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Autore: Bored94    05/07/2021    0 recensioni
Le vite dei jōi4 (o una parte di loro) prima dell'incontro con Yoshida Shōyō
+ un capitolo extra dal punto di vista di Shōyō sensei
Genere: Angst, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gintoki Sakata, Kotaro Katsura, Takasugi Shinsuke
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo IV: Yoshida Shōyō


 

La prima volta fu colpa della fame.

La seconda volta ci pensarono i lupi. Quella persona gli aveva detto di non allontanarsi da solo nei boschi, ma non aveva ascoltato.

La terza volta la sua morte fu causata da altre persone. Bastò un errore e fu l'inizio della fine. O forse fu solo l'inizio. Dopotutto le capacità degli umani di infliggere dolore e morte erano infinite, come poteva esserci una fine?

La spada lo attraversò da parte a parte e cadde riverso al suolo. Si risvegliò qualche ora dopo. Troppo presto. Lo avevano messo insieme ai cadaveri degli altri caduti sul campo di battaglia, in quel momento si trovava ancora in mezzo ai corpi dei propri compagni che aspettavano la sepoltura. I soldati ancora vivi stavano scavando le tombe di fortuna in cui gettare i cadaveri e non si accorsero immediatamente dell'uomo che si stava alzando. Appena lo videro imbracciarono le armi e gli furono addosso. Lui era più forte di un normale umano, ma loro erano troppi ed erano i suoi compagni. Non voleva far loro del male. Li vide avvicinarsi, gli occhi sgranati per la paura e le spade puntate contro di lui. Fece un passo indietro sollevando le mani e sorridendo in modo rassicurante. Aprì la bocca per spiegare, ma al posto della sua voce uscì solo un fiotto di sangue. Rivolse uno sguardo incredulo e triste ai suoi compagni prima di accasciarsi al suolo, trafitto dalle lance.  

Questa volta era stato prudente, ma non era bastato. La katana gli tagliò di netto la testa, che rotolò per qualche metro prima di fermarsi contro un sasso poco distante. Gli occhi vitrei ancora aperti fissi verso il cielo.

Il cappio si strinse attorno al suo collo, poteva sentire la corda tirare sempre di più. Cercò di controllare il respiro, ma quegli uomini continuarono a tirare. Presto i suoi piedi si staccarono dal suolo e iniziò ad annaspare. Poteva sentire la fune segargli la pelle, i polmoni iniziarono a bruciare mentre gli spasmi iniziavano a scuotere i suoi muscoli. Si portò istintivamente le mani alla gola, cercando di strappare la fune, ma più il tempo passava, più sentiva le forze venirgli meno. Nemmeno l’adrenalina data dalla paura che si stava impossessando di lui riuscì a dargli abbastanza forza per liberarsi. Provò a supplicare, ma la voce gli si bloccò in gola, insieme ai suoi respiri sempre più brevi e affannosi. Poi sopraggiunse il buio. 

Avrebbe dovuto abbandonare quel villaggio molto tempo prima. Lo sapeva. Eppure non lo aveva fatto. Perché non lo aveva fatto? Aveva passato così tanti anni ad evitare le altre persone, aveva vissuto isolato e al sicuro per decenni, perché questa volta aveva ceduto? Perché aveva riaccompagnato quei contadini al villaggio dopo averli salvati dai briganti? La strada ormai era sicura. Avrebbe potuto lasciarli andare per conto proprio, invece li aveva seguiti fino al villaggio. Aveva ceduto alle loro suppliche ed era rimasto con loro. Aveva anche permesso loro di scoprire la sua vera natura e loro non lo avevano cacciato. Era per questo? Perché quelle erano state le prime persone che non lo avevano trattato come un mostro dopo così tanto tempo? Era davvero così debole e patetico? Il risultato? Erano morti. Si era allontanato dal villaggio solo per qualche ora e al suo ritorno le case erano state bruciate e gli abitanti erano morti. Non tutti però. No, era riuscito a trovarne alcuni ancora vivi nelle mani dei loro aggressori.
Aveva combattuto.
Aveva supplicato.
Ma era stato inutile. Quegli uomini erano troppi e lui non poteva combattere al meglio delle proprie capacità. Gli ostaggi erano troppo vicini. Le spade del nemico erano pericolosamente vicine alle loro gole, a ricordargli che anche se avesse vinto sarebbero morti comunque. Riuscirono a disarmarlo. Tentò di contrattare: non avrebbe più cercato di resistere ma per favore, per favore, per favore, che lasciassero andare quei ragazzini.
Supplicare fu una perdita di tempo.
I ragazzini vennero uccisi uno dopo l'altro tra le urla e i tentativi di fuga, mentre quattro persone lo circondavano e gli trafiggevano le gambe e le braccia in modo che non potesse intervenire. Lo costrinsero a guardare mentre uccidevano gli ostaggi uno per uno, mentre la disperazione si impadroniva di lui e restava a fissare impotente. Avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma era colpa sua se tutto ciò stava accadendo, era solo colpa sua e guardare era la sua punizione. Solo alla fine i suoi aguzzini ebbero la misericordia di ucciderlo.

