure una rassegnazione che no, non andava affatto bene.

 

Carminati lo afferrò per un braccio, per tirarlo fuori dalla porta, ed emerse pure un altro braccio, quello di Rosati, che evidentemente se ne era stato di guardia fuori dalla soglia per tutto il tempo.

 

Ma, come fecero per strattonare Calogiuri, udì un fischio assordante e, nel giro di due secondi, un urlo lancinante.

 

Carminati si scrollava il braccio, dove si era aggrappata Ottavia, che lo stava mordendo e graffiando allo stesso tempo.

 

“Maledetta schifosa!” lo sentì urlare e lo vide che sollevava l’altro braccio, per darle un pugno.

 

Ma il pugno venne bloccato dalla mano di Calogiuri e lo vide fare una smorfia di dolore.

 

Una volta non sarebbe successo, ci sarebbe riuscito tranquillamente.

 

“Vengo con voi, ma non vi azzardate a toccarla!” sibilò, in un modo che la rese ancora più orgogliosa di lui di quanto già fosse.

 

Si affrettò a raggiungerli e prese Ottavia per la collottola, come le aveva insegnato lui.

 

“Buona, Ottà. Papà va solo a parlare con questi signori ma torna presto.”

 

“Io non ci giurerei,” ribatté il maiale, ma, dopo una sua occhiataccia e dopo avergli piazzato Ottavia davanti alla faccia, ebbe il buon senso di rimanere zitto.

 

E così, con un’ultimo sguardo, Calogiuri sparì oltre la porta, accompagnato dai due ex colleghi, che richiusero il legno con violenza, quasi a spregio.

 

“Mi prometti che te ne stai calma se ti lascio andare?” chiese ad Ottavia, pure se si sentiva morire dentro, ma non voleva che si facesse male.

 

Ottavia la guardò con quegli occhi spalancati ed Imma con un sospiro la prese in braccio e le mollò la collottola.

 

Ma, come lo fece, Ottavia saltò giù e si lanciò verso la porta, iniziando a graffiarla disperatamente.

 

Avrebbe così tanto voluto farlo pure lei, ma le toccò di nuovo afferrarla per la nuca e portarla via di lì, prima che si distruggesse gli artigli, mentre cercava di rassicurarla con un “papà torna presto!” che sperava vivamente non fosse l’ennesima promessa che non avrebbe potuto mantenere.


Nota dell’autrice: E finalmente ce l’ho fatta! Mi scuso moltissimo per il ritardo ma sono state settimane piene di impegni imprevisti che non mi hanno consentito di scrivere. Spero che il capitolo abbia ripagato le attese.

Imma e Calogiuri stanno affrontando la prova più difficile, sia a livello di coppia che a livello legale e professionale. Non sarà facile arrivare alla verità ed alle prove per scagionare Calogiuri, e bisognerà capire cos’hanno in mente Mancini e Irene, oltre che Santoro. Nei prossimi capitoli ci sarà tanto giallo e tanto rosa, mentre ci avviamo sempre di più verso le parti finali di questa storia.

Grazie mille per avermi seguita fin qui, per il vostro supporto costante. Un grazie in particolare a chi ha messo la mia storia tra i seguiti o i preferiti.

Le vostre recensioni mi sono sempre preziosissime per capire come sta andando la scrittura e cosa vi convince e cosa no, quindi grazie di cuore fin da ora se vorrete farmi sapere che ne pensate.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare tra due settimane, domenica 11 luglio. In caso di ritardi vi avviserò come sempre nella bio qua in pagina.

Grazie mille!

 
   
 
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