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Autore: shana8998    29/06/2021    1 recensioni
Appena arrivato, in soli dieci minuti, era riuscito a fare retromarcia contro la mia cassetta delle lettere, a disseminare per il mio giardino immacolato gli incarti del fast food di cui straripava la sua auto, e per finire si era svuotato la vescica sul grosso tronco della vecchia quercia che si trovava sul prato di fronte, indirizzandomi un sorriso pigro e una scrollata di spalle, non appena si accorse di me, scandalizzata, sull'uscio di casa.
Quel ragazzo era un barbaro.
Nei quattro mesi successivi, aveva trasformato la mia vita da cartolina in un inferno. Non riuscivo a spiegarmi come potesse, un ragazzo da solo, avere un impatto tale sulla mia felicità, eppure lui ce l'aveva.
Genere: Erotico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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                                                                                             3.
«E' questo il 32 di Long Point Road?», domandò il ragazzo dalla criniera bionda e imperlata di gel, mentre usciva da un'utilitaria scalcagnata che aveva parcheggiato all'imbocco del vialetto di Halanie, bloccandone l'uscita.
Ora, normalmente mi sarei limitato ad ignorare lo stronzo o a liquidarlo con un rapido cenno affermativo, e avrei  continuato a badare ai fatti miei. Ma non quella mattina. Quella mattina volevo fare qualcosa di buono per la mia vicina timida ed introversa, specie perché, per colpa mia, aveva saltato la sessione mattutina del corso. Dopo la sera prima ero certo che non si sarebbe arrabbiata e non avrei rischiato di farla correre a nascondersi nuovamente come era solita fare.
Ok, forse non ne ero così convinto, ma non riuscii ugualmente a trattenermi, specie dopo aver visto il coglione infilarsi un preservativo in tasca con un gesto plateale, rivolgendomi perfino uno sguardo complice.
Fanculo.
In quel momento non mi importava se ciò che stavo per fare l'avrebbe fatta fuggire su per le colline di corsa, o se l'avesse spinta a chiedere un'ordinanza restrittiva nei miei confronti. Mi dovevo liberare di quel pezzo di merda.
«Sei qui per lei?» chiesi, scaricando una delle sette casse di birra dalla macchina.
Il tipo con quattro palmi di gel in testa mi guardò perplesso. «Si, perché?».
Finsi turbamento, gettandomi una rapida occhiata alle spalle.
«Credo che non sia proprio una buona idea, intendo uscirci. Perché è per questo che sei qui, giusto?»
«Si, abbiamo un appuntamento» ammise.
Stentavo a credere che una ragazza come Haly riuscisse ad uscire con ragazzi del genere.
«Perché non dovrebbe essere una buona idea?» riprese a chiedere, dopo qualche istante di titubanza.
Dovetti trattenermi dal ridere notando che stava diventando nervoso.
«È evidente che non sai...» lasciai di proposito la frase a metà.
«Sapere cosa? Un'amica che abbiamo in comune mi ha combinato questo appuntamento...» disse, poi gettò lo sguardo verso le tende chiare del salone di Haly.
Avevo visto bene? Si erano mosse?
Mi sfregai il collo, sospirando piano «Be' amico, non sono affari miei ma...dovresti stare attento»
«A cosa?» piagnucolò.
Esitai. Dovevo tirar fuori una buona motivazione o una buona scusa per troncare quella manfrina «Ecco...lei ha...» Pensa Aron. Pensa. «Un problemino...» mi indicai l'inguine.
Gli occhi del ragazzo si spalancarono come se avesse appena visto qualcosa di terribile apparirmi sulla patta dei pantaloni. 
Spalancò la bocca, incominciò ad indietreggiare e... «Sai, credo di essermi appena ricordato di avere un impegno.» con quelle parole saltò praticamente in macchina dileguandosi.
Me la risi. 
Me la risi perché un ragazzino di appena -quanto? Vent'anni?- era piombato con l'auto, quasi sicuramente di sua madre, pronto per scoparsi una ragazza di quasi cinque anni più grande convinto, chissà da chi, che ci sarebbe anche riuscito.
E risi, perché metterlo in fuga era stato parecchio divertente e anche molto più semplice del previsto.
«Pss» 
Stavo ancora gongolandomi fra me e me per le mie grandi doti d'attore, quando un sibilo arrivò alle mie orecchie. «Pss» e poi un altro.
Mi voltai di colpo verso il vialetto di Halanie. Lo percorsi con lo sguardo a ritroso fino a che, da dietro l'anta della porta, non spuntò un orribile cappello di lana.
«Halanie?» Aggrottai la fronte. Quel cappello era veramente orrendo.
Si guardò prima a destra, poi a sinistra, «Vieni qui» e mi fece cenno di raggiungerla con la mano.
Vedendola conciata in quel modo dovetti stringere le labbra per non scoppiare a ridere.
L'orribile cappello che portava sulla testa era di color verde vomito. Il larghissimo accappatoio era persino peggio, ma il fazzoletto di stoffa appallottolato che stringeva in una mano era il tocco di classe.
«Che diavolo...»
Dato che la sera prima, quando era rimasta a dormire da me, era in perfetta salute stentavo a credere che quella tenuta, con 30 gradi all'esterno, non fosse stata progettata per respingere l'invito del giovane dai capelli incellofanati.
«È andato via?»
«Si, ma perché sei conciata così?»
Haly si guardò addosso e storse le labbra come se si fosse resa conto solo allora di quanto fossero terrificanti gli abiti che indossava.
«Sono malata.» disse saettando lo sguardo su di me «Molto malata.»
«Sei-malata?...»Sollevai un sopracciglio.
«Oh si, non hai idea di quanto stia male» finse una serie di colpi di tosse, tornando dentro casa.
Ridendo, si sfilò il cappello e me lo tirò.
«E lui?» lo presi al volo, prima che mi finisse dritto in faccia «Che storia è questa?» e lo indicai seguendola in salotto.
«Niente» si limitò a rispondere in fretta.
«Niente? Io direi che invece questo fa parte del tuo abbigliamento bizzarro e soprattutto anti-appuntamento.»
Mi rivolse un innocente sguardo da cerbiatta e rispose: «Non so di cosa stai parlando. Ho l'influenza.» colpo di tosse.
Per dare più credito a quella buffa bugia, tirò su con il naso.
Era imbarazzante, adorabile, ma imbarazzante.
Non riuscii a trattenermi  dall'alzare gli occhi al cielo e ridacchiare «Non capisco perché non puoi semplicemente ammettere che stavi cercando un modo per scaricare l'uomo della tua vita»
Haly scese sulle spalle l'orribile accappatoio e lo lanciò su uno dei due divani celesti del suo salone, prima di avviarsi verso la cucina.
«Dico sul serio...Sono malata.» insisté lei «Davvero. Potrei morire proprio adesso, mentre parliamo» si portò il dorso della mano sulla fronte e finse uno svenimento.
Non riuscivo a trattenere le labbra dal sorridere. Halanie era veramente in grado di farmi quell'effetto?

