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Autore: Parmandil    03/07/2021    3 recensioni
In un tranquillo pomeriggio del 1881, l'anziano naturalista Charles Darwin riceve la visita di un giornalista incaricato d'intervistarlo in merito alla sua celebre teoria dell'evoluzione. La conversazione aprirà squarci inaspettati non solo sull'origine della nostra specie, ma anche sul suo futuro. E... siamo sicuri che l'intervistatore sia chi dice di essere?
Genere: Science-fiction, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il futuro della specie

 

   Down House era la tipica casa di campagna inglese, quella che ogni famiglia benestante desiderava. Ben inserita nel tranquillo panorama del Kent, era abbastanza vicina a Londra da permettere di raggiungerla agevolmente, ma non tanto da scorgere i tetti anneriti e le ciminiere che da diversi anni avevano trasformato la capitale. Il giovane cronista si guardò intorno: c’erano alberi e cespugli ben curati, mentre viottoli ghiaiosi convergevano verso l’abitazione. Ogni cosa sembrava pulita e in ordine. Respirò a fondo l’aria carica di fragranze, controllò per l’ennesima volta di avere la cravatta in ordine e tirò la corda del campanello. Aprì una giovane domestica, ancora con una spazzola in mano.

   «Buongiorno a voi... chi devo annunciare al padrone?».

   «Salve, dite soltanto che sono il giornalista del Times che il signor Darwin stava aspettando».

 

   Lo studio di Darwin portava l’impronta del naturalista; era ingombro di una mole impressionante di volumi, fogli, mappe. Le pareti erano tappezzate di stupendi disegni raffiguranti volatili, rettili, animali di ogni genere. Sugli scaffali erano allineati fossili di conchiglie e creature varie. Una mano anziana uscì da dietro la vecchia poltrona e appoggiò un libro sulla scrivania antistante. Il libro era aperto e lasciava vedere delle foglie inserite tra le pagine. Poi la poltrona ruotò leggermente, mostrando il suo occupante.

   Provato da lunghe malattie, Charles Darwin dimostrava molto più dei suoi settantun anni. Calvo sulla sommità del capo, aveva una lunga barba bianca che gli dava l’aria da patriarca biblico. Sotto le sopracciglia cespugliose, però, gli occhi scintillavano vigili e attenti.

   «Ah, sì, l’uomo del Times. Molto piacere», l’accolse. «Devo ammettere che mi ero scordato della sua visita». Si alzò lentamente e strinse la mano al giovane; una stretta inaspettatamente forte.

   «Il piacere è mio, signor Darwin. Complimenti per la casa... è davvero incantevole». Lo sguardo del giornalista indugiò sul libro: il grande Darwin usava una copia del suo capolavoro, l’Origine delle specie, per custodire delle foglie, come un bambino.

   «Si sta chiedendo dove ci sia più sapere?» chiese Darwin, in tono sagace.

   «Prego?». Il giornalista era stato preso alla sprovvista.

   «La pagina» spiegò Darwin «e la foglia. Quale racchiude più conoscenza?».

   «Ma... certamente la sua opera...» farfugliò il giovane, tentando di non apparire scortese nei confronti dell’autore del libro più discusso e criticato di tutti i tempi.

   «Ah, giovanotto, io ho dedicato la mia vita a uno scopo: capire perché quella foglia è fatta proprio così e non in un altro modo. Capire perché le giraffe hanno il collo così lungo, per usare un esempio caro al cavaliere di Lamarck. Capire perché esistono tante varianti di una stessa specie. Capire... ah, signor mio, una vita spesa senza cercare di capire non è degna d’essere vissuta. Ma prego, lei è qui per uno scopo. Vorrà cominciare la sua intervista».

   «Quando vuole, signore». Invitato dal gesto cortese di Darwin, il giornalista si accomodò su una sedia degli ospiti. Con movimenti rapidi per l’emozione tirò fuori dalla valigetta alcuni fogli e la sua penna stilografica: quello strumento in continua evoluzione aveva ormai soppiantato i vecchi pennini, rendendo molto più facile prendere appunti. Intanto il grande naturalista si accomodava sulla sua poltrona, con movimenti lenti e cauti dovuti alle precarie condizioni di salute.

