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Autore: Carme93    28/06/2021    5 recensioni
Takuya incontra Akari il primo giorno di liceo e si incanta davanti ai suoi occhi.
Scopriranno quanto, a volte, è difficile amarsi.
[Questa storia si è classificata quinta al contest "Evocami col mio nome, ti svelerò i miei segreti" indetto da Setsy&Mystery_koopa sul forum di EFP].
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Domani soffierà il vento di domani
 
 
Il cielo era terso e un lieve venticello scuoteva le fronde degli alberi del cortile. Un paesaggio idilliaco insomma, mancavano soltanto gli usignoli che cinguettavano felici.  Peccato che dovessero accontentarsi della voce stridula e rigida di sensei Watanabe, il loro insegnante d’inglese.
Avrebbe potuto benissimo essere l’inizio di un manga, qualcosa alla The promised Neverland: il sensei si sarebbe potuto trasformare da un momento all’altro in un demone divora studenti e non solo lui.
Trattenne a stento uno sbadiglio: quel giorno la lezione sembrava non voler più finire, ma non era il caso di attirare l’attenzione del dem- sensei su di lui. Quasi rise da solo a quel nomignolo che non avrebbe mai avuto il coraggio di condividere con qualcuno.  Figuriamoci, di chi mai si sarebbe dovuto fidare in quella scuola di élite? In effetti, gli veniva in mente quel manga che…
«Matsuda».
Il grido inferocito rimbombò nell’aula e il ragazzo sobbalzò, facendo cadere i quaderni dal banco. Non fece in tempo a piegarsi e a recuperare i disegni che erano scivolati fuori a tradimento, che un piede glielo impedì. Un piede protetto da un elegante scarpa di cuoio, che doveva essere costato una fortuna… o l’intero stipendio di un insegnante.
Deglutì e si raddrizzò.
«Allora» scandì il professore chinandosi e artigliando i poveri disegni. «è questo che fai, invece, di seguire la lezione? E a questo che dedichi il tuo tempo invece di studiare?». Sventolò i fogli e poi, sotto lo sguardo sgomento del ragazzo, cominciò a sfogliare il quadernino.
«S-stavo seguendo» balbettò, ma si zittì immediatamente alla sua occhiataccia.
«Non osare contraddirmi».
Non voleva contraddirlo, ma solo spiegargli come stavano le cose. Evidentemente a lui non interessava.
«Forse non hai capito che scuola è questa».
Oh, sì che l’aveva capito.
«Qui si forgiano coloro che guideranno il paese, non i mangaka». Pronunciò l’ultima parola con disprezzo.
«Lo so, sensei» mormorò fissando il banco.
«Non credo. Fuori da qui».
Dopo un attimo di titubanza, il ragazzo si alzò e obbedì.
Se la lezione di inglese era noiosa, trascorrere il resto dell’ora nel corridoio sollevando due secchi pieni d’acqua fu ancora peggio. E soprattutto umiliante.
Al suono della campanella, però, non ebbe modo di tirare un sospiro di sollievo, perché Watanabe lo trascinò nella sala professori per un ulteriore lavata di capo. Avrebbe voluto urlargli che erano solo degli stupidi disegni, che lui non sarebbe mai diventato un mangaka e che lui avrebbe dovuto diventare un avvocato o un medico. Così i sacrifici di sua madre sarebbero stati ripagati.
Nel cortile individuò subito i compagni che, naturalmente, lo sbeffeggiavano per la figuraccia ridevano, così tornò all’interno dell’edificio. Non mancava molto alla fine dell’intervallo, così salì velocemente le scale per raggiungere la terrazza. Magari sarebbe stata ancora lì.
Aprì la porta palpitando. Eccola.
«Sei tu. Mi hai fatto spaventare».
Le sorrise stupidamente e rendendosi conto si scusò.
«Hai avuto una mattinata difficile, Takuya».
«Già». Le si avvicinò: sicuramente ne era al corrente tutta la scuola ormai. Quando si trattava di sensei Watanabe le chiacchiere giravano più in fretta. 
«Hai proprio bisogno di un abbraccio».
Takuya sentì un brivido percorrergli la schiena quando lei lo circondò con le sue braccia. «Ti voglio bene, Akari. Sei la cosa migliore di questa scuola» mormorò sinceramente.
Il viso della ragazza si oscurò per un momento, ma Takuya non lo vide.
L’aveva conosciuta il primo giorno di scuola, probabilmente non avrebbe mai scordato quel momento.
 