Non avevo idea di cosa Aron avesse detto a Jason per scacciarlo così in fretta dal vialetto di casa mia, ma aveva funzionato. Era scappato con la coda fra le gambe evitandomi l'ennesimo, triste, appuntamento non romantico della mia vita.
«Mi spieghi una cosa?» chiese lui alzando la voce perché lo sentissi dal salotto mentre ero in cucina intenta a prendere il bricco del latte dal frigo. «Perché le tue amiche si ostinano a combinarti appuntamenti?»
Afferrai una tazza dalla credenza e la poggiai sul tavolo. Svitai il tappo del bricco e versai il latte. Poi presi una buona manciata di cereali dal contenitore di vetro sul tavolo e li annegai dentro la tazza; infine tornai in sala.
«Credo si divertano a farmi uscire con gente discutibile» ammisi stringendomi nelle spalle mentre mandavo giù una grossa cucchiaiata di cereali intrisi di latte.
Gli occhi di Aron non si staccarono da me nemmeno per un istante. Ad un certo punto, infatti, lasciai andare il cucchiaio nella tazza.
Lo stomaco si strinse e il ricordo di averci dormito insieme tornò vivido soffocandomi di vergogna.
«Non potresti semplicemente dirgli che sei apposto?» Si andò a sedere su uno dei due divani e strinse le mani attorno alle sue braccia tenendole allacciate al petto.
«Dovrei...» sorrisi timidamente sviando lo sguardo. 
Spostai la sedia dal tavolino quadrato accanto alla parete che separava la sala dalla cucina, e mi accomodai.
Preferii guardare la ciotola mezza vuota anziché gli occhi dannatamente magnetici di Aron.
 «Certo che voi femmine siete proprio strane.» Sbuffò e gettò la testa all'indietro, poggiandola sul bordo dello schienale del divano.
Per fortuna non mi guardava più. I suoi occhi vagavano sul soffitto come se stesse pensando o se si fosse solo perso nella sua mente.
Ad ogni modo, Aron aveva ragione: Gretha e Samantha dovevano darci una taglio con quella storia degli appuntamenti lampo su Tinder.
«Posso chiederti una cosa?» Afferrai la tazza con due mani e trangugiai qualche sorsata. La poggiai e mi asciugai le labbra con il dorso della mano «Cosa gli hai detto per farlo scappare?»


«Che diavolo gli hai detto?!».
Ok, una reazione del genere era prevedibile. Insomma, Haly non aveva tutti i torti: dire che era affetta da una malattia venerea non era stata una delle mie migliori idee.
«Non sapevo che altro dirgli!»
Balzò in piedi dalla sedia. Il viso irradiato -si fa per dire- di nervi.
«Tipo...niente? C'era bisogno per forza di dirgli qualcosa, Aron?»
Allargò i palmi delle mani e le narici. Era fuori di sé.
Mi sollevai dal divano carico come una molla «Bene. Ci saresti uscita, allora?»
Lo sguardo di Haly si fece deluso e...spiazzato.
Drizzò la schiena e guardò il pavimento grattandosi la testa «Be'...no. Non volevo uscirci.» borbottò.
«Vedi? Ti ho dato una mano.» Sollevai il mento con fierezza. Certo, potevo scegliere una scusa migliore, questo era vero, intanto però l'avevo aiutata.
Halanie aggrottò la fronte, il che rese la sua espressione ancora più buffa.
Strinse le labbra e poi sospirò socchiudendo le palpebre.
«Non aspettarti un grazie per questo.» Si voltò verso il tavolo e raccolse la tazza sparendo in cucina nuovamente.
La seguii.
Era intenta a lavare il cucchiaio quando varcai la soglia di una cucina identica, nella forma, alla mia.
«Ora che ci penso...» lasciò andare il cucchiaio insaponato nel lavello e girò la manopola «Perché sei ancora qui?»
Corrucciai la fronte.
«In che senso?»
«In casa mia. Non ti è bastato farmi dormire da te e farmi  perdere il corso, questa mattina?» sollevò le mani gesticolando e qualche schizzo d'acqua le bagnò il pantalone grigio del pigiama che si era infilata dopo aver lasciato casa mia.
«Aspetta, è questo il tuo modo di dimostrarmi gratitudine?»
Mi sentivo offeso. Sul serio.
Pensavo di averle fatto un favore mandando a cagare quel coglione.
Lei spalancò gli occhi e potrei dire che sembrava veramente sbalordita.
«Oh si, Aron, ti sono molto grata per aver detto a un perfetto sconosciuto che sono affetta da una malattia venerea. Come farei senza di te!» mimò un sorriso finitissimo sbattendo persino le palpebre e poi tornò seria in un lampo.
«Va a casa. A casa tua.» ringhiò.
Stronza.
Sollevai le mani a mezz'aria e con un sospiro rassegnato le risposi «Sto andando» prima di uscire dalla sua cucina.
No. Decisamente io e Halanie Evans non saremo mai andati d'accordo.