Rintanarsi nei boschi o nascondersi tra la folla non era più possibile. Sembrava che le storie su di lui ormai circolassero liberamente, tutti sembravano sapere del mostro immortale che vagava per quelle terre. Era abbastanza sicuro che ci fosse una taglia sulla sua testa. Aveva la certezza che ormai dargli la caccia e cercare di ucciderlo fosse la nuova attività preferita dagli umani. Una nuova sfida. Fece una smorfia disgustata e si calò il sandogasa sul viso.

Non riusciva a muoversi, l'effetto del veleno che gli avevano somministrato non era ancora scomparso. Per quanto tentasse, non riusciva a sollevare nemmeno un dito, mentre lo infilavano nella cassa. E nemmeno quando la cassa venne lanciata in mare. Mentre quella bara improvvisata si inabissava, poteva sentire le voci disgustate degli umani che lo avevano gettato in mare, mentre esultavano cinicamente della sua morte e della sua sofferenza.
«Se il mostro non può morire, ci assicureremo che non possa più liberarsi» avevano sogghignato, dopo averlo legato e calato nella cassa insieme ad alcune grosse pietre. Avevano chiuso il coperchio e avevano calato quella specie di feretro in mare. Presto l’acqua aveva iniziato ad infiltrarsi tra le assi.
«E se si dovesse liberare?»
«Come dovrebbe fare a liberarsi? Non hai visto come era legato? Vedrai che ce ne siamo sbarazzati una volte per tutte...»
L’acqua lo stava ormai comprendo totalmente e aveva iniziato a farsi strada nei suoi polmoni. Istintivamente cercò di tossirla fuori e di trattenere il respiro, ma i suoi polmoni si contrassero con uno spasmo in cerca di ossigeno e altra acqua si fece strada nel suo naso e nella sua gola. Dopo quelle che sembrarono ore fu di nuovo in grado di muoversi. Sapeva che dimenarsi non sarebbe servito a nulla, ma non poté fare a meno di agitarsi per tentare di liberarsi. Chiunque lo avesse legato non aveva fatto un buon lavoro perché presto i nodi cedettero e lui si trovò a spingere contro il coperchio della cassa, cercando di aprirla. La pressione dell’acqua però esercitava molto più forza dei suoi muscoli ancora indeboliti dal veleno e i suoi polmoni continuavano ad annaspare inutilmente in cerca d’aria. Sarebbe morto così dunque questa volta. E anche la prossima. E quella dopo. Il suo corpo avrebbe continuato a rigenerarsi e a riportarlo in vita, i suoi polmoni avrebbero continuato ad annaspare in cerca di aria e lui sarebbe affogato ancora e ancora. Il panico iniziò a impossessarsi di lui, ma non servì a nulla. L’agitazione gli faceva soltanto sprecare le energie più in fretta, gli faceva inspirare acqua sempre più in fretta, in una disperata e irrazionale ricerca di ossigeno.

