Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: hedera_helix    04/07/2021    6 recensioni
Quella sera la birra aveva un sapore amaro, che aumentava ad ogni bottiglia che svuotava, tanto da diventare quasi insopportabile dopo la sesta. Alcune notti erano così: il suo cervello gli remava contro, impedendogli di raggiungere il suo stato di ubriachezza preferito, quello in cui non riusciva più a distinguere a quali squadre appartenessero i giocatori che vedeva nella vecchia tv dietro al bar o ricordare perché, in primo luogo, stava bevendo. Quasi tutti i venerdì impiegava un buon quarto d’ora prima di tornare in sé. Quella settimana, invece, non ne trascorsero nemmeno cinque: non avrebbe potuto trovare un promemoria migliore nemmeno se ci avesse provato, cazzo.
Tra tutti i postacci che c’erano in giro…
L’uomo sembrava più vecchio di quanto ricordasse, il che non avrebbe dovuto sorprenderlo visto che erano trascorsi dieci anni. Era ancora quel tipo di persona che avrebbe potuto avere qualsiasi donna in ogni locale che entrava.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Erwin Smith, Levi Ackerman
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Just once




Quella sera la birra aveva un sapore amaro, che aumentava ad ogni bottiglia che svuotava, tanto da diventare quasi insopportabile dopo la sesta. Alcune notti erano così: il suo cervello gli remava contro, impedendogli di raggiungere il suo stato di ubriachezza preferito, quello in cui non riusciva più a distinguere a quali squadre appartenessero i giocatori che vedeva nella vecchia tv dietro al bar o ricordare perché, in primo luogo, stava bevendo. Quasi tutti i venerdì impiegava un buon quarto d’ora prima di tornare in sé. Quella settimana, invece, non ne trascorsero nemmeno cinque: non avrebbe potuto trovare un promemoria migliore nemmeno se ci avesse provato, cazzo.
Tra tutti i postacci che c’erano in giro…
L’uomo sembrava più vecchio di quanto ricordasse, il che non avrebbe dovuto sorprenderlo visto che erano trascorsi dieci anni. Era ancora quel tipo di persona che avrebbe potuto avere qualsiasi donna in ogni locale che entrava. Indossava dei pantaloni e un paio di scarpe con i quali sarebbe stato impossibile andare a correre e una bella camicia, la cui manica destra era stata appuntata sulla sinistra con uno spillo per coprire un moncherino.
Iniziò a provare una strana sensazione, una specie di tristezza mista a sollievo. Non era l’unica persona presente, ma era davvero sconvolgente che, tra tutti quanti, doveva incontrare proprio Erwin. A quel punto avrebbero potuto chiamare anche il resto della truppa. Non che ormai avessero qualche possibilità di farlo.
Levi era indeciso tra l’impulso di gridare per attirare l’attenzione dell’uomo e il prendere la sua giacca dalla sedia e sgattaiolare fuori dalla porta. Un fottutissimo impulso davvero stupido. Almeno avrebbe dovuto salutarlo dopo l’inferno che avevano affrontato insieme. L’inferno che avevano dovuto entrambi affrontare — erano vivi, anche se non del tutto interi. Non che non sapesse che cosa fosse che gli facesse venire voglia di scappare. Non che non lo avesse saputo dieci anni prima.
Levi aspettò che fosse Erwin a fare la prima mossa, anche se questo poteva sembrare un atteggiamento da codardo. Fece del suo meglio per rispondere al sorriso dell’uomo, anche se l’espressione che comparve sul suo volto non sembrava essere quella giusta. Comunque scomparì pochi istanti dopo essere riuscito a farlo comparire sulle sue labbra. Improvvisamente non poté fare a meno di chiedersi quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che aveva sorriso. Il sorriso di Erwin era più sereno, durò più a lungo e si adattava meglio al suo viso. A Levi sembrò strano ricordare che, una volta, quell’espressione fosse la cosa più fottutamente rassicurante che riuscisse vedere.
Ce la faremo! Ce l’abbiamo fatta! Ci rimane ancora un giorno di combattimento!
Un altro promemoria dei tempi andati, dei giorni in cui la morte era davvero in allerta dietro l’angolo, ma non era mai stata qualcosa che avevano desiderato. Giorni sicuramente più assennati; con una pistola  stretta in mano, vivevano nella paura costante di che cosa potesse nascondersi sotto quella foschia rossa causata dalla sabbia, sempre presente ogni volta che salivano sopra un Humvee.