Non potevo credere che di sua iniziativa aveva scacciato quel tipo dal mio giardino. Certo, dovevo riconoscere che mi aveva fatto un enorme favore ma -cazzo- proprio una malattia venerea? 
Comunque, una parte di me non la smetteva di gioire.
Era stupido.
Terribilmente stupido e imbarazzante, dover ammettere che mi era piaciuto l'intervento di Aron.
Non avevo idea del motivo per il quale si era comportato così, ma che lo avesse fatto  mi faceva...mi dava...cazzarola, avevo le farfalle allo stomaco.
Rotolandomi sul materasso del mio letto, rimuginai su quanto era accaduto in solo un giorno e mezzo.
Era già particolarmente difficile allontanare il ricordo del suo viso accanto al mio mentre dormivamo, ma quello che aveva fatto...Rendeva tutto tremendamente compromettente. Per me, è chiaro.
Che mi stesse incominciando a piacere? No. Non era possibile.
Guardai oltre la trasparenza della tenda stesa davanti alla finestra. La luce in camera di Aron era accesa.
Sospirai.
Forse ero stata troppo severa con lui. Infondo voleva solo aiutarmi.
«Maledizione»
Mi sollevai dal materasso. Uscii dalla tuta del pigiama e mi sfilai la maglietta abbinata per indossare un jeans e una felpa qualsiasi.
Allacciai le stringe di un paio di Adidas e mi affrettai a raggiungere la porta d'ingresso di casa mia.
Afferrai la maniglia e, un attimo prima di aprirla, cercai di raccogliere tutta la calma che sapevo appartenermi.
Percorsi il vialetto di ciottoli chiari e spostai il piccolo cancello di legno.
I pochi metri di marciapiede che separavano le nostre case, in quell'occasione, mi parvero ancora più brevi.
In un batter d'occhio ero davanti alla porta di casa sua.
Dovevo solo scusarmi con lui. Perché ero così riluttante?
Sollevai il pugno chiuso di una mano, pronta per colpire l'anta della porta quando essa si aprì.
Un profumo da uomo, intenso, mi arrivò dritto alle narici facendomi increspare i peli dietro la nuca.
Aron, vestito come se stesse per andare al suo primo appuntamento, apparve dietro l'anta ancor prima che il mio cervello si potesse rendere conto che lui fosse li.
«Che c'è?» disse con il suo solito tono burbero.
Arricciai le labbra.
«Dove stai andando?»
Lui strabuzzò lo sguardo, poi, con un'occhiata perplessa, si limitò a dire che stava uscendo.
Abbassai la mano infilandomela in tasca frettolosamente.
«Ah, ok.» risposi pronta a scendere i gradini sotto la piccola tettoia «Ero passata solo per-niente. Ci vediamo domani al corso».
Uno dei miei più grandi difetti è -da sempre- l'essere estremamente orgogliosa oltre che estremamente timida.
E in quella circostanza non sapevo se definirmi più l'una o l'altra.
Le labbra di Aron si schiusero appena in un breve sorriso. Dio, ma perché lo divertiva tanto vedermi disarmata dal mio stesso carattere?
«Non hai finito la frase» mi fece notare chiudendosi la porta alle spalle e scendendo velocemente i gradini affilandosi dietro di me.
«Che frase?» feci la finta tonta.
Sfilò dalla tasca del jeans la chiave dell'auto.
«Cosa eri passata a fare?»
Irritante. Ecco un aggettivo che lo caratterizzava alla perfezione.
«Niente Aron, sul serio» Lo guardai di sfuggita scostando il cancelletto della sua recinsione.
Sghignazzò raggiungendo la portiera della macchina.
Si calò dentro e mise in moto.
Che cazzo mi era saltato in testa? Sapevo -in parte- com'era Aron e conoscevo il suo lato dispettoso. Se avesse potuto mettermi in ridicolo ad ogni singola occasione, lo avrebbe fatto ed io non facevo altro che dargliene modo.
Mi affrettai sul marciapiede. Dov'era casa mia? Perché sembrava così lontana?
«Quindi non me lo vuoi dire?»
Sbarrai gli occhi quando me lo ritrovai affianco. L'auto che marciava ad uno all'ora.
Mi morsi un labbro per non sorridere.
Che razza di tipo.
«Te l'hanno mai detto che sei petulante?»
Fece finta di rifletterci sfiorandosi il mento con due dita e storcendo un labbro «Si, diverse volte.»
Annuii «E non pensi che avevano ragione?»
«Nah. Sono petulante solo con chi voglio».
Restai come un'ebete a quell'affermazione e al sorriso raggiante di un attimo dopo.
Probabilmente stavo sorridendo anch'io di riflesso, perciò mi massaggiai le labbra affinché quella dannata curva saprisse da loro.
Non dovevo sorridere ad Aron Green. Per nessuna ragione al mondo.
«Ok, diamoci un taglio. Sono arrivata a casa» indicai con il pollice il vialetto di casa mia «Perciò, ti saluto»
Scostai l'anta e misi un piede nel mio cortile.
«Resti a casa questa sera?»
Mi voltai.
Che gli importava?
«SS-Si. Mi hai mai vista uscire di Venerdì sera?»
Rise fra i denti «Nemmeno di Lunedì in realtà.»
«Sottolineare che io non esca quasi mai, ti appaga?»
E come, solo lui, riusciva a farmi sorridere senza volerlo, -credetemi- ,riusciva anche a farmi saltare i nervi ad una velocità impressionante.
Si limitò ad un'alzata di spalle.
Scossi la testa «A domani Aron.»


22:00
Era questa l'ora che brillava sul display del mio cellulare fino a ché la serie di sms mandati da Gretha non si avvilupparono sullo schermo.

Gretha: Non dirmi che sei a casa! Devi assolutamente raggiungerci al Club stasera.

Lessi. Le spalle si afflosciarono ancor prima di proseguire a leggere il contenuto dei suoi sms.

Gretha: Ci sono tutti. PROPRIO TUTTI.

Scriveva. 

Gretha: Per favore. Non voglio andare da sola.

Odiavo le rimpatriate da studenti. E odiavo condividere il mio tempo con quelli della borsa di studio, fuori dall'istituto.
Insomma, eravamo perfetti sconosciuti. Alcuni di noi, dopo un anno e mezzo, ancora si chiamavano per cognome e quasi nessuno aveva il numero di cellulare dell'altro.
L'unica cosa che ci -che li- legava erano le feste al Club. Un bar dalla clientela prettamente studentesca che distava poco dalla scuola dove insegnavamo come aiuto-laboratorio.
Un posto come un altro che amavo solo quando era vuoto e le luci erano soffuse.

Io: Ti prego, cancella il mio numero.
Gretha: :'(


Sospirai. Gretha certe volte sapeva essere snervante.

Gretha: Giuro che ti riporterò a casa per le due al massimo.

Sollevai le sopracciglia davanti allo schermo.

Io: Mezzanotte.
Gretha: L'una. Pleaseeee.
Io: -.- ok.


Mi trascinai per tutta casa. Non potevo darmi pace: erano le dieci e Gretha sarebbe arrivata fra meno di trenta minuti conoscendo la sua impazienza quando si trattava di feste e alcool; perciò mi sarei dovuta muovere e in fretta.
Raggiunsi il bagno e aprii l'acqua calda.
Nel frattempo, aspettando che arrivasse a temperatura, andai in camera e presi la prima gonna e il primo top a caso, assieme ad un paio di scarpe basse e con la punta.
Calarmi sotto il getto bollente scacciò per qualche istante Aron dalla mia testa e il fatto che non appena avevo visto il nome Gretha brillare sulla tendina del mio cellulare avevo ripensato a quella maledetta richiesta d'amicizia che gli aveva mandato.
Non mi dava fastidio, piuttosto, provavo una sorta di preoccupazione vera per lei.
Aron era un vero stronzo.