Era in ritardo, naturalmente. Il primo giorno di Liceo! Non di un liceo come gli altri per giunta, ma uno dei più prestigiosi della città! Se non si fosse dato una mossa, avrebbe dato fin da subito una brutta impressione. Aumentò ancora l’andatura, non volendo correre per non rischiare di stropicciare il gakuran, che la madre aveva stirato con tanta cura. Arrivò al cancello con un leggero fiatone. Tenne lo sguardo fisso a terra e tentò di darsi un contegno.
Ripresosi, sollevò gli occhi e squadrò l’edificio che l’avrebbe accolto per i prossimi tre anni. O almeno così aveva stabilito sua madre. Quel liceo, però, fino a quel momento era stato solo una fonte di problemi e angoscia.
Sua madre aveva ripetuto più volte che non c’era scelta migliore per lui e per il suo futuro, indipendentemente da quanto potesse costarle.
La sera prima, però, la consapevolezza che non avrebbe più rivisto tutti i giorni i ragazzi che avevano riempito le sue giornate per anni gli aveva suscitato un profondo stato di tristezza: ne valeva veramente la pena. E se lo richiese ossessivamente compiendo i primi passi all’interno dell’affollato cortile.
Sospirò e individuò la zona in cui gli studenti erano più concentrati; intuendo che lì fossero stati installati i tabelloni con le classi, si avvicinò con il cuore in gola.
Camminando si guardò intorno e notò quanto il prato fosse perfettamente tagliato e quasi sorrise alla vista dei ciliegi in fiore. Poteva considerarlo un buon auspicio per quel nuovo anno? Eppure non riusciva a scrollarsi di dosso quello stato di angoscia, che lo accompagnava da giorni. Perso nei suoi pensieri, urtò qualcuno.
«Scusa» si affrettò a dire. Di quel passo avrebbe dato l’impressione di essere un imbranato ai nuovi compagni.
«Non fa niente. Anch’io ero distratta» disse con fermezza la ragazza.
Lui si chinò per aiutarla a recuperare gli opuscoli che le erano scivolati e, nel farlo, notò i suoi occhi scuri e profondi. Deglutì e s’immobilizzò. Non aveva mai visto occhi tanto grandi, sembravano quasi quelli dei manga che amava tanto.  
«Grazie» dichiarò lei, quasi strappandogli gli opuscoli dalle mani.
Che figura! Era rimasto incantato! A lei, però, scappò un sorriso poi tornò seria.
«Scusa» ripeté.
«Mi chiamo Akari. Tu? Sei del primo anno?».
«Sì, mi chiamo Matsuda Takuya» si presentò con un lieve inchino.
 
Durante il primo intervallo dell’anno, la sensazione di angoscia non aveva abbondonato Takuya, che si era sentito a disagio in mezzo a compagni avvezzi a ben altro stile di vita rispetto al suo e si era rifugiato in terrazza. Lì aveva incontrato anche lei. Il suo primo pensiero era stato che si stesse nascondendo, ma successivamente si disse che quella prima impressione dovesse essere sbagliata: era una ragazza popolare e ben voluta. Eppure avevano continuato a incontrarsi lì, lontani da sguardi indiscreti. Akari sembrava apprezzare la sua compagnia e Takuya si sentiva a proprio agio. Quella terrazza era il loro luogo segreto.
 
