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Autore: fedcan    28/06/2021    1 recensioni
Un tipico episodio di vita cittadina per il protagonista diventa lo spunto di una riflessione sulla natura della sopravvivenza e sull'importanza delle piccole cose apparentemente insignificanti
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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INCONTRO CON UN UOMO AL PARCO

 

Era molto afosa, quasi soffocante, quella tarda mattinata del 21 giugno. I grigi viali della città bollivano per il caldo. Dall’alto sembrava che, sudando, dall’asfalto fuoriuscissero delle piccole gocce rettangolari che scorrevano lungo il busto. Dentro una di queste gocce ero seduto io. Le mie mani, per il sudore, si erano incollate al volante di plastica nera; il sedile, sempre nero, era ormai diventato un tutt’uno con la mia schiena umida (teoricamente avevo una maglietta, ma era diventata una sottilissima striscia di tessuto perfettamente aderente alla schiena, come se fosse semplicemente un altro strato della mia pelle). Anche mio nonno, seduto accanto a me, era visibilmente affaticato. Era all’antica, e, nonostante gli oltre trenta gradi, era comunque in giacca, camicia e pantaloni lunghi. Dovevo portarlo ad una clinica del centro per un controllo di routine alla vescica, dove da ormai due anni aveva sviluppato un piccolo tumore; fortunatamente era stato scoperto in tempo e non era entrato in metastasi. Persona solitamente allegra e chiaccherona, quel giorno invece era stranamente silenzioso. Poche volte l’avevo visto così. Nonostante i suoi occhiali scuri, potevo scorgere una nota malinconica nel suo viso. Probabilmente pensava al fatto che quel giorno, se non fosse morta 3 mesi prima, avrebbe fatto le nozze d’oro con mia nonna, sua moglie, amata, amatissima Giuliana. Si dice sempre che sono cose che accadono e che la morte è un fatto inevitabile, ma provate a dirlo ad un uomo che ha perso la sua compagna di una vita.

Miracolosamente avevo trovato posto proprio accanto alla clinica. Era al sole, ma almeno il nonno avrebbe dovuto camminare poco. Dopo averlo fatto scendere di macchina e aiutato ad attraversare la strada, mi sedetti su una panchina all’ombra, a 20 metri dall’auto. Sapevo sarebbe stata una lunga attesa, perciò mi ero portato da leggere (il settimanale l’Espresso per l’esattezza).

La panchina era all’estremo limite di un grosso parco che quel giorno era particolarmente affollato; c’era chi correva, chi camminava o anche chi, come me, leggeva appoggiato alla panchina all’ombra degli alberi, che risplendevano di un verde accecante. Ero immerso nelle mie letture, isolato dal mondo esterno, quando dalla mia sinistra un piccione arrivò all’improvviso in picchiata volandomi pochi centimetri sopra la testa. Per lo spavento mi spostai violentemente di lato, sulla mia destra, curvando la schiena in modo innaturale e coprendomi alla meglio la testa con le braccia, lasciando cadere il libro per terra. Rialzai lo sguardo, e vidi che c’erano molti piccioni che prima non avevo notato lì a due metri da me, sempre alla mia destra. Formavano una variopinta massa informe dalla quale si distingueva solo il battito delle ali e il caratteristico movimento avanti e indietro della testa dei piccioni. Erano ai piedi di un uomo che era sulla mia stessa panchina, dall’altro lato. Era di origini straniere, forse sudamericane; aveva dei radi capelli grigi, due occhi neri come il catrame e una corporatura piccola e magra. Doveva essere sulla sessantina. La sua maglietta probabilmente era stata gialla in origine, ma centinaia di lavaggi l’avevano resa talmente stinta da essere quasi bianca. Mangiava un po’ di riso al pomodoro e delle foglie di insalata. Doveva essere il suo pranzo. Teneva accanto a se anche una baguette, dalla quale ogni tanto strappava un pezzo per lanciarlo ai piccioni. Come il boccone toccava terra, subito loro vi si fiondavano sopra, perfino spingendosi a colpi d’ala e becchettandosi selvaggiamente, pur di avere anche una misera briciola. L’uomo sembrava divertito da tutto ciò e lanciava i pezzetti di pane circa ogni 20 secondi, sempre in direzioni diverse, per il gusto di vedere quelle povere bestie muoversi all’impazzata, saltellando su quelle gracili zampe da un lato all’altro.

Si girò verso di me. Mi sorrise. Era realmente felice, in quel momento non pensava a nulla, tranne che ai suoi piccioni:

“Mangiano di tutto, sai...”

Non pensavo nemmeno fosse in grado di parlare. Mi sorprese. Annuii distrattamente, e continuavo a guardare quei piccioni muoversi freneticamente ai piedi dell’uomo:

“Il loro stomaco è uguale al nostro. Mangiano sempre, a tutte le ore, e si accontentano facilmente. Se noti si muovono pure in branco. Sono proprio come noi; eh?”

Che facile moralismo. Noi come dei piccioni. Che banalità

Eppure è vero. Ci muoviamo in branco, seguendo i nostri simili e pensiamo solo a mangiare o comunque a soddisfare gli istinti base.

È come se quell’uomo fosse una divinità per quei piccioni. Può decidere se oggi loro mangeranno o no. E il nostro Dio chi è?

Chi decide per noi fino a quanto possiamo sopravvivere? Il destino? Un’entità invisibile ed eterna? Il caso?

Perché deve essere così complicata la nostra vita? Non può essere come quella di quei piccioni ai piedi dell’uomo?

Invece guardo mio nonno. Si dispera ancora per la sua amata moglie morta a 86 anni tre mesi e mezzo fa, è sempre giù di morale per un evento che nel fluire della natura è insignificante, o certamente meno importante del mangiare tutti i giorni.

Prima avevo detto che non era facile per una persona come mio nonno non pensarci. Ma ora vedo la realtà. Dobbiamo tutti vivere come piccioni. Muoversi in branco e pensare solo a sopravvivere. Così e basta potremo essere felici come quest’uomo accanto a me.

O forse sono proprio queste nostre debolezze a renderci esseri umani, ovvero la razza animale che da migliaia di anni domina il pianeta?

Credo che quest’uomo seduto su una panchina al parco non sia in grado di rispondermi. Al massimo mi dirà che siamo tutti piccioni con lo stomaco forte e una continua fame.

E probabilmente è vero.

   
 
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