Gretha: Esci, sono qui.

Venti minuti dopo ero pronta. La gonna nera con i fiori grandi e gialli come il sole ondeggiava sulle mie cosce nude e il top nero aderiva perfettamente ad ogni curva del mio addome a dovere.
Il fatto che non amassi le feste, non diceva di me che non amassi vestirmi per le occasioni.
Ero arrivata al punto di sperimentare qualsiasi tipo di abbinamento. Fanculo quello che potevano pensare gli altri -specialmente le altre- mi piacevo. Punto.
«Mio Dio! Cuore ma sei bellissima!»
Gretha lo era molto più di me.
I capelli folti e castani, il seno grande e tondo e le gambe carnose. Tutto l'opposto di me.
Mimai una posa da modella e poi scoppiai a ridere.
Aprii la portiera della sua auto e mi calai dentro.
«Bella questa pochette, dove l'hai presa?»
Gretha girò lo sterzo e si rimise in strada.
«In un negozietto qui accanto, qualche mese fa»
Sorrise mantenendo lo sguardo sulla strada «Mi piace».
Poi sfilò dal pacchetto, appoggiato sul contachilometri davanti a lei, una sigaretta e l'accendino.
Coprì la fiamma con entrambe le mani lasciando lo sterzo per un istante e tirò una boccata.
Guardai il finestrino spalancato e la cenere che svolazzava dietro, sui sedili posteriori.
A Gretha non era interessato mai nulla della sua auto. Era  di suo nonno, un regalo che le era stato fatto solo perché l'università e poi questo concorso, l'avevano portata a chilometri di distanza da casa sua.
Era vecchia, diceva sempre e per questo non la curava affatto.
Però lei almeno l'aveva.
Io, la mia, ero stata costretta a lasciarla a mio fratello maggiore che, per lavoro, viaggiava parecchio e la Geep gli faceva comodo.
«Perché hai deciso di andare al Club? Tu odi quel bar.» 
Gretha mi lanciò uno sguardo speranzoso «Perché, secondo te?»
Aggrottai la fronte «Dio...Non dirmi che vuoi andarci per Aron»
Oddio. Non dirmi che li c'è anche Aron.
Lei annuì con convinzione «Piper dice che sul gruppo di MySpace ha scritto che avrebbe partecipato alla cena e la cena era alle 19.»
Proprio quando lo avevo visto uscire di casa.
«Piper non dice anche, che ti sbava dietro e ti da queste informazioni solo per cercare di accattivarti?»
Gretha corrucciò la fronte «Non dire cavolate. Io e lui ci conosciamo da una vita!»
«Sette mesi non sono una vita.»
Ci tenevo a sottolinearglielo.
«Fa lo stesso» replicò con una scrollata di spalle « Loro sono amici ed erano a cena insieme, perciò saranno tutti e due al Club».
Quindi le "cotte" facevano fare quel genere di cose? Seguire la gente, stalkerarla, controllare assiduamente il loro profilo MySpace come amava fare Gretha?
«Eccoci»
Accostò l'auto accanto al marciapiede, proprio davanti al tendone rosso a forma di cupola con l'insegna CLUB illuminata da tanti piccoli led viola e verdi.
All'esterno della porta a vetri c'era un corposo gruppo di giovani dalle età più disparate.
Alcuni molto giovani, altri che avevano ben superato la soglia dei venticinque.
Mi feci coraggio e tirai la leva per aprire lo sportello.
L'aria fresca mi raffreddò le cosce e un attimo dopo anche le guance, ma non stiepidì il senso di agitazione che provavo. Affatto.
Gretha mi afferrò il polso e con disinvoltura sguisciò fra la moltitudine di ragazzi dai capelli impomatati e ragazze che sapevano di lusso e vita notturna.
Paillettes e tacchi lucidi tralucevano ovunque sul tappeto rosso che portava, dritto dritto, dentro la pancia dell'inferno.
«Ok, sistemiamoci qui» disse, lasciandomi andare il polso.
L'essere schiacciata fra le spalle di due ragazzi alti e in camicia e due ragazze dalle pochette spigolose e l'alcool che le faceva traballare mi fece maledire l'ultimo sms mandato a Gretha.
«Vedrai, ci divertiremo» mi sorrise raggiante.
«Se lo dici tu.» borbottai, guardando la fila dritta avanti a me.

Morale della favola, riuscimmo ad entrare al Club solo dopo quaranta minuti.
I piedi indolenziti e il camoscio delle mie decolté nere, ingrigito di pedate.
Avevo sudato ancor prima di muovere due passi in pista.
Nervosa, lasciai il mio cappotto al guardarobiere e scostai la tenda di velluto pesante che separava l'ingresso buio dalla sala vera e propria.
Di giorno, il Club era un bar qualsiasi. Un bar di studenti dove, per lo più, si consumavano colazioni e dove Mitch, nostro compagno di corso, si destreggiava fra pomeriggi di lavoro dietro al bancone e sessioni extra di studio.
Io amavo quel posto solo alle tre del pomeriggio, quando era vuoto e sui tavolini di legno venivano accese le abat-jour anziché il pavimento strobo d'ultima generazione come in quel momento.
Amavo la calma della musica lounge e il tintinnare delle tazzine che venivano riposte sulla macchina da caffè.
Non il branco di gorilla che stava saltando al centro della pista come in quel preciso istante.
«Spero che tutto questo finisca presto» borbottai come una vecchia zitella.
«Guarda! Piper e gli altri sono li giù!» mi strattonò un braccio Gretha. Incespicai per un momento e urtai una ragazza dietro di me.
Mi sgranchii la mascella. Se avevo pensato di aprire bocca per chiederle scusa, vedendo l'occhiataccia che mi aveva rifilato, decisi che avrei potuto darle una testata piuttosto.
Demorsi dall'idea di farlo e seguii Gretha attraversando - fra gomitate e cori- la pista.
«Gretha, sei arrivata!» la salutò Piper sollevandosi dal divanetto nell'area privé.
Che poi, di privato non c'era proprio un bel nulla. Eravamo su una specie di rettangolo rialzato dalla pista con alcune corde a delimitarne il contorno. Al centro, un tavolino bianco e tre divani. Due erano vicini e uno difronte.
«E c'è anche Evans!»
Mi strinsi nelle spalle sollevando appena il palmo della mano «Ehilà».
C'era proprio tutta la banda degli adepti della McGrennet.
Tutti tranne Aron.
Guardai Gretha e lei me. La delusione era ben impressa sul suo volto.
Si sporse verso il lobo del mio orecchio e ci piagnucolò dentro «Non c'è».
Socchiusi le palpebre con un'espressione comprensiva e le diedi una pacca sulla spalla «Pensa a divertirti, sbucherà prima o poi».
Lei mi sorrise tiepidamente. 
«Fate spazio gente.» Con un gesto plateale, Piper si sollevò dal divanetto aiutando Gretha e poi me, a scavalcare il tavolino colmo di bottiglie di vino.
Assieme a noi, attorno al tavolo, c'erano Mitch, che quella sera non era di turno al bar, Luis, Walter e Piper ovviamente. I pochi adepti degni della borsa di studio riservata a sole 10 persone per sei stati diversi.
Eravamo dei geni. Almeno questo è ciò che diceva la nostra borsa di studio.
Piper porse un bicchiere colmo di Aperol a Gretha.
Poi guardò me «Bevi qualcosa?»
Scossi la testa.
Non amavo l'alcool, non come ora, perciò se potevo, cercavo di rinunciarvi per  la maggior parte delle occasioni.
Le labbra di Piper formarono una curva all'ingiù «Dai, fallo per me» mi pregò.
Mi passai una mano sul viso. La rassegnazione aveva lasciato spazio alla disperazione «D'accordo» mormorai sollevando una mano verso le bottiglie «prenderò qualcosa da bere»
Si vedeva che non ero affatto a mio agio e forse Piper lo aveva notato. Per questo mi offrì un bicchiere di vino. Poi un altro e un altro ancora.
 