Non sapeva quanto fosse passato, quante volte si era risvegliato per poi affogare di nuovo? Aveva perso il conto dopo le prime dieci. A un certo punto alcuni pesci erano riusciti a farsi strada tra le assi della cassa. Qualcosa lo aveva punzecchiato. Qualcosa a un certo punto lo aveva morso e questo aveva risvegliato una nuova ondata di panico e nuovi tentativi di liberarsi. Non era servito a nulla. Doveva essere giunto in profondità perché era circondato dal buio e dal silenzio. Morire non era diventato più facile o meno spaventoso. Gli occhi continuavano a bruciare. I polmoni continuavano a cercare spasmosdicamente ossigeno e a riempirsi d’acqua. Le ferite sulle sue mani causate dai tentativi di aprire la cassa avevano smesso di rimarginarsi a causa dell’acqua. Faceva male. Tutto faceva male. E aveva paura. Avrebbe passato così l’eternità? Perché? Non aveva mai fatto del male alle persone, nonostante gli avessero dato la caccia e lo avessero ucciso. Perché lo odiavano e lo temevano? Perché non potevano semplicemente lasciarlo in pace? Perché non-

Lo aveva trovato. Aveva trovato il villaggio delle pers- degli umani che lo avevano gettato in mare. Rimase a guardare le fiamme consumare le case poco distanti fino a quando l’incendio non si fu estinto.

Quella non fu l’ultima volta ovviamente. Dopo quell’episodio venne ucciso ancora molte volte. Venne giustiziato, smembrato, bruciato vivo più volte di quanto potesse ricordare, ma il dolore… quello lo ricordava. Ricordava l’acqua entrargli nei polmoni, ricordava il fuoco mangiargli la carne e le lame dei suoi aguzzini farlo a pezzi. Ricordava tutto. Aveva supplicato e ucciso, ma il risultato era sempre lo stesso. Che si lasciasse guidare dalla paura o dalla rabbia, il risultato non cambiava. Mai.

Alla fine lo avevano rinchiuso. Non avrebbe saputo dire quanto rimase rinchiuso in quel posto, ma aveva davvero senso parlare di tempo? Non sarebbe comunque morto. Non davvero. La cella in cui si trovava era umida e buia, di un buio opprimente che ricordava le profondità del mare in cui era stato gettato. A volte quel pensiero era sufficiente a togliergli il fiato e a impedirgli di respirare, come se i suoi polmoni fossero di nuovo pieni d’acqua. I giorni si trasformarono in settimane, in mesi, in anni. Quando il buio si faceva soffocante, l’uomo si rintanava in un angolo della propria mente, cercando di scomparire. La fame e la sete presto smisero di avere importanza, erano diventate un altro modo per scandire il passare dei giorni: per morire di fame e disidratazione era necessaria all’incirca una settimana, a volte anche meno. Non era solo però. Le voci nella sua testa gli tenevano compagnia. Alcune avevano paura, erano terrorizzate dal buio, dalla fame, dalla sete, del dolore, dalla morte… altre erano furiose con gli umani. Un paio li compativano poiché gli umani temevano ciò che non erano in grado di capire, molte altre li odiavano, di un odio viscerale e assoluto. Erano loro al comando quando le sbarre della prigione non furono più in grado di contenerlo. Erano loro al comando quando nacque Utsuro. 