   «Allora, signor... signor?» chiese Darwin.

   «Smith, signore. John Smith» disse il giovane, con una punta di nervosismo.

   «Bene, John Smith» ripeté Darwin con educato divertimento. «Da dove cominciamo?».

   «Dall’inizio, direi. Qual è l’origine... della sua teoria? Quand’è che la scintilla si è accesa nella sua mente, e per la prima volta ha pensato che le specie si evolvessero secondo meccanismi dettati dall’ambiente?».

   «Una buona domanda. Temo però di doverla deludere: non c’è stato nessun miracolo, nessun magico lampo d’intuizione. Sono giunto alle mie conclusioni dopo molti anni di costante, noioso lavoro di catalogazione». Il vecchio sorrise. «E dopo il mio viaggio intorno al mondo. In effetti tutto è partito da lì, anche se all’epoca non sospettavo minimamente quanto quel viaggio avrebbe influito sulla mia vita».

   «Ecco, il viaggio» puntualizzò Smith. «Quello è una cosa che interessa il pubblico. Lei ha viaggiato intorno al mondo...».

   «Sul brigantino Beagle, certo. Sono passati quasi cinquant’anni da quel 27 dicembre 1831 in cui lasciammo il porto di Plymouth. Mezzo secolo! Buon Dio!».

   «Dio? Mi perdoni, ero convinto che fosse...».

   «Ateo? Non proprio. Il mio giudizio al riguardo è spesso fluttuante, e persino nelle mie fluttuazioni più estreme non sono mai stato ateo nel senso di negare Dio. Credo che la mia posizione possa essere descritta più appropriatamente col termine agnostico» disse Darwin serafico, intrecciando le dita. «Ci sono cose che non possiamo sapere con certezza, perciò io le lascio stare. Preferisco indagare la scienza: lì esiste un cammino verso modelli della realtà che si approssimano sempre più al vero».

   «Quindi non condivide le tesi dei Positivisti... non crede che sia possibile raggiungere una conoscenza piena e perfetta dei meccanismi che regolano la Natura?» indagò il giornalista.

   «Bah! Un tempo Aristotele diceva che i sassi cadono perché la terra è il loro elemento naturale, e tutti accettavano il puro e semplice ipse dixit» disse in perfetto latino. «Diceva che i pianeti sono piccoli corpi incastonati nelle sfere celesti e nessuno osava dubitarne. Poi arrivarono i vari Copernico, Keplero, Galileo, a smontare le sue teorie. Attualmente confidiamo tutti nella teoria della gravitazione universale di sir Newton, ma chissà... magari un giorno qualcuno scoprirà che anche quella è solo un’approssimazione, e che il vero tessuto della realtà ha una trama ancor più complessa».

   «Un’ipotesi affascinante, signor Darwin» commentò Smith emozionato. «Ma tornando al suo viaggio...».

   «Il mio viaggio, sì. Lei saprà che in Patagonia trovammo i resti di grandi mammiferi estinti. Ecco, forse fu quella la prima scintilla. La teoria del signor Cuvier, accettata dai più, considerava quei fossili come i resti dei mastodonti che furono spazzati via dal Diluvio Universale».

   «Ne ho sentito parlare... era detta teoria delle catastrofi naturali, mi pare».

   «Esatto. Vede, io ero colpito dalla quantità e varietà dei resti. Inoltre mi pareva che risalissero a epoche diverse. I teorici del Catastrofismo sostenevano che vi fosse stato più di un Diluvio, e che quello biblico fosse solo l’ultimo della serie, ma io non ero convinto. Al tempo stesso non ero assolutamente in grado di formulare un’alternativa valida» ammise schiettamente. «Deciso a indagare più a fondo su quello che mi sembrava un mistero d’enorme importanza, risolsi di cercare la risposta sul campo, applicando il buon vecchio metodo scientifico di Galileo».

   «Così giunse alle Galapagos» incalzò il giornalista.