Ancor prima di metà serata ero ubriaca...e stavo ballando una canzone ritmata, che non avevo mai sentito prima, al centro della piattaforma dove giaceva il nostro tavolo, assieme a Mitch e Samantha.
Sentivo caldo, terribilmente caldo. Dentro al Club, l'aria si era fatta consumata e satura di vapore. La testa mi girava vertiginosamente e le gambe erano molli. La pelle madida di sudore e i capelli che si incollavano sul viso peggioravano le cose.
«Voglio lavarmi la faccia» biascicai sporgendomi pericolosamente dal bracciolo del divanetto. Gretha si tirò indietro per non rischiare di sbattere la sua fronte contro la mia.
«Hai bisogno che ti accompagni?»
Scossi la testa.
«Ne approfitto per comprare anche una bottiglietta d'acqua» Afferrai la pochette accanto alle sue cosce e cercai di drizzare la schiena.
Mi rendevo conto che stavo barcollando, ma non ne potevo fare a meno, era più forte di me.
Mesticai all'interno e tirai fuori un paio di spiccioli.
«Torno» sollevai l'indice «subito».
Gretha e Piper mi scrutarono con apprensione.
«Noi ti guardiamo da qui» disse lei.
Piper le teneva un braccio dietro le spalle e una mano sulle ginocchia ed io, a differenza di molte altre volte, li trovai belli insieme. Belli che potevano tranquillamente formare una coppia. Nella mia testa, in quel momento, sicuramente erano una coppia.
Il ritmo incalzante del brano che avevano appena mandato in play e il volume esageratamente alto, mi davano l'impressione di poter sentire la musica dentro il mio stomaco. Era fastidioso, specie dopo tutti i bicchieri di vino che Piper mi aveva allungato fra una chiacchiera e l'altra.
Giusto, di cosa avevamo parlato? Di corsi. Di esami. Di voti. 
Non di Aron. Gretha, quando era con Piper faccia a faccia, evitava quel discorso. Era ingiusta con quel ragazzo, lui le sbavava dietro e lei, facendo così, lo stava illudendo e basta.
«Come Aron farebbe con lei» pensai ad alta voce.
Avevo raggiunto il centro della pista.
Sotto i miei piedi, quadrati colorati si alternavano illuminandosi in blu, rosso e verde, mentre un led chiaro e abbastanza forte, la circondava illuminando la sala di una luce intensa e calda al tempo stesso.
Il bancone non era molto distante da me.
Dietro, un ragazzo probabilmente trentenne, serviva cocktail come se avesse saputo fare solo quel mestiere nella vita.
Veloce e coordinato afferrò uno shaker e ci butto dentro quattro, cinque, liquidi diversi. Lo chiuse, lo agitò e poi con eleganza versò il contenuto dentro un calice.
Seguii ogni singola goccia piombare nel bicchiere abbassandomi oltre il bancone fino a far toccare la punta del mio naso contro il bordo.
Avevo l'impressione che i miei occhi si fossero incrociati un paio di volte, ma quella colata densa e ambrata mi aveva stregata.
La sbornia mi aveva stregata.
Il barista mi sorrise «Prendi qualcosa?»
Le braccia muscolose e ricche di tatuaggi, gli occhi chiari e i capelli biondi.
Allungai un gomito sul bancone «Prendo te, se vuoi»
Rise.
Io invece socchiusi le palpebre e cercai di aggrapparmi al bordo del bancone «No, cioè non intendevo dirtelo, lo stavo pensando».
In realtà, la mia bocca stava dicendo delle cose e la mia testa le pensava subito dopo.
Credo si chiamino freni inibitori. Be' li avevo persi.
«Che ne dici di un Japanise? Ti vedo già bella in forma»
Mi guardai addosso. Ero in forma? Mi puzzava di sarcasmo non riferito al mio aspetto fisico. Ma il mio cervello, in quel momento, riusciva a comprendere le frasi per come venivano dette non per cosa significassero davvero.
«Vada per il Japa-coso»
Rise ancora.
Velocemente miscelò un paio di bevande nello shaker, lo chiuse, lo agitò e mi porse un Tubler alto con una cannuccia scintillante.
«Per te» sorrise, ed ora che era più vicino potevo vedere lo smile agganciato sopra la sua arcata superiore.
Allungai un dito per sfiorarglielo o forse pensai di farlo.
Lui mi guardò allampanato ed io mi fermai.
«I soldi, giusto» gettai sul bancone i pochi spicci che avevo raccolto dalla mia borsa.
Il ragazzo li guardò e poi guardò me «Sta tranquilla, offre la casa» stirò, quindi, la mano sulle monete e le spinse contro di me sulla superficie del bancone.
«Grazie»
Qualcosa mi bruciò dritto nella pancia. L'alcol era in grado di farmi sentire strana. 
Afferrai il bicchiere e mi voltai. Nel farlo urtai con le spalle il bancone del bar. Afflitta dai miei pochi riflessi, decisi che avrei sorseggiato il Japa-coso li.
«Che buono, cos'è?» Una mano molesta mi strappò il bicchiere dalle dita.
«Ridammelo!»
 Aron? Da dove diavolo era spuntato fuori?
Si infilò la cannuccia in bocca e tirò una lunga sorsata.
«Mi è stato offerto!» biascicai inveendo con la mano alzata.
Mi fissò continuando a sorseggiare il Japa-coso. Gli occhi grandi come quelli di un cerbiatto e l'aria da angioletto che non era. Affatto.
«E ora è mio» disse, pulendosi le labbra solo quando il bicchiere arrivò a metà.
«Ma è praticamente finito!» gli feci notare indicando il liquido verdognolo.
Lui sollevò il bicchiere oltre il suo naso ed annuì serio.
«Cazzo, Aron-» piagnucolai «era il mio!»
Tirò un altro paio di sorsi colmi fino a che non tintinnò solo il ghiaccio nel bicchiere.
«Vuoi ballare?»
Lo lasciò dietro le mie spalle e mi afferrò le mani.
«No, perché dovrei ballare? Io volevo bere il mio Japa...quello»