 
*
 
 
«Sono contenta che tu ce l’abbia fatta».
Takuya sorrise imbarazzato: Akari quella mattina gli aveva chiesto di vedersi fuori dalla scuola. Un vero appuntamento! Lui aveva avuto tanta paura di chiederglielo in quelle settimane. Comunque aveva detto sì prima ancora di ricordarsi che sua madre non gli avrebbe dato il permesso di uscire specialmente dopo i risultati poco brillanti, a suo dire, del primo trimestre. Avevano sempre avuto un buon rapporto nonostante le difficoltà, ma quella scuola sembrava volerli dividere. Quel pomeriggio, però, era uscito di nascosto troppo desideroso di incontrare Akari. Sua madre non avrebbe capito.
«Ci tenevo molto».
Lei sorrise. Si erano dati appuntamento in un parco abbastanza distante dalla scuola.
Camminarono mano nella mano per un po’e per un attimo a lui venne in mente quanto sarebbe stato romantico lungo un viale circondato da ciliegi in fiore. Magari l’anno prossimo avrebbero potuto organizzarsi per l’hamai insieme. Colto da uno slancio di coraggio glielo propose.
Il suo volto si illuminò e gli rivolse un sorriso ancora più ampio. «Sei diverso dagli altri ragazzi, non hai nemmeno provato a baciarmi».
Takuya arrossì: era vero, ma non perché non l’avesse desiderato. «Non sapevo se volevi».
«Voglio».
Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata. Allora si piegò e le diede un bacio sulla guancia.
Ci fu un attimo di silenzio e lei rise: «Intendevo un bacio vero».
Un bacio vero? Non aveva mai dato un bacio del genere!
«Non fa niente» mormorò Akari cogliendo la sua incertezza. «Devo andare ora. Ci vediamo domani».
«Posso accompagnarti». La sua voce risuonò incerta e si diede dello sciocco.
«No, no, grazie» rispose frettolosamente la ragazza.
«A domani allora» replicò dispiaciuto.
«A domani».
Quella notte rimase a lungo sveglio ripensando al pomeriggio e a immaginare quale sarebbe stato il comportamento più adeguato. Chissà se avrebbe avuto la possibilità di rimediare. Si rigirò più volte nel letto, chiedendosi se non l’avesse persa: i ragazzi che frequentava Akari era disinvolti, simpatici e di certo avevano già dato il loro primo bacio.  
 
La mattina successiva, si svegliò assonnato e ancora molto agitato: da una parte non vedeva l’ora di vedere Akari, dall’altra aveva paura dopo la figuraccia del giorno prima. Paura che le sue paure notturne si concretizzassero.
Prima di raggiungere la scuola, raccolse un fiore dall’aiuola, sperando che nessuno lo vedesse, e, facendosi coraggio, si diresse verso la classe di Akari. La individuò immediatamente. Le fece un cenno, ma lei non reagì come si sarebbe aspettata: sbiancò si avvicinò spingendolo fuori dalla classe.  
«Che fai qui?» gli chiese, quasi in tono accusatorio.
«Volevo parlarti» rispose incerto. Tutto il suo coraggio era svanito. Aveva trascorso tutta la notte a immaginarsi di tenerle la mano e camminare per i corridoi: dichiararsi sarebbe stato il miglior modo per evitare di rodersi ogni volta che la vedeva in compagnia dei suoi amici. Quella scuola sarebbe stata molto meglio.
«Dopo sulla terrazza, non qui» disse lei guardandosi intorno.
Takuya assentì, ma ne fu dispiaciuto. Non voleva che gli vedessero insieme?
Fu distratto tutto il giorno. E naturalmente sensei Watanabe se ne accorse e lo buttò fuori dalla classe. Sembrava divertirsi a torturarlo, quasi a sancire che Takuya non appartenesse veramente a quel mondo. Eppure lui ci provava a migliorare in inglese, nonostante fosse la materia che più odiava e, ora, grazie a Watanabe, temeva.
Finalmente, appena suonò la campanella dell’intervallo, raggiunse la terrazza con molta ansia. Akari non c’era ancora, ma arrivò poco dopo. Con gli occhi bassi.
«Scusami per stamattina» le disse immediatamente Takuya bramando che tornasse a guardarlo come il pomeriggio precedente. «Pensavo che ti avrebbe fatto piacere».
«È stato un pensiero gentile, ma non possiamo davanti a tutti» mormorò Akari, evitando il suo sguardo.
«Perché?» chiese affranto. «Non voglio metterti in imbarazzo…». Takuya odiò ancora di più quella scuola.
«Non mi vergogno di te! Non sono stupida».
«Ma…».
«Senti, ho un motivo ben preciso, ma ora non mi va di parlarne. Scusami».
«Come vuoi». Takuya era confuso, non gli piaceva quella situazione ma non voleva perderla.
La ragazza sorrise leggermente e gli gettò le braccia al collo.
Era di nuovo vicinissima. Il tempo sembrò fermarsi e Takuya questa volta le sfiorò le labbra rapidamente. Rimasero a fissarsi, finché non suonò la campanella.
 