   «Ah, sì, le Galapagos. Non le scorderò mai, finché avrò vita». Gli occhi del vecchio naturalista brillarono. «Piccole isole vulcaniche, al largo della costa sudamericana, ognuna col suo particolare ecosistema. Erano come un grande laboratorio a cielo aperto. Mi accorsi che su ciascuna isola esistevano specie di fringuelli dal becco lievemente diverso, in funzione della loro alimentazione. E l’alimentazione, a sua volta, dipendeva dalle peculiarità ambientali dell’isola. Certi fringuelli avevano il becco più robusto, per spaccare semi grossi e duri. Altri, insettivori, avevano perfino imparato a estrarre vermi e insetti dalle fessure nei tronchi usando spine e ramoscelli. Eppure le isole erano separate da pochi bracci di mare... tanto era bastato perché il ceppo originario si dividesse in tante varianti. E che dire delle iguane?» continuò Darwin, accalorandosi. «Anche loro sono perfettamente inserite in nicchie ecologiche distinte, così che le iguane marine e quelle terrestri possono vivere sulla stessa isola, a poche centinaia di metri, eppure non s’incontrano mai, né si sottraggono il cibo».

   «Quindi i fringuelli, le iguane e gli altri animali delle Galapagos le suggerirono che specie diverse si evolvono da antenati comuni?» intervenne il giornalista, senza smettere di prendere appunti.

   «Sì, sì» fece Darwin, sempre più emozionato. Dopo tanti anni di dibattiti, critiche e accuse infamanti, il vecchio scienziato difendeva ancora con passione le sue idee. «In quei casi le differenze erano relativamente piccole, perciò non era difficile pensare ad antenati comuni, che colonizzarono tutte le isole ma si evolsero diversamente su ciascuna. Poco alla volta, negli anni seguenti, compresi che lo stesso meccanismo agisce su scala maggiore in tutto il pianeta».

   «Quindi, in un certo senso, le Galapagos furono la sua mela sulla testa» commentò il giornalista.

   «Prego?».

   «Beh, per quanto si tratti di un aneddoto impossibile da verificare, si dice che fu quando gli cadde una mela in testa che Newton comprese come la stessa forza d’attrazione mantenga la Luna in orbita, impedendole d’allontanarsi in linea retta dal nostro pianeta. Anche lei, come Newton, ha osservato una legge applicata su piccola scala e ha intuito che la stessa legge agisce su scala maggiore».

   «In effetti ha ragione» ammise Darwin compiaciuto.

   «E come la rivoluzione copernicana, anche la sua teoria ha suscitato accese polemiche» azzardò il giornalista.

   Darwin si fece improvvisamente cupo. «Il dibattito è indispensabile al progresso del sapere, ma non se si riduce a una sterile difesa delle vecchie idee, chiudendo gli occhi di fronte alle prove che testimoniano una realtà diversa» disse con passione. «Vede, giovanotto, due secoli fa la teoria eliocentrica tolse la Terra, e con essa l’Uomo, dal centro dell’universo. Per molti, specialmente per gli ecclesiastici, era un affronto intollerabile. Come poteva l’Uomo, la suprema creazione di Dio, occupare un luogo che non fosse il centro del Creato? Mi dica, ha letto il Dialogo sopra i due massimi sistemi di Galileo?».

   «Io... temo di no, signore» rispose il giornalista, un po’ imbarazzato.

   «Dovrebbe farlo: è un inno alla libertà di coscienza e di parola. Dicevo, se la teoria eliocentrica fu un duro colpo all’orgoglio umano, può immaginare cos’hanno fatto le mie idee. Ma io le difenderò, fino alla morte: ho raccolto troppe prove, non posso tacere di fronte alla realtà!» dichiarò Darwin, appassionato.

   «Lei si riferisce allo scandalo suscitato dalle sue teorie... applicate all’uomo?» indagò Smith.

   «Si capisce» annuì il naturalista. «Non possono più mandarmi al rogo, come ai tempi di Giordano Bruno... ma sulla gogna sì, ci sono finito» brontolò. Prese una manciata di fogli dalla scrivania e con gesto stizzito li mise in mano a Smith. Il giornalista li osservò, e dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per non scoppiare a ridere. Il viso barbuto di Darwin lo guardava pensoso, innestato su corpi di scimmia e circondato da bucce di banana. Erano caricature, ritagliate da giornali e riviste. Quasi tutte mostravano Darwin in atteggiamenti scimmieschi; in altre si vedevano scimpanzé e altri primati elegantemente vestiti, che si recavano a cene di gala e appuntamenti mondani.