Mi ignorò trascinandomi verso la pista.
«Be', ora balli»
Afflosciai le spalle e storsi le labbra «Non mi va. Ti prego...».
Cercare di combattere la sua presa sui polsi fu inutile. Gli schiaffi che pensavo di star sferrando non erano altro che mere carezze sul dorso della sua mano.
Aron si fermò in quello che pareva essere l'unico spazio libero fra la folla di gente sovraeccitata.
Si piazzò davanti a me e si attirò le mie braccia sulle sue spalle.
«Toglimi una curiosità. È la prima volta che bevi?» 
Perché diavolo mi stava così vicino?
E perché il mio stomaco si stringeva assieme ad altre parti del corpo?
«Forse. Che ti importa?»
Cercai di fare un passo indietro o quanto meno di non sfiorarlo. Dormirci insieme mi era bastato.
«Non credi che per essere la prima volta, hai mandato giù un bel po' di roba?»
Scossi la testa «E' stato Piper ad offrirmi da bere. Ha detto che non erano tanti bicchieri.»
Aron si incupì «Tanti bicchieri? Quanti ne hai bevuti?»
Mi sporsi verso di lui ed appoggiai il mento sulla sua spalla guardando le mie dita e contando.
Mi ritrassi e gli mimai il numero quattro.
«Quattro? Quattro cosa?» Era allarmato? 
«Quattro calici di vino.»
Non rispose. Guardò alle sue spalle verso la pedana rialzata e poi tornò a guardare me.
«Che c'è? Vuoi picchiere Piper?» risi.
Questa volta fui l'unica.
Aron si sporse verso il lobo del mio orecchio «No, ma se vuoi fare "le prime esperienze", chiama me, non Piper»
Non afferrai affatto cosa volesse dirmi, in quel momento. Mi limitai ad annuire.
«Questa musica non mi piace» mormorai. Effettivamente da scuola di Zumba eravamo passati a Rave sotto i ponti di Seattle, e mi stava fracassando la testa.
«Nemmeno a me. Senti, che ne dici se ti vai a dare una sciacquata e magari bevi anche un po'»
«Bere? Cosa?» Sorrisi all'idea di bere qualcos'altro dato che sentivo  la sobrietà tornare in me.
Aron si accigliò «Acqua. Bere, acqua»
Sospirai annoiata ma acconsentii, anche perché ad Aron era difficile dire di no.
Mi voltò di spalle e indicò i bagni.
Passammo fra la gente, ma questa volta nessuno mi rifilò gomitate o pestate di piedi.
Le braccia di Aron erano attorno alle mie ed io non mi ero mai sentita più al sicuro di allora, fra tutte quelle persone.
«Ecco, entra» scostò l'anta senza maniglie del anti-bagno e lo superai.
All'interno c'era una luce forte, bianca, e poi un piccolo corridoio illuminato di rosso con due porte: una per le donne e l'altra per gli uomini.
«Odio la fila» mormorai guardando la spasa di ragazze in coda per il bagno.
«Vieni» 
Mi voltai sentendomi trascinare all'indietro.
Aron aprì la porta del bagno dei ragazzi e mi trascinò dentro.
«E' il bagno dei maschi» mi lamentai.
«Non devi pisciare, giusto? Allora puoi usare ugualmente il lavandino» Incrociò le braccia al petto.
«Quanto sei cafone» 
 Sollevai la leva del rubinetto e mi chinai per bere una sorsata d'acqua.
«Dove eri finito questa sera?» Chiusi l'acqua ed agguantai un tovagliolo di carta dal contenitore accanto alla mia testa.
Mi asciugai le labbra ed attesi di sentire la voce di Aron gettando il pezzo di carta da qualche parte sul piano in marmo del lavandino.
«In giro per la pista» Il cellulare gli vibrò nella tasca del pantalone. Lo tirò fuori, guardò lo schermo e poi l'oscurò con l'apposito pulsante.
«Come mai sei venuta qui? Non eri quella del "io non esco il Venerdì sera"?»
Mi morsi un labbro spostando -per forza di cose- il peso da un piede all'altro.
«Gretha mi ha convinto. Non sarei mai venuta qui»
Aron sospirò raggiungendo il lavandino e si issò con le braccia fino a sedersi sul bordo.
«Almeno, ti sei divertita?»
Storsi un labbro «Si...più o meno»
La mia testa aveva incominciato a protestare. Essere in quel bagno angusto con Aron non stava facendo altro che accrescere strane sensazioni contrastanti dentro di me.
«Comunque, sul serio, se certe cose non le hai mai fatte non decidere di provarle con la compagnia sbagliata»
Il fatto che lui sembrasse così apprensivo nei miei confronti, poi, mi mandava in confusione.
«E la compagnia giusta, chi sarebbe? Tu?» Ondeggiai all'indietro. Aron allungò un braccio all'istante e per fortuna toccai il bordo di marmo prima con le mani e poi con il sedere. Senza farmi male.
«Sempre meglio di quella di Piper. Dov'era, mentre tu eri in mezzo alla pista ubriaca?»
Un pugno di nervi si piazzò al centro del mio stomaco.
«Non sono una bambina, Aron!».
«Se non lo fossi, non saresti ubriaca»
Che colpo basso.
«Sei uno stronzo.»
«Ah!» esclamò «Pure!?»
«Si. Mi insulti sempre»
Sospirò fra i denti. Le gambe che gli dondolavano nel vuoto «Da quando bambina è un insulto?»
«Da quando è rivolto ad una ragazza di ventiquattro anni fatti e finiti in quella maniera.»
Scivolò giù dal lavandino toccando agilmente il pavimento con le suole delle scarpe «Be' potresti essere anche la bambina di qualcuno, a quel punto non sarebbe più un insulto.»
Non mi ci vedevo chiamata da qualcuno in quella maniera, né tanto meno, pensata in quel modo da persone diverse da mia madre o da mio padre.
«Non sono una bambina, mettitelo in testa»
Aron si mosse verso la porta.
Afferrò la maniglia con una mano mentre le dita dell'altra si dirigevano alla chiave per girarla e quindi aprirla.
«Questa sera, si.»
Gli afferrai una spalla, presa dalla rabbia, e lo voltai di scatto.