«Hai sentito? Sembra che quel demone sia di nuovo nei paraggi...» sentì bisbigliare un uomo poco distante. Per un attimo si irrigidì e portò una mano all’elsa della katana, ma si rilassò subito. Non stavano parlando di lui. Lo sapeva. Erano secoli che non mostrava il suo volto al mondo, era rimasto nascosto dietro la maschera del corvo così a lungo che ormai le storie su di lui erano state dimenticate. Aveva speso molte delle sue vite a capo del Tenshōin Naraku e nessuno era più in grado di riconoscerlo. La sua fuga non cambiava nulla. Proseguì per la sua strada, intenzionato a ripartire il prima possibile, ma la sua attenzione venne attirata da una conversazione poco distante.
«Un amanto, vi dico. È uno di quei disgustosi alieni che stanno arrivando ad invaderci.»
«Stupidaggini, perché mai un amanto dovrebbe avere quell’aspetto? A cosa gli servirebbe in guerra? No, ti dico che è un demone, sicuramente nato dagli spiriti dei bambini morti orfani.»
«Beh» aggiunse un terzo «qualsiasi cosa sia quell’essere, è inquietante e decisamente non umano. Avete visto i suoi capelli? Sono del colore dell’argento...»
«I capelli? Perché vogliamo parlare degli occhi? Sono rossi. Mio cugino ha detto che se lo è trovato davanti una notte e gli occhi di quel piccolo mostro brillavano come due pozze di sangue.»
«Questo perché si nutre di cadaveri» intervenne un altro. «Non lo sapete che vaga sui campi di battaglia e si nutre dei morti rimasti senza sepoltura? Una delle figlie di Kimura, il fabbro, lo ha visto aggirarsi tra i cadaveri due notti fa.»
Il primo uomo ad aver parlato sputò in terra. «Non rispettare nemmeno i morti. Dobbiamo liberarci di quel demone o qualunque cosa sia prima che attiri l’ira dei caduti su di noi.»
«Tsk e chi dovrebbe andarci? Vuoi forse avvicinarti tu a quel piccolo mostro?»
La discussione si trasformò in un litigio su chi avrebbe dovuto occuparsi del demone e Shōyō, come aveva deciso di farsi chiamare in questa vita, si avvicinò al gruppo. Si schiarì la voce per attirare la loro attenzione proprio mentre gli umani stavano decidendo che forse sarebbe stato meglio organizzare un gruppo apposito per liberarsi del mostro.
«Scusatemi» intervenne Shōyō con un sorriso conciliante in viso, «non ho potuto fare a meno di sentire i vostri discorsi. Siete sicuri che si tratti di un demone o di un amanto?»
Gli uomini gli rivolsero uno sguardo perplesso, non avevano notato la sua presenza fino a quando non si era rivolto direttamente a loro. «Che altro dovrebbe essere? Sembra un bambino, ma ha capelli argentati, occhi rossi e pelle chiarissima, vaga per i campi di battaglia cibandosi di cadaveri e più di un uomo che ha osato avvicinarsi è stato ferito da lui!»
«Capisco» annuì lui, attento a non far vacillare l’espressione pacifica che si era dipinto in volto. Conosceva umani come quelli. Erano dello stesso stampo di quelli che gli avevano dato la caccia come un animale per secoli, non si sarebbe stupito se quello di cui stavano parlando fosse stato semplicemente un bambino dai tratti singolari. O un piccolo amanto. O qualcosa di simile a lui. Un po’ del suo risentimento dovette trasparire dal suo sguardo perché vide gli umani fare istintivamente un passo indietro, confusi. «Se volete posso liberarvi dalla sua presenza.»
«In cambio di che cosa?» chiese uno degli uma- degli uomini, sospettoso.
«Non dovrete fare domande» si limitò a rispondere sorridendo. Li vide scambiarsi sguardi confusi e incerti, ma alla fine accettarono, sollevati che non avrebbero dovuto essere loro a occuparsi del piccolo mostro. 

Il piccolo mostro non era altro che un bambino umano. Lo aveva capito nell’esatto momento in cui lo aveva scorto in lontananza, seduto su un cadavere impegnato a mangiare un onigiri trovato chissà dove. Aveva occhi rossi e capelli d’argento ma era innegabilmente un bambino umano, non un demone. Non era nemmeno come lui. Non che avesse mai nutrito dei dubbi in merito, nei secoli aveva già visto bambini come quello… erano rari ma nulla di particolare. Il piccolo era palesemente denutrito e poteva scorgere la paura nascosta dietro al suo sguardo ostile. Il bambino non aveva esitato a sfoderare una katana non appena lo aveva visto, chissà quanti adulti si erano avvicinati a lui cercando di fargli del male, se le sua prima reazione vedendone uno era stata quella di difendersi invece che di chiedere del cibo. Senza nemmeno rendersene conto, Shōyō aveva deciso di portarlo con sé, gli aveva donato la propria katana e lo aveva fatto diventare il suo primo allievo… non pensava che avrebbe avuto un allievo dopo… aveva scacciato via quel pensiero e si era concentrato sul piccolo Gintoki, come aveva detto di chiamarsi. Il bambino non sembrava ricordare molto a parte il proprio nome e che era rimasto solo. Ad occhio e croce doveva avere all’incirca otto anni. Era così piccolo e spaventato… poté vedere la diffidenza sparire dagli occhi del bambino, a mano a mano che si convinceva che Shōyō non gli avrebbe fatto del male, anche se continuava a portare la katana che gli aveva regalato ovunque andasse. Non l’appoggiava per mangiare, né per allenarsi, nonostante nel dōjō usasse uno shinai. Non se ne separava nemmeno quando andava a dormire, le manine strette intorno al fodero come se fosse un’ancora di salvezza. Shōyō aveva provato a prenderla una notte, per permettere a Gintoki di dormire più comodamente e in modo che potesse muoversi nel sonno senza rischiare di farsi male tirandosela addosso, ma si era rivelato un errore: pochi minuti dopo, il bambino aveva iniziato ad agitarsi, il suo respiro si era fatto più affannoso e aveva iniziato a gemere e piangere. Shōyō aveva rimesso allora la katana al suo posto sul futon e aveva afferrato una delle mani di Gintoki, portandola sul fodero, dopodiché aveva iniziato ad accarezzargli i capelli in attesa che si calmasse. 