   «Vede? Non hanno validi argomenti da opporre ai miei, così cercano di mettermi in ridicolo!» sbuffò Darwin. «Credo che anche il suo Times abbia pubblicato questa roba».

   «Sono desolato, mi dispiace...» farfugliò Smith.

   «Lasci perdere, giovanotto. Non è certo colpa sua» disse il vecchio, di nuovo bonario. «La gente continua a credere che, secondo me, l’umanità discenda dalle scimmie. In realtà la mia tesi è che uomo e scimmia abbiano antenati in comune. Effettivamente noi uomini abbiamo antenati in comune con tutti gli animali: basta risalire sufficientemente indietro nell’albero genealogico delle specie».

   «Nei suoi scritti, lei ha accennato alla necessità di trovare fossili dei nostri antenati che confermino la sua teoria...».

   «Certo, dobbiamo trovare questi... anelli mancanti nella catena evolutiva» annuì Darwin. «Anche se, a ben pensarci, tutti gli esseri viventi sono anelli che collegano specie diverse. Noi li inseriamo in una specie o nell’altra, per comodità di classificazione, ma in realtà l’evoluzione è un processo continuo e graduale. Comunque, finché non troveremo una quantità sufficiente di fossili dei nostri progenitori, la mia rimarrà una teoria fra molte... e io continuerò a essere disegnato con le bucce di banana in testa» si rassegnò. In quella gli cadde lo sguardo sull’orologio. «Perbacco, già le cinque! Posso offrirle un tè?».

   «Certo... molto obbligato» farfugliò Smith, che stava ancora annotando le parole del naturalista. Mentre la cameriera versava il tè fumante dal bricco di porcellana, rilesse rapidamente gli appunti. «Vedo che abbiamo toccato quasi tutti gli argomenti chiave» annunciò soddisfatto. «Se permette, vorrei solo approfondire alcuni aspetti».

   «Sono a sua completa disposizione» garantì Darwin, prima di sorbire una lunga sorsata. «Ah... se c’è un contributo indiscutibile dato dall’Inghilterra al mondo civilizzato, è il tè delle cinque. Prego, continui».

   Smith bevve rapidamente. «Dunque... lei ha detto che le prove fossili dimostreranno la validità delle sue teorie. Crede che questo avverrà in tempi brevi?» chiese.

   «Non secondo il metro dei giornali, figliolo» sospirò Darwin. «Ci vorrà costanza, fatica e anche un pizzico di fortuna... ma prima o poi si troveranno scheletri abbastanza ben conservati da non dare adito a dubbi. Questo accadrà non solo con la razza umana, ma anche con le specie animali: i fossili provano un continuo mutamento».

   «Quindi anche l’attuale aspetto dei viventi è destinato a mutare, sotto l’inarrestabile spinta evolutiva». Smith aveva parlato con scioltezza, senza dare nemmeno un tono interrogativo alla sua affermazione, ma improvvisamente Darwin sembrò a disagio.

   «Proprio così» disse, imbarazzato.

   «Mi scusi» disse il giovane «ma io sono un giornalista, e il suo improvviso cambiamento d’umore mi obbliga ad approfondire la cosa. Perché le mie parole l’hanno messa a disagio? Ha forse un dubbio, un ripensamento...?».

   «Io... sono nel dubbio, ma non per il motivo che pensa lei. Vede, la competizione che ha forgiato le specie viventi è un meccanismo spietato. Si fonda sulla sopravvivenza del più adatto, che trasmette alla prole le sue caratteristiche vincenti. Tutti gli altri, i meno adatti, devono soccombere. È la legge della giungla, per usare una frase a effetto. Per questo scopriamo tanti scheletri di specie estinte: tutte loro, a un certo punto, hanno perso la lotta per la sopravvivenza».

   «Certo, è... è una perdita terribile. Ma dove vuole arrivare?» incalzò Smith.