 
*
 
 
Da quel momento si videro quasi tutti i pomeriggi al parco per qualche ora. Takuya era sempre più felice. Akari era sempre ben attenta a evitarlo nei corridoi, anche se non mancava mai di lanciargli qualche fugace sorriso.
Un pomeriggio Takuya, dopo aver terminato il proprio turno di pulizie, casualmente passò davanti alla classe di Akari e stranamente la trovò seduta su un banco in fondo alla classe, persa in chissà quali pensieri. La luce rossastra del tramonto aveva inondato l’aula e il viso di lei. Avrebbe voluto ritrarla in quel momento tanto era bella. Tentennò un attimo e poi la raggiunse. Non c’era nessuno a quell’ora.
«Ciao» sussurrò.
Lei sobbalzò e lo fissò stranita, probabilmente sorpresa di vederlo lì, ma ricambiò il saluto senza allontantarlo.
«Posso?».
Akari si passò una mano tra i capelli e lo abbracciò di slancio.
«E se ci vedessero?» le chiese sorpreso, percependone la tensione.
«Mi sei mancato».
«Anche tu» replicò automaticamente, sebbene non si vedessero solo da qualche ora. La scrutò con più attenzione e si accorse che aveva gli occhi arrossati. «Hai pianto?».
Lei sciolse l’abbraccio ed assentì con un leggero cenno del capo.
«Ti va di dirmi come mai?».
«Problemi con i miei» rispose evasiva.
«Mi dispiace».
«I tuoi vanno d’accordo?».
«Mio padre è sparito appena ha saputo che mia madre era incinta» ammise con una smorfia.
«Peggio del mio… non l’avrei mai detto».
«Sono sicuro che tuo padre non sia così cattivo» provò a rincuorarla.
«Senti, Takuya, devi sapere che…».
«E voi che fate?». La domanda fu seguita da un click con il cellulare.
«Inata» sbottò Akari, saltando giù dal banco. «Cancella quella foto!».
«No, neanche per sogno. E chi l’avrebbe detto, Matsuda! Ne hai di coraggio!».
«Smettila» sibilò Akari tentando di prendergli il telefono, ma Inata era molto più alto.
«Voglio dire chi mai avrebbe il coraggio di farsi beccare insieme alla figlia di sensei Watanabe?».
Takuya sgranò gli occhi: la figlia di Watanabe?! La persona meno ragionevole che avesse mai conosciuto!
«Dammi quel cellulare» intimò ancora Akari.
«No» disse lui scappando via.
Akari lanciò un’occhiata spaventata a Takuya, poi corse dietro quello sciocco bullo con il quale si accompagnava tutti i giorni.
 