Gli sembrava così sbagliato avere con Erwin una di quelle conversazioni che iniziavano con una serie di domande di circostanza: ‘Da quanto tempo sei tornato?’ ‘Hai sentito qualcuno degli altri?’ ‘Vi siete visti qualche volta?’. Per non parlare delle risposte: ‘Cazzo, non lo sapevo’, ‘Pensavo davvero che ce l’avrebbe fatta’, ‘No, hai ragione’, ‘Non si sa mai’, ‘È qualcosa che ti fa davvero riflettere’.
E Levi non avrebbe mai voluto dire quelle parole a Erwin, non quelle  cose che lo avrebbero fatto pensare e che ci si aspettava che dicesse: ‘avrei potuto essere io’ o ‘suppongo che dovrei essere grato di essermene andato quando l’ho fatto’. Fanculo a tutto quanto. Sarebbe tornato anche l’indomani se glielo avessero permesso.
“Come sta tua moglie?” chiese.
Non era proprio riuscito a trattenersi, anche se aveva notato che la fede che di solito Erwin portava al dito non c’era più. Un tempo aveva sognato di spezzare quel anello a metà con i denti e sputare via tutti i pezzi.
“Meglio ora,” rispose Erwin, con una risata sommessa, “dopo il divorzio.”
“Scusami. Non lo sapevo,” replicò Levi.
“Non preoccuparti,” spiegò l’altro uomo, facendo capire che lo intendeva davvero. “È meglio così, per entrambi.”
Levi annuì e la conversazione terminò, almeno fino a quando Erwin non domandò:
“Ti sei mai sposato?”
Levi ridacchiò sottovoce e fissò la sua bottiglia di birra, pensando a che cosa dire.
“Non sono il tipo da matrimonio,” decise infine di rispondere.
Sperò che Erwin cogliesse il suggerimento… in quel momento, dopo dieci fottuti anni.
“Immagino che non sia per tutti,” osservò l’altro uomo, emettendo un suono a metà tra un ronzio e una risata.
Levi non poté fare a meno di chiedersi se in quel momento stesse pensando alla sua ex moglie.
Non parlarono di nulla di troppo speciale, nulla di troppo personale, sapendo entrambi che vi erano domande che potevano essere fatte solamente dopo un altro paio di birre. Girarono intorno all’argomento   criticando la Veteran Administration e parlando di politica. Uscirono dal bar dopo che Erwin lo ebbe improvvisamente suggerito; forse era consapevole, proprio come Levi, che il locale era troppo rumoroso per il tipo di storie che stavano per condividere. Percorsero due isolati prima di arrivare all’appartamento di Levi e, quando giunsero a destinazione, il sorriso di Erwin fece vacillare il suo equilibrio peggio di tutte le birre che aveva bevuto quella sera. Era peggio persino del dolore alla caviglia che stava cercando con tutte le sue forze d’ignorare perché non voleva che l’altro lo vedesse camminare zoppicando.
“Molto pulito,” osservò Erwin.
Levi sapeva perfettamente che doveva essere un particolare che ricordava bene, visto che non vi era nessun altro commilitone che teneva le proprie cose in modo così ordinato e pulito come faceva lui.
“Puoi far congedare un uomo dall’esercito, ma non puoi far congedare l’esercito dal cuore di un uomo,” mormorò, sorridendo quando l’altro ridacchiò.
Continuò a ripetersi che il calore che sentiva divampare nella bocca del suo stomaco fosse causato solamente dalla birra e non dalla voce di Erwin, che continuava a parlare mentre si sedettero sul divano per bere. Non aveva certo bisogno d’ammettere che stava mentendo a se stesso. Cazzo, potevano anche essere passati cento anni dall’ultima volta che si erano visti, ma avrebbe potuto riconoscerlo ovunque — riconoscere che cosa gli faceva, come ogni parola mettesse ancora più pressione al livello del suo inguine. Era come svegliare dei fottuti morti.
“Come va la gamba?” chiese Erwin dopo aver finito la birra che gli aveva dato.
Si rifiutò di prenderne un’altra.
Levi non poté evitare di lasciarsi sfuggire una risata amara.
“Non va bene per niente,” rispose, ridacchiando quando l’altro uomo abbassò lo sguardo sulla sua caviglia. Non era altro che un’inutile collezione di legamenti e ossa inesistenti che si erano rinsaldati in modo errato, anche dopo tutti gli interventi chirurgici e le innumerevoli sedute di terapia a cui si era sottoposto. “Non vi è nulla di funzionante, comunque.”