L’errore più grave però lo commise qualche settimana dopo. Doveva sbrigare alcune commissioni, ma non voleva svegliare il bambino perché la notte precedente aveva faticato ad addormentarsi, agitato da pensieri che non aveva voluto condividere con il suo sensei. Aveva programmato di metterci solo qualche ora e di tornare prima che Gintoki si svegliasse, ma presto si era rivelato impossibile raggiungere la destinazione o tornare indietro: il Tenshōin Naraku lo stava ancora cercando. Non importava quante deviazioni facesse, i Corvi erano lì. Non sembrava sapessero esattamente dove cercare, ma non poteva tornare indietro. Se lo avessero visto lo avrebbero seguito. Non potevano trovare Gintoki. Non poteva nemmeno ucciderli perché per quanto fosse veloce, una parte di loro si sarebbe comunque accorta di ciò che stava succedendo e li avrebbe messi in allarme. Alla fine aveva impiegato l’intera giornata per far perdere le proprie tracce ai Corvi, lasciando indizi e guidandoli nella direzione opposta rispetto a quella in cui si trovava il luogo in cui alloggiava. Più di una volta aveva rischiato di farsi scoprire, ma alla fine era riuscito ad allontanarli a sufficienza da Gintoki e a tornare a casa. Lì aveva trovato il bambino raggomitolato in un angolo, le ginocchia al petto e la testa china. Fece correre lo sguardo da una parte all’altra della stanza, alla ricerca di nemici o di qualche pericolo, niente sembrava fuori posto. Gintoki non sembrava ferito.
«Gintoki?» provò a chiamarlo, avvicinandosi. Il bambino sussultò ma non sollevò la testa. «Gintoki, cos'è successo?» gli chiese mettendogli una mano su una spalla e accorgendosi che stava piangendo. Il bambino rispose con voce sommessa, cercando di trattenere i singhiozzi. Lo aveva aspettato tutto il giorno, si era tenuto impegnato, ma alla fine, dopo un giorno intero da solo, la paura aveva avuto la meglio. Shōyō sospirò mentre lo avvicinava a sé. Come aveva fatto ad essere così idiota? Gli iniziò ad accarezzare la schiena e i capelli, scusandosi e cercando di giustificarsi. La voce gli morì in gola però quando il bambino lo interruppe, la voce così bassa che quasi rischiò di non sentirlo. «Ho pensato che non mi volessi più, come il mio papà e le persone dei villaggi...»
Shōyō non potè fare altro che restare in silenzio e abbracciare il piccolo che singhiozzava senza riuscire a fermarsi, mentre gli raccontava di suo padre, di sua madre, dei contadini che gli avevano dato la caccia… più il bambino parlava, più Shōyō sentiva una rabbia cieca farsi strada dentro di lui, che gli impediva di non pensare a come sarebbe stato semplice, così semplice, ucciderli tutti. Tornò alla realtà quando sentì la testa del bambino premere contro il suo petto e le manine stringere in modo disperato il suo kimono. Si accorse di aver stretto la presa, ma Gintoki non sembrava infastidito, anzi… si stava aggrappando a lui con tutte le sue forze, mentre tremava e piangeva. Shōyō sospirò e cercò di far sparire ogni traccia di rabbia dalla propria voce.
«È tutto a posto» gli disse passandogli una mano tra i capelli argentati. «È tutto a posto, ci sono io con te adesso. Non sarai più solo.»

Shōyō rimase ad osservare i bambini per un po’. Avevano passato tutto il giorno ad allenarsi e in quel momento si stavano sfogando rincorrendosi nei pressi della scuola. Le loro energie sembravano non finire mai.
Shinsuke e Kotarō erano con loro ormai da qualche mese, ricordava ancora la notte in cui avevano deciso di seguire lui e Gintoki… inizialmente