Quella notte Takuya dormì poco e male: la scoperta di quel pomeriggio l’aveva turbato profondamente. Non solo si trattava del professore che l’aveva preso di mira, ma Akari, ben sapendolo, gli aveva nascosto la verità. Una parte di lui, quella più ragionevole, però, non le dava torto: insomma sensei Watanabe era il vicepreside e l’insegnante più odiato della scuola, chi mai sarebbe andato saltellando per la scuola a raccontare a tutti di essere sua figlia? Nonostante questa consapevolezza, però, si sentiva confuso e arrabbiato: e ora? Si era illuso in quelle settimane. Eppure avrebbe dovuto comprenderlo: è per questo che Akari non voleva farsi vedere con lui nei corridoi. Per difenderlo? O per proteggere sé stessa?
La mattina dopo, si recò a scuola senza aver dato una risposta ai suoi interrogativi. Sapeva di doverne parlare con Akari, ma non era sicuro di essere pronto.  Appena mise piede nel cortile si rese conto che c’era qualcosa di strano. Si guardò intorno, ma nulla era cambiato. Procedendo si accorse che erano gli altri ragazzi ad essere diversi. In quei mesi si era abituato a essere ignorato e aveva imparato a non farsi notare troppo, ma adesso lo fissavano, qualcuno addirittura lo additò, qualcun altro sghignazzò; le ragazze a gruppetti non parlottare e ridacchiare al suo passaggio. Perché?
«Matsuda» sibilò una voce, facendolo saltare. Era Watanabe. «Vieni con me!».
Deglutì, ma non ebbe il tempo di reagire che lui lo prese per il braccio e lo trascinò in sala professori, a quell’ora affollata. Takuya salutò sommessamente.
«Come hai osato?» quasi gridò Watanabe sbattendo sul tavolo una foto. Quella scattata da Inata. Tutta la scuola l’aveva vista.
«Non abbiamo fatto nulla di male» mormorò.
«Stai abbracciando mia figlia» replicò Watanabe ferocemente.
Era fuori di testa, ma Takuya non sapeva come comportarsi: in fondo, si volevano bene e in quella foto si stavano solo abbracciando.
«Watanabe, forse dovresti calmarti» intervenne il professore di giapponese.
«Decido io, se calmarmi o meno» replicò lui con ostilità. «Non voglio che mia figlia frequenti ragazzi così».
«Che cos’ho che non va?» chiese stupito. Perché ce l’aveva con lui?
«Non osare rispondermi».
«Watanabe, Matsuda è un bravo ragazzo» provò di nuovo il professore.
«È un perditempo. Lo vedo sempre a disegnare».
Ah, allora era quello il problema. Anche sua madre spesso lo accusava della stessa cosa. Perché tutti lo volevano costringere a rinunciare alla sua passione?
«Stai lontano da mia figlia, è chiaro?».
«Ma io le voglio bene» tentò.
«Silenzio! Stalle lontano o te ne pentirai!».
Da quel giorno Takuya e Akari iniziarono a evitarsi. Non avevano più parlato da quella sera, ma  d’altronde che cosa sarebbe cambiato? Per Watanabe, però, non era sufficiente: ogni lezione di inglese era diventata un tormento per il ragazzo, che cominciò a perdere ogni voglia di frequentare quella scuola e di studiare.  
 
 
*
 
Scurì le ombre sui lati e lanciò un’occhiata fuori dalla finestra. Quella giornata non sarebbe mai finita. Ormai per Takuya ogni giorno era identico al precedente: la mattina andava a scuola, ma a malapena seguiva le lezioni; il pomeriggio disegnava e leggeva. Inoltre, non dormiva bene, anche perché Akari era diventata un pensiero fisso.
«Ragazzo! Che stai facendo?».
Sobbalzò a quell’urlo. Watanabe si avvicinò al suo banco a grandi falcate e gli strappò via il foglio su cui stava disegnando un volto. Quello di Akari. L’aveva fatto ritratto senza nemmeno riflettere, fissò la superficie del banco in attesa della sfuriata.  
«Che cosa ti è saltato in mente? Scarabocchiare sul test di fine semestre!».
Già che cosa gli era saltato in mente? Non aveva nemmeno letto le domande.
«Non solo sei irrispettoso, ma anche ignorante!». Watanabe gli sputacchiò addosso fuori di sé. «FUORI DI QUI!».
Takuya terrorizzato non se lo fece ripetere. Una volta fuori prese un attimo di respiro e lentamente realizzò quello che era accaduto: aveva consegnato il test di fine trimestre in bianco! No, anzi peggio che in bianco: sul retro c’era il ritratto di Akari, la figlia del professore! Aveva firmato la propria condanna! E sua madre che avrebbe detto?
Durante la pausa pranzo si nascose sul terrazzo e qui lo trovò Akari. Lei gli sedette accanto. Per un attimo gli sembrò di tornare indietro di settimane.
«Non possiamo stare insieme» disse automaticamente.
«Non credo faccia molta differenza».
«Ma…».
«Non essere stupido, ormai tutta la scuola sa che hai disegnato sul tuo test di inglese. Credo che nessuno abbia mai preso uno zero in questa scuola».
«Non ho voglia di scherzare» sibilò.  
«Senti, mi dispiace. Ma se tu avessi un padre come lui lo diresti in giro?».
Takuya non rispose.
«Non te l’ho detto perché avevo paura che saresti scappato» insisté Akari.
«Beh, non possiamo stare comunque insieme» tagliò corto Takuya che non era dell’umore per affrontare quella conversazione. Eppure quanto aveva desiderato sederle ancora accanto.
«Senti, mi dispiace che mio padre ti abbia preso di mira. Non so che fare. Ho provato a parlargli, ma non ascolta». Takuya non rispose e Akari continuò: «Io ti voglio bene».
«Anch’io te ne voglio» mormorò Takuya.
Akari fremette e cercò di abbracciarlo, ma lui si scansò.
«Non possiamo».
«Che importanza ha?».
«Mia madre si sacrifica ogni giorno per darmi la possibilità di studiare qui. Ho già rovinato tutto».
Akari sospirò e trattenne a stento le lacrime.
«Sai cosa ho disegnato sul test?».
«La caricatura di mio padre» provò a scherzare lei, ma la sua voce tremava.
«Il tuo ritratto».
Un silenzio si espanse tra loro carico di emozioni. Si guardarono negli occhi e Takuya si avvicinò tanto da sfiorarle le labbra con le sue.
Lei lo trattenne per un braccio e gli impedì di allontanarsi approfondendo il bacio.
 