“Mi spiace molto sentirlo,” rispose Erwin.
Levi non riuscì proprio a guardarlo. La pietà nella sua voce era già abbastanza deprimente da sola.
“Un paio di anni fa ho chiesto ai medici se potevano amputarmela,” confessò, per poi scoppiare a ridere. “Pensavo che sarei stato meglio con la protesi. Non avrai più provato un dolore costante. Quei fottuti stronzi mi risposero che, per quanto li riguardava, questo era il massimo che potessi ottenere e mi rispedirono a casa, dicendomi che, se lo desideravo veramente, di rivolgermi da qualche altra parte. Come se potessi mai permettermi un intervento del genere con la mia pensione di merda.”
Quelle parole avevano nella sua bocca un gusto di bile — non che la cosa lo stupisse visto quanto tempo aveva speso per trattenerle. Non aveva pensato nemmeno per un istante al moncherino in cui si era trasformato il braccio di Erwin, almeno fino a quando non lanciò finalmente uno sguardo verso di lui, scusandosi per quello che aveva appena detto.
“Va tutto bene,” lo rassicurò seccamente l’uomo. “A dire il vero, il disturbo post traumatico da stress è peggio della perdita del braccio.”
Levi lo fissò. Sapeva che avrebbe dovuto dire qualcosa, ma non trovò proprio le parole per farlo. Non lo sorprese sapere che Erwin ne soffrisse.
All’inizio le cose erano state difficili tra di loro, quando ancora non aveva mai avuto un comandante tanto abile, un comandante per il quale sarebbe stato felice di donare la vita per salvarlo. Aveva impiegato del tempo per conoscere il vero Erwin, l’uomo che si preoccupava per i suoi soldati, che spesso aveva bisogno di essere allontanato dai pensieri che gli affollavano la testa e dai propri sensi di colpa. Alla fine era arrivato al punto che sarebbe morto per l’uomo — cosa a cui era andato fottutamente vicino più di una volta. Non gli sembrava giusto ammetterlo, ma quelli erano probabilmente stati i momenti migliori della sua vita.
“Quindi stai facendo delle sedute con lo psicologo e tutto il resto?”
Erwin annuì.
“Sono in terapia, sì.”
“Sì, giusto,” rispose Levi, rimanendo in silenzio per prendere un altro sorso. “Hanno cercato di convincere anche a me a fare quella cagata di sedermi con qualcuno a parlare.”
“E non hai voluto farlo?”
Levi ridacchiò nuovamente.
“Che cosa? Andare da uno sconosciuto per raccontargli i fatti miei?” chiese, scuotendo la testa. “Assolutamente no. Non saprei nemmeno da dove iniziare.”
“Capisco che non è qualcosa per tutti,” rispose Erwin dopo qualche momento. La sua voce era esitante. “Però, può essere veramente d’aiuto. Alcune cose è sempre meglio dirle a voce alta, anche se solamente di fronte a uno sconosciuto.”
Levi annuì, ma non perse nemmeno un istante per prendere in considerazione il consiglio che l’altro uomo gli aveva appena dato. Non riusciva a capire come parlare con qualcuno avrebbe potuto farlo sentire meglio a proposito del non ricordare il momento in cui aveva smesso di pensare alla ginnastica come puro allenamento fisico e aveva iniziato a vederla come una terapia o come, anche il non comprenderlo, gli faceva comunque provare il desiderio di sparare una pallottola all’interno del suo fottutissimo cervello.
“Ci pensi mai?” gli chiese improvvisamente Erwin, facendogli alzare lo sguardo. “Ci pensi mai alla guerra?”
Levi spostò nuovamente lo sguardo sulla sua bottiglia e scrollò le spalle.
“Cerco di non farlo,” rispose, bevendo un altro sorso in modo da cercare di ignorare il dolore lancinante al petto.
“Te ne sei mai pentito?”
“Pentito di cosa?” chiese di rimando Levi.
Improvvisamente la rabbia iniziò a prendere il sopravvento sul dolore. Di che cazzo avrebbe dovuto pentirsi? Dell’unica cosa significativa che avesse mai fatto nella sua vita di merda? Essere lì per assicurarsi che Erwin potesse tornare a casa per vivere la propria?
“Non lo so con esattezza,” confessò l’altro uomo, sospirando. “Fallujah, Baghdad… tutto quanto.”