«Non sono una bambina.» ringhiai.
Come non avevo avuto il coraggio di guardare Aron fino a quel momento, non lo avevo avuto per guardare me e lo stato pietoso in cui versavano le mie condizioni nel riflesso dello specchio appeso sul lavandino. Ma potevo immaginarmi. Non volevo, ma potevo.
Alzò gli occhi al cielo.
«Se, se...Va bene, adesso fatti dare un passaggio a casa» Come provò a voltarsi di nuovo, lo fermai. Con più irruenza.
I suoi occhi si aprirono maggiormente.
«Ti sembro una bambina?» Mi indicai addosso con un gesto delle mani. 
«Devo esserti sembrata una mocciosa che non sa controllarsi alle feste solo perché ha bevuto troppo-» le mie dita sfiorarono il bordo della gonna «forse, ti potrò anche sembrare una bambina che non sa stare al mondo» le infilai dentro la gonna ed artigliai il bordo del top ricacciandolo fuori e poi più su, oltre la testa. Fissai Aron dritto negli occhi. Anzi, la mia rabbia lo fissò dritto negli occhi «Ma adesso, ti sembro una bambina?».
Le sue pupille si allargarono a dismisura. Più dell'unica volta in cui mi era capitato di vederle così.
«Che stai facendo?» mormorò. Nonostante la sbornia, colsi il fiume di agitazione che gli stava scorrendo nelle vene.
Potevo sentire tutto il sangue fluirmi sul collo e imporporare le mie guance. Dire che stavo andando a fuoco era riduttivo.
Sarei esplosa, sentivo che stava per succedere da un momento all'altro.
Per la vergogna.
Per la rabbia.
Per la voglia che avevo di...baciarlo?
Restai immobile davanti a lui: il top stretto in una mano e il seno, appena nascosto da un balconcino nero, che non esitava ad imperlarsi di sudore.
Dentro quel bagno, all'improvviso, sembrava che la temperatura si fosse alzata di almeno venti gradi.
Mi rendevo conto di ciò che stava succedendo. Sapevo di essere mezza nuda davanti a lui, sapevo anche che avevo voglia che i suoi occhi restassero su di me. Il punto era, che per quanto avessi voluto fermare tutto questo, non ci riuscivo.
L'esplosione di rabbia, di ferite ben più vecchie e profonde di quelle causate dalle prese in giro di Aron, mi avevano letteralmente travolta. Ed incontrollabile, ogni reazione non tardava a venire fuori con prepotenza. Come quando avevo deciso di sfilarmi il top.
Ma gli occhi di Aron si sollevarono dal mio seno di colpo e piombarono sul viso restandoci.
La sua espressione era un miscuglio di pensieri e sensazioni.
Se da una parte scorgevo eccitazione dall'altra, il fastidio nel vedermi assumere quell'atteggiamento era papabile.
«Rivestiti.» disse con abbastanza serietà da ferirmi.
«No.» Ero furiosa. Aron mi denigrava ad ogni occasione. Non si lasciava mai sfuggire un mio passo falso ed ora...Ora che mi stava guardando nuda, ancora una volta, era riuscito a mettermi in imbarazzo facendomi sentire piccola e insulsa e...brutta.
«Haly sei ubriaca, rivestiti» provò a sfilarmi il top dalla mano, ma lo artigliai con più forza.
Sospirò socchiudendo le palpebre e le sue spalle si afflosciarono per un attimo.
«Haly, ti prego...»
«No. Voglio che mi guardi e poi voglio che mi dici ancora che sembro una bambina»
Il motivo per cui la sbronza mi spingesse a chiedergli una cosa simile, restò ignoto per tutto il tempo.
Cosa me ne fregava? Insomma, era Aron.
Sospirò più rumorosamente.
«Te lo chiedo per favore, rimettiti quel top.» mi pregò.
Non lo avrei fatto. L'alcool me lo impediva. La parte più nascosta nella mia coscienza, me lo stava impedendo.
Perdere i freni inibitori era una bella schifezza.
Feci un passo avanti e di riflesso lui sfiorò con la schiena la porta alle sue spalle.
«Perché ti comporti così? Ti faccio schifo?»
Mi guardò allampanato.
«Che dici? No, che non mi fai schifo!» tese le braccia verso i miei polsi e li agguantò delicatamente. Allo stesso tempo però, notavo che quel gesto non era altro che un modo per tenermi a distanza di sicurezza.
«Allora perché ti comporti come se te ne facessi?»
Un altro passo, corto e veloce, portò le mie gambe fra le sue.
Piegai i gomiti, ma Aron non lasciò andare ugualmente i polsi.
«Sei ubriaca e non sai cosa stai facendo» ammise.
E...si lo ero, ma sapevo perfettamente cosa stavo facendo solo che non riuscivo a tornare al controllo della sede di comando nella mia testa.
Lo fissai dritto negli occhi. Erano belli. Belli e fumosi.
«So cosa sto facendo» mormorai allungando il mento verso il lobo del suo orecchio.
Parte del corpo di Aron si irrigidì.
«No che non lo sai. E rischi di pentirtene, perché ti conosco»
Sbottai in una risatina «Tu non mi conosci e non sai di cosa mi potrei pentire»
Spostai il viso lontano dal suo orecchio e mi ritrovai a guardare di nuovo i suoi occhi. Il suo viso sembrava accaldato, come se si stesse combattendo dal trattenersi; anche il suo respiro era più pesante.
«Di questo, si.» continuò.
Non sapevo bene cosa stesse succedendo, ma quando lui liberò i miei polsi e osservò di nuovo le mie labbra sentii infuriare la battaglia fra la mia sbronza, gli ormoni e il buon senso.
«E tu? Ti pentiresti?»
Le mie labbra sfiorarono appena le sue. Aron respirò di scatto.
La sua bocca sapeva di liquore al melone e di dolce.
Socchiuse le palpebre per un istante piegando la testa all'indietro e poi le spalancò.
«Al diavolo!» 
Vinsero gli ormoni: i suoi.