 
*
 
 
«Mi spieghi che cos’hai combinato?».
Takuya sobbalzò: sua madre era entrata in camera sua come una furia. Avrebbe dovuto prevederlo. Si tolse le cuffie dalle orecchie e abbandonò gli esercizi di matematica. Si passò una mano tra i capelli.
«Allora?».
Il ragazzo si sentì in colpa: l’avrebbero sicuramente espulso.  
Sua madre si avvicinò tenendo le braccia conserte e gli occhi le lampeggiavano. Non aveva intenzione di essere comprensiva. E non poteva nemmeno darle torto.
«Non lo so che mi è preso».
«Non lo sai?» gridò sua madre fuori di sé. «Hai quasi sedici anni! Dovresti pensare prima di agire!».
Takuya evitò il suo sguardo e rimase in silenzio.
«Durante un esame ti metti a disegnare, eh? Durante un esame!» gridò lei, poi occhieggiò i suoi album da disegno impilati sulla scrivania. «La devi smettere con queste stupidaggini!» sbottò prendendone uno e strappandolo.
Takuya la fissò sconvolto e tentò di fermarla. «No, mamma! Ti prego!».
«Basta con queste stupidaggini! Non ti permetterò di rovinarti la vita!».
«Ma non c’entrano niente i disegni» provò disperato.
«Ah, no? E allora perché?».
«Perché mi sono innamorato della figlia del professore» confessò. Non ricordava nemmeno l’ultima volta che avessero parlato, dato che lei tornava sempre tardissimo a casa.
Sua madre lo fissò incredula per qualche instante e poi riprese: «Tu ti stai rovinando la vita per una ragazza!?».
«Non mi sto rovinando la vita, ero felice con lei».
«Allora è per questo che i tuoi voti si sono abbassati tanto. Non ti vergogni?».
Takuya si morse il labbro, non voleva dire quello che pensava, non voleva ferirla. Chinò il capo e sentì il resto della predica. Ma il Non ti permetterò di fare il mio stesso errore conclusivo, lo ferì profondamente. Lui era stato solo un errore.
 
La mattina dopo sua madre lo accompagnò personalmente a scuola, perché si scusasse con sensei Watanabe. Furono introdotti nell’ufficio del preside e Takuya fu costretto a sorbirsi una lunga predica sul codice di condotta di quella scuola e su come la scelta migliore fosse la sua espulsione. Lo umiliò sentire sua madre supplicare quei due uomini che si fregiavano del titolo di educatori e si sentivano tanto superiori.
«Chiedi scusa» gli intimò sua madre.
Aprì la bocca per accontentarla sebbene stesse odiando sempre di più quel posto, ma lei lo spinse in ginocchio ai piedi di Watanabe. Takuya strinse in denti e sopportò anche quello.
«Per me va bene» disse con sussiego Watanabe rivolto al preside. «Ma stai lontano da mia figlia». Quell’ordine era per Takuya, naturalmente.
«Può stare tranquillo» intervenne sua madre.
Ma che aveva tanto di speciale quella scuola? Ce ne erano un’infinità in Giappone! Perché sua madre non provava nemmeno ad ascoltarlo?
Si rese conto che tutti aspettavano che lui assentisse, ma la rabbia gli impediva anche di parlare.
«Non buttare all’aria tutti i miei sacrifici» sibilò sua madre.
Takuya ricacciò indietro le lacrime e deglutì: non aveva altra scelta. Assentì.  
«Va bene, non lo espellerò ma dovrà comportarsi bene nell’ultimo trimestre» sentenziò il preside.
 