   «All’uomo, naturalmente. La nostra specie è l’unica a essersi sottratta a questa logica spaventosa. La maggior parte delle persone non deve più lottare e uccidere per sopravvivere. Oggi anche i portatori di handicap hanno buone possibilità di sopravvivere sino all’età fertile. Per contro, gli individui più intelligenti e creativi spesso dedicano l’intera vita allo studio e al lavoro, senza trovare il tempo di mettere su famiglia e generare dei discendenti».

   «Lei... lei non proporrà certo d’eliminare i più deboli, come nell’antica Sparta!» esclamò Smith, scandalizzato.

   Il vecchio studioso lo calmò con un gesto paterno. «No di certo. Sono convinto che anche quegli infelici abbiano diritto a una vita più dignitosa possibile. Ma come studioso dell’evoluzione, devo preoccuparmi delle conseguenze sul lungo periodo. Se guardo nel futuro della nostra specie, vedo esseri umani sempre più deboli e malati. La crescita della popolazione non ci salverà, perché ad aumentare sarà la percentuale di persone afflitte da invalidità permanenti, sia fisiche che mentali. Inoltre l’indebolimento delle difese naturali ci renderà più vulnerabili alle malattie».

   «In questo caso potrebbero sopperire le difese artificiali» azzardò il giornalista. «La scienza medica ha fatto progressi sorprendenti negli ultimi anni. I nostri pronipoti disporranno di cure che noi neanche immaginiamo».

   «Certo, ma proprio per questo saranno sempre più dipendenti dalle medicine: non ci sarà più la selezione degli individui portatori delle immunità naturali» obiettò Darwin. «La cosa peggiore, però, è che nemmeno l’intelligenza sarà più premiata dall’evoluzione, perché non saranno i più intelligenti a sopravvivere. Una società sempre più caritatevole e macchine sempre più complesse si prenderanno cura dei bisognosi. Mi guardi, giovanotto: ho già un piede nella fossa, eppure posso muovermi più veloce di un levriero... salendo su un treno. Posso comunicare a distanza maggiore di una scimmia urlatrice... con un telegrafo. Potrei persino uccidere un leone, col giusto tipo di fucile. Siamo viziati dalla tecnologia e i nostri discendenti lo saranno sempre più. Temo che un giorno non capiranno più le loro stesse macchine. Sarebbe l’inizio della decadenza umana... un destino terribile».

   Vi fu una lunga pausa di silenzio. D’un tratto Darwin scosse la testa. «Mi perdoni, signor Smith. Ho divagato».

   «Niente affatto, signor Darwin. È stato profondamente interessante» assicurò il giornalista, con un sorriso affabile. Diede un’occhiata alla finestra: il sole stava calando. «Bene, direi che abbiamo concluso» disse soddisfatto. «La ringrazio per il tempo che mi ha concesso... e la prego, ringrazi la domestica per l’ottimo tè». Si alzò, cominciando a sistemare le carte in valigia.

   «Torni pure quando vuole, signor Smith: io ormai non mi muovo più da qui» disse Darwin, con un sorriso sornione. «A proposito, quando uscirà l’articolo?».

   «Presto, molto presto. Allora... buona serata, e grazie ancora. È stato un privilegio fare la sua conoscenza» disse il giovane, emozionato. Darwin rispose con un leggero cenno del capo, mentre i suoi occhi insondabili scintillavano sotto le folte sopracciglia. Era dall’inizio della chiacchierata che osservava quel giovane, e ancora non aveva scorto il minimo difetto fisico in lui. Nessuna imperfezione, nemmeno un piccolo neo. Era un giovane alto e proporzionato, dai lineamenti regolari, apparentemente sul principio della ventina. Quando fu uscito, Darwin rimase a guardarlo attraverso la finestra. Lo vide allontanarsi con passo svelto e atletico, finché non scomparve dietro una siepe. Con la testa piena di domande, l’anziano naturalista tornò alla sua poltrona. Sentiva che non avrebbe più rivisto quel giovane fisicamente perfetto, quasi fosse stato progettato...