Levi rimase in silenzio per un po’ e non poté fare a meno di chiedersi come mai quei nomi non gli facevano tornare alla mente colpi di pistola, mortai e mine antiuomo. Al momento, infatti, lo facevano pensare a Erwin. Solamente a Erwin.
“Come ho già detto,” mormorò, “cerco di non pensarci.”
“E per te questo funziona?”
Levi lo schernì amaramente e bevve un altro sorso di birra. Aveva funzionato per lui. Che cazzo di paradosso.
“Tu te ne sei pentito, non è vero?” chiese invece di rispondere direttamente.
Erwin sospirò nuovamente.
“Non lo so,” ammise. “Qualche volta. Alcuni giorni vorrei non essermi mai arruolato.”
Levi si voltò per guardare l’altro uomo. La rabbia stava soffocando quello che rimaneva del suo dolore sordo e una serie di parole iniziarono a volteggiargli nel cervello. Erwin avrebbe voluto non essersi mai arruolato: che grandissimo cumulo di stronzate.
“Non me ne pento,” ammise Levi, senza guardare l’altro in volto. “Se solo potessi, ci tornerei anche in questo istante. Uno dei motivi per il quale ho chiesto ai medici di tagliarmi la gamba è stato proprio per poter tornare al servizio attivo.”
Erwin rimase in silenzio, come se stesse pensando a che cosa rispondere. Levi non poté fare a meno di chiedersi se stesse cercando di trovare un modo educato per dirgli che, un uomo che desiderava che gli amputassero una gamba solamente per tornare in zona di guerra, fosse un fottuto pazzo.
“Immagino che sia meglio concentrarmi sulle cose di cui non mi pento,” rispose alla fine, con un tono di voce cauto e conciliante.
“Di che cosa non ti penti?” chiese Levi, serrando i denti quando vide l’altro sorridere.
“Le amicizie che ho stretto. La famiglia che ho costruito,” spiegò Erwin. “È un’esperienza unica. Nonostante le perdite che ho subito siano state molto dolorose, continuo ad esserne grato.”
Levi emise un grugnito di approvazione e si concesse qualche momento per ripensare ai loro compagni.  Non gli sembrava ancora vero che Mike e Nan fossero morti. Ancora si aspettava di incontrarli in uno dei soliti bar che frequentavano.
“Qualche volta ti ho pensato,” ammise Erwin. Levi non poté fare a meno di spostare nuovamente lo sguardo su di lui, mentre qualcosa gli scoppiò improvvisamente nel petto come se si fosse trattato di una granata. “Continuavo a domandarmi come stessi vivendo il tutto, ma, come si dice, ‘non chiedere, non dire’.”
Levi rimase qualche istante immobile a fissarlo, dimenticandosi per un lungo momento che stesse ancora stringendo tra le mani la bottiglia. Non riusciva a comprendere se la sua mente fosse sconvolta di più per l’alcol o per le parole di Erwin. Non disse nemmeno una parola quando si mise nuovamente a sedere sul divano. Riusciva a percepire il disagio dell’altro uomo mentre il silenzio si faceva sempre più pesante, ma non sapeva proprio che cosa dire per romperlo.
Erwin lo sapeva. Lo aveva saputo per tutto quel fottutissimo tempo.
“Mi spiace,” aggiunse, quando si rese conto che Levi non avrebbe detto nulla. Sembrava davvero imbarazzato. “Non volevo offenderti…”
“Non lo hai fatto,” riuscì finalmente a rispondere Levi, bevendo qualche sorso abbondante della sua birra.
Erwin ridacchiò. Dal suono sembrava sollevato.
“Ho pensato che, forse, avevo giudicato male la situazione o…”
“Non lo hai fatto,” rispose nuovamente Levi.
Il suo cervello era troppo impegnato ad impedire ai ricordi di invadergli la mente: come pensava a Erwin, come pensava ancora a lui e come non pensava a nessun altro oltre che lui.
“Il congedo mi ha aiutato a pensarci,” spiegò Erwin. Levi non si sentì ancora pronto per voltarsi a guardarlo. Non riusciva proprio a credere che ne stavano parlando, soprattutto in un modo così fottutamente casuale. Sembrava come se si trattasse di un qualsiasi altro argomento, come se non fosse qualcosa che riguardava realmente loro due. “Ho continuato a chiedermi se avrei potuto fare di più per… O… non lo so… forse non avevi davvero bisogno di…”
“No, non avevo bisogno di nulla,” rispose Levi seccato, prendendo un altro sorso della sua birra. “Non sarebbe cambiato nulla. Sarebbe stato tutto uguale.”