 
*
 
 
Le settimane successive furono terribili: Takuya e Akari continuarono a evitarsi, non si scambiarono nemmeno uno sguardo nei corridoi e smisero di cercarsi durante i turni di pulizia. Era veramente finita.  
Per conto suo, Takuya cadde in uno stato apatico. Non aveva più rivolto la parola a sua madre da quel giorno, nonostante lei avesse provato più volte a parlargli fino a pregarlo. Si dedicò allo studio e i suoi disegni, sempre più cupi.
Alla fine arrivò il giorno dei risultati finali. Gli sembrava assurdo che fosse trascorso quasi un anno da quando aveva iniziato il liceo. Non avrebbe potuto immaginare che sarebbe stato tanto orribile.
Provò una feroce soddisfazione nel costatare di essere andato bene: in giapponese, giapponese antico, arte e storia aveva preso il massimo, ma soprattutto novanta in inglese. Qualcuno dei suoi compagni si congratulò con lui. Solo in quel momento si accorgevano di lui? Ah, già giapponese antico era una materia abbastanza odiata da tutti.
Ottenuta quella specie di vendetta, percepì, però, un profondo vuoto dentro. E ora che avrebbe fatto? Avrebbe sopportato altri due anni in quel modo e poi? Che senso aveva? Qualcosa aveva ancora senso? Forse, se fosse tornato indietro e se avesse riavuto i suoi amici, sarebbe cambiato qualcosa. Akari era già un ricordo doloroso e la ferita si sarebbe rimarginata prima o poi. Di questo, però, non era pienamente convinto.
Aveva una gran voglia di allontanarsi da quel posto, ma si ricordò di aver dimenticato le scarpe da ginnastica qualche giorno prima e andò a recuperarle, per non aver motivo di dover tornare nei giorni successivi.  Nel suo armadietto trovò una lettera e riconobbe immediatamente la scrittura di Akari. Decise di andare in classe, sperando che nessuno lo disturbasse. Una parte di lui, quella che parlava con la voce di sua madre, gli disse che sarebbe stato meglio strapparla, ma ne aveva abbastanza di farsi dire quello che doveva fare. Akari l’aveva lasciata per lui.
Era datata circa una settimana prima, l’ultimo giorno di esami del trimestre.
 