 

   Le ombre della sera si allungavano, il cielo era sempre più rosso. Il giovane camminava spedito. Si mise una mano in tasca, estraendo un piccolo congegno grigio di forma ovoidale.

   «Fermare registrazione. Annotare data e ora» disse, premendo un piccolo tasto. Il polpastrello affondò leggermente nel materiale elastico, resistente agli urti.

   «Ricevuto» rispose l’apparecchio. L’uomo se lo rimise in tasca.

   «Allora? Che impressione ti ha fatto?» chiese una voce femminile, proveniente da uno spazio vuoto davanti a lui.

   «Agente Delta-47. Ti spiacerebbe farti vedere?» chiese il giovane educatamente.

   «Eccomi, Omicron-39. Ti sono mancata?». La giovane donna si materializzò a un passo da lui. Aveva la pelle scura e i capelli ricci tagliati molto corti. Era alta come lui; indossava un’uniforme blu molto aderente, che lasciava intuire un fisico atletico e perfetto in ogni dettaglio. «Allora, com’era?» ripeté.

   «È stato straordinario. Ho la registrazione, ti racconterò tutto... ma prima torniamo a casa».

   «Okay. Computer, mostra l’ingresso». Una porta si materializzò davanti ai due agenti, circondata da una scintillante parete metallica che pareva dissolversi nell’aria. Entrarono in fretta, accertandosi che nessuno li vedesse.

   «Chiudere la porta, riattivare l’occultamento totale» ordinò Omicron-39. Il portello si richiuse a diaframma in una frazione di secondo.

   «Occultamento ripristinato» confermò la morbida voce del computer. L’uomo e la donna erano in una cabina di pilotaggio circolare. Si accomodarono sulle sedie dei piloti.

   «Quell’uomo era un vero profeta» disse Omicron-39. «Figurati che ha previsto il progressivo deterioramento del genoma umano. Certo, non sapeva del DNA... c’è arrivato per via deduttiva» precisò, mentre la sua collega armeggiava con i luminosi comandi olografici che fluttuavano davanti a lei. «Se solo avesse avuto a disposizione le nozioni più basilari della genetica, avrebbe trovato senz’altro la soluzione logica al problema».

   «Secondo me, è un bene che questi dibattiti siano cominciati solo nel XXI secolo» disse Delta-47. «Prima di allora l’umanità non era pronta. Insomma, non per offendere, ma... in questo secolo sono ancora dei selvaggi. Non hanno l’energia nucleare, le navi spaziali e nemmeno i computer. Si riproducono a casaccio, senza selezionare i ceppi genetici migliori... non esistono nemmeno gli uteri artificiali, e le povere donne di questo tempo sono ancora costrette a partorire, come gli animali!» esclamò, gesticolando sempre più agitata.

   «Forse non sono viziati come noi, ma in qualche modo se la cavano» ribatté Omicron-39. «Altrimenti noi non esisteremmo, giusto?».

   «Già... forse ho esagerato» ammise Delta-47, calmandosi. «A volte mi esalto nel parlare. È stata mia madre a volermi con livelli ormonali ai limiti del consentito... di quelli consentiti sessant’anni fa, intendo, quando sono stata progettata» confessò la donna che qualunque contemporaneo di Darwin avrebbe giudicato sul principio della ventina. «Adesso programmare un figlio con un carattere come il mio ti costerebbe una correzione genetica di secondo grado!».

   «A me piaci così» sorrise Omicron-39.

   «Grazie... di’ la verità, questa missione te la sei goduta» disse la pilota, digitando le coordinate di rientro sui comandi olografici.

   «Che c’è di male? Charles Darwin era un grand’uomo. Ha spianato la strada alla scienza moderna. Senza il suo lavoro, probabilmente anche il progresso genetico si sarebbe verificato con enorme ritardo. Sono curioso di sentire cosa dirà il Ministero dell’Eugenetica, quando sentirà l’intervista».

   «Ah-ah! Tieniti forte, bello. Torniamo a casa» annunciò la pilota, attivando il motore tachionico. «Caro, vecchio XXVI secolo...». Si udì un ronzio, sempre più forte, finché la macchina del tempo abbandonò la tranquilla campagna del Kent.

 

   
 
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