“Suppongo,” concordò Erwin, sospirando. “A volte mi chiedo se avrei dovuto fare le cose in modo diverso, se avrei dovuto impegnarmi di più per mantenere le distanze. Quando ti sei congedato dal esercito e non hai fatto sapere più tue notizie, però, ho pensato che avrei dovuto andare avanti, che forse la mia testa aveva lavorato troppo d’immaginazione.”
Quelle parole fecero irrigidire ogni muscolo del corpo di Levi. Improvvisamente si sentì come se non riuscisse più a stringere la sua bottiglia di birra. Il cuore gli martellava contro le costole, in modo pesante e doloroso, e un senso di panico cresceva al livello del suo petto.
“Non dovrei dirlo, ma sento che in qualche modo ha contribuito al mio divorzio,” aggiunse Erwin, ridacchiando leggermente. “Penso che, vedere com’eri quando eri con me, mi ha fatto capire che mia moglie non si comportava allo stesso modo.”
Nel tentativo di allontanarsi velocemente dall’altro uomo, Levi versò a terra la sua birra. Fu una mossa di riflesso, automatica, come se si fosse trattato di un cervo selvatico che era rimasto impigliato con le corna in un recinto fatto di filo spinato.
La mano di Erwin scattò verso l’alto, lo afferrò per la felpa con il cappuccio e lo tirò indietro, verso il divano. Levi cercò di divincolarsi. Non era certo di volerlo veramente, ma ci provò comunque.
“Levi,” disse l’altro uomo, stringendo la presa intorno alla manica della felpa. “Levi, va tutto bene. Non è…”
Avvicinandosi, strinse la testa dell’altro tra la sua mano e la fronte, premendosi contro di lui. Levi non aveva mai provato un dolore simile in tutta la sua vita. Gli ci vollero alcuni secondi per rendersi contro che stava stringendo il davanti della camicia di Erwin. Il suo pugno era serrato, come se si stesse preparando per colpirlo. In quella posizione riuscì ad udire il respiro affannoso dell’altro uomo e l’odore di alcol nel suo alito. Vide lo sguardo intenso e febbricitante dipinto negli occhi dell’uomo e questo lo fece sentire così disperato, così fottutamente e pateticamente disperato. Doveva averlo. Solo per una volta. Solo per una fottuta volta.
I baci sembravano come un pugno in bocca e Levi li lasciò velocemente perdere, cadendo in ginocchio ai piedi del altro uomo per iniziare ad armeggiare con le sue agili dita per aprire la fibbia della sua cintura. Quando Erwin portò la mano sopra la sua, la scacciò con impazienza, continuando a slacciare, sbottonare ed aprire la zip dei pantaloni. Lo sentì pronunciare il suo nome, un’imprecazione tra i gemiti, e questo gli fece tornare alla mente tutti i sogni sporchi che aveva fatto, dove Erwin lo tirava per i capelli e scopavano fino a quando non erano entrambi esausti e senza fiato. Ma non appena osò anche solamente pensarlo, sentì la carne nella sua bocca ammorbidirsi, così come il tocco della mano di Erwin sui suoi capelli; era diventato un gesto gentile, rassicurante, come quello di un padre che cerca di calmare il suo bambino.
“Levi,” sussurrò con voce spezzato, tanto da doversi schiarire la gola. “Levi, mi dispiace, ma io non…”
Levi lasciò che Erwin si spostasse sul divano, unisse le sue gambe insieme e si risistemasse. La sua mente era vuota, così come il suo corpo e il suo cuore.
“Non posso farlo con te,” spiegò Erwin. “Non questo.”
Quando l’altro uomo si richiuse la porta alle proprie spalle, il rumore che provocò fu simile allo scoppio di uno sparo. Era un suono familiare per Levi, ma fu comunque in grado di fargli attorcigliare lo stomaco, costringendolo a correre in bagno per vomitare tutto quello che aveva in corpo. La sua caviglia cedette sotto il proprio peso, causandogli un secondo dolore lancinante che lo fece cadere a terra. Appoggiò la testa contro le piastrelle fredde, desiderando che il pavimento fosse sabbia, desiderando di sentire il vento caldo che soffiava attraverso il deserto, seppellendo in questo modo tutto ciò che rimaneva di lui, quel poco che rimaneva di lui.



Ciao a tutti!
Per chi volesse, qui troverete la storia in lingua originale.
A presto,
JodieGraham


 
   
 
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