Tekuya,
mi manchi molto. Non ho il diritto di dirtelo o di lamentarmi dopo tutti i guai che ti ho causato. Ti voglio bene, non ti ho mentito. Stare con te è stato bello: sapevo di potermi fidare. Ti voglio bene. Addio.
Rilesse quelle poche parole più volte. Doveva vederla.
Uscì fuori e la cercò nella folla, ma lei non c’era. Adocchiò Aoi una sua cara amica e le chiese: «Dov’è Akari?».
Aoi sembrò preoccupata e si guardò intorno, probabilmente spaventata di essere vista da Watanabe.
«È chiusa in casa da una settimana» gli sussurrò. «Non parla, non mangia, sta sempre a letto. I suoi sono disperati e…».
«Dove abita?». Lei non gliel’aveva mai detto.
Aoi sembrò spaventata.
«Dai, non dirò a nessuno che me l’hai detto tu».
Aoi non era convinta, ma glielo disse e poi scappò via.
Non era molto lontano. Corse, turbato da quelle parole. Addio. Perché? Quando aveva messo quel biglietto nell’armadietto? Il giorno prima non c’era, ne era sicuro. E se lei era a letto da una settimana, non poteva essere stata. Aoi. Aoi non sembrava sorpresa dalle sue domande. Sapeva tutto. E non avrebbe potuto dirglielo prima?
Arrivò senza fiato di fronte a una villetta elegante con un giardino ben tenuto. Non poteva più tornare indietro. Suonò il campanello, temendo che non gli aprissero; invece quella che doveva essere la madre di Akari lo invitò a entrare.
«Ciao» gli disse. Sembrava stanca e preoccupata. «Tu sei Takuya-chan?».
Come faceva a conoscerlo? «Sì, signora» rispose inchinandosi.
«Vieni».
Lo condusse in una cameretta quasi completamente al buio. Adocchiò la ragazza rannicchiata nel letto e gli si strinse il cuore. Fino a quel momento aveva pensato che fosse lei la più forte tra loro, che aveva tanti amici e non avrebbe faticato a dimenticarsi di lui. Quanto si era sbagliato?
«Mamma, esci» sibilò la ragazza con un filo di voce.
«Ciao, Akari» mormorò Takuya.
Lei si voltò di scatto e lo fissò sconvolta. «Perché sei qui?».
«Stai male».
«Non puoi stare qui, se torna mio padre…».
«Non importa» replicò Takuya. «Non sto facendo nulla di male».
«Lo conosci farà di tutto per espellerti».
La signora emise un sospirò e uscì dalla stanza.
«Ci sono tante scuole» disse. «È mia madre che mi ha costretto a iscrivermi in questo liceo e tu sei stata la mia unica consolazione».
«Non sei arrabbiato con me?».
«No, purtroppo non possiamo sceglierci i genitori».
«Ma non possiamo nemmeno cambiarli».
Era l’ombra della ragazza che aveva conosciuto un anno prima. Gli faceva una sofferenza vederla così smunta, con le occhiaie e gli occhi rossi. «Akari» sussurrò accarezzandole la guancia.
«Non ce la faccio più» confessò lei.
«Nemmeno io» ammise lui.
Akari si raddrizzò e lo fissò seria: «Che vuoi fare?».
Takuya non rispose, ma si fissò le mani: aveva pensato un sacco di cose brutte in quei mesi, specialmente all’inizio; poi i tentativi di sua madre di riavvicinarsi gli avevano permesso di comprendere che non voleva causarle un dolore del genere; inoltre, la soluzione sembrava molto semplice: trasferirsi nel liceo dove si trovavano la maggior parte dei suoi amici e riprendere la sua vita come se quell’anno non ci fosse mai stato. Doveva solo parlar chiaro con sua madre. Si sentì egoista ad aver pensato di poter cancellare anche Akari.
Ebbe paura del suo sguardo vuoto, quasi folle e desiderò di andarsene da quella casa apparentemente perfetta, ma non avrebbe mosso un passo senza di lei.
«Usciamo».
«Cosa?».
«Usciamo».
«Ma non posso».
«Puoi». Dubitava che la madre di lei si sarebbe opposta e Watanabe era ancora a scuola.
«Muoviti, vestiti».
Lei, stupita, obbedì. Dieci minuti dopo la trascinava per le vie del quartiere sventolando il cellulare. «Non possiamo perderlo».
«Ma che vuoi fare?».
Non le rispose, ma corsero a perdifiato fino alla stazione, qui Takuya fece al volo due biglietti e ripresero fiato solo quando si gettarono sui sedili suscitando occhiate indignate da altri passeggeri più anziani. Si fissarono e ridacchiarono nervosamente.
«Ma sei impazzito?».
«No» rispose e le cinse delicatamente le spalle.
 
«Respira. Questa è la vita» le sussurrò all’orecchio appena giunsero a destinazione.
Akari non rispose, ma sorrise e gli strinse la mano più forte.
Rimasero a fissare il mare per un po’, poi Akari tirò fuori un foglio e glielo mostrò.
Era il suo compito d’inglese. Quello consegnato in bianco! «Come fai ad averlo?».
«L’ho sostituito con un altro, tanto non avevi scritto nulla. E il ritratto è mio».
Takuya la baciò di slancio.
«Che faremo? Non potremo stare qui per sempre» gli chiese Akari.
«Domani soffierà il vento di domani» rispose lui, stringendosi nelle spalle e confidando che insieme avrebbero trovato la forza per amarsi.
   
 
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