Schiuse le labbra e mi baciò: la sua lingua sfiorò la mia e avvertii lo strano effetto del piercing come una piccola vampata di piacere.
Bruciavo e non avevo la minima idea che certe cose dessero quella sensazione in particolare.
Mi fece scivolare le mani lungo i fianchi. Il mio cervello andò in tilt ancor prima che mi sfiorasse i glutei da sotto la gonna e li artigliasse. 
Mi attirò a sé e spontaneamente le mie cosce si avvinghiarono alla sua vita, e le braccia attorno al suo collo.
Mi ritrovai seduta sul bordo del lavandino in un lampo.
Le labbra massacrate dai baci roventi.
Aron era caldo, la sua pelle lo era e il suo respiro era affannoso.
Allontanò le labbra dalle mie e per un istante sentii la mancanza del contatto. Durò poco però, perché me le ritrovai a solcare ogni curva del mio collo. Il suo respiro si muoveva con me mentre inconsciamente cercavo -anzi, desideravo- il suo bacino fra le mie cosce. Mi afferrò per i capelli per farmi sollevare il mento e continuò a baciarmi sul collo, sulla clavicola.
E proprio quando arrivò a lei, la morse delicatamente. In un'altra occasione mi sarei vergognata del gemito che sfuggì dalla mia gola, ma non in quel momento. Non da ubriaca. 
Non avevo mai provato una simile voglia di qualcuno né, tanto meno, tanta eccitazione.
«Si può sapere cosa succede qui dentro?» Una mano bussò irruentemente alla porta facendo tremare lo stipite, come un fulmine a ciel sereno.
Aron si separò in fretta da me e si voltò.
Il mio top era per terra, umido per lo schifo che c'era sul pavimento ed io ero mezza nuda, con il trucco sfatto e la voglia che palpitava fra le mie cosce.
«Aron» mormorai in preda al panico portandomi le mani sul seno di riflesso.
Aron guardò me, poi il top a terra e nuovamente la porta.
«Sta calma.»
Come potevo restarmene calma, in quelle condizioni?
E poi, perché solo in quel momento avevo realizzato cosa fosse accaduto?
Ero esattamente come tutte quelle ragazze che cacciano il peggio di sé alle feste, come quelle che descriveva Aron. Esattamente, come quelle che si portava a casa e che illudeva.
«Sto per vomitare» mormorai.
Aron spalancò gli occhi «Proprio ora?»
Annuii in fretta.
«Ok, ok» si allontanò dalla porta e mi aiutò a scendere dal bordo del lavandino.
Raggiunse la tavoletta e la sollevò.
«Ti aiuto»
Ma non avevo bisogno di aiuto. Avevo bisogno di dimenticare tutto quello che era successo.
Mi chinai cercando di toccare il meno possibile attorno a me e Aron mi raccolse i capelli in una coda improvvisata.
Peggio di così non poteva andare: un attimo prima ero pronta a farmi deflorare sul lavandino di un bar ed ora, ero china con la faccia dentro al cesso a tentar di vomitare i miei errori.
«Allora? Si può sapere chi c'è qui dentro?» La voce carica di nervi dietro la porta non ne voleva sapere di darci un taglio.
«Porca puttana! Un attimo, amico!» protestò Aron.
Merda, non ci riuscivo. Per quanto sentissi il bisogno di buttare tutto fuori, il mio stomaco non riusciva a collaborare.
«Non ci riesco» dissi, dopo averci provato un paio di volte.
«Va bene. Non sforzarti, magari è solo lo spavento per colpa di questo coglione»
Mi tese una mano e l'afferrai per rialzarmi.
«Forse».
La stabilità nelle gambe non era ottimale, ma sicuramente mi ero ripresa dalla sbornia.
«Come faccio ad uscire così?» ero pronta a piangere qualora Aron non avesse trovato una soluzione, perché io ne ero a corto.
Mi guardò privo d'espressività, poi, colto da un lampo di genio si sollevò la T-shirt nera sulla testa sfilandosela.
Dovetti mordermi un labbro quando il torace muscoloso e cosparso di piccoli tatuaggi venne fuori. 
«Che stai facendo?»
Me la porse «Mettiti questa.»
«E tu?»
Abbozzò un mezzo sorriso «Fa più scandalo una ragazza nuda, che un ragazzo senza maglia»
Senza aggiungere altro mi convinsi ad accettare la maglia e la infilai sulla testa.
Aron raccolse il mio top e aprì la porta solo quando si accertò che fossi pronta.
Il ragazzo che aveva bussato insistentemente per tutto il tempo, vedendoci, borbottò qualcosa.
Sorpassandolo, Aron lo riguardò storto ma non accadde nulla. Per fortuna.
Stretta nelle spalle e mano per mano a lui, riaffiorammo dal bagno, attraversando la pista colma di gente.
«Torniamo dagli altri?» chiesi alzando un po' la voce.
Si voltò a guardarmi. La sua espressione era tutt'altro che amichevole.
«Ti riporto a casa.»
In realtà era esattamente li che volevo andare. Lontana da quel bar, dal suo bagno, da quello che mi era saltato in testa quella dannata sera.
«Amico! Che diavolo...» Mitch apparve radioso come un raggio di sole, da dietro un quartetto di ragazzi intenti a ridere e sorseggiare birre in bottigliette di vetro.
«Lascia stare, lunga storia.» disse Aron senza manifestare emozioni «Hai visto Piper?»
Ce l'aveva ancora con lui?
Mitch mimò un no con la testa.
«Ok, non fa niente» -per fortuna.
«Quindi, andate via?» Mitch spostò lo sguardo su di me poi tornò al viso del suo amico.
«Si, si. Si è fatto tardi.»
A quell'affermazione lo stesso amico di Aron restò sorpreso. 
Storse le labbra ma, in fine, si limitò a salutarlo con una pacca sulla spalla e un cenno a me.

A quel punto, non sapevo se tornare in auto con Aron, soli, dopo che l'alcool era sciamato via, sarebbe stato peggio del resto.








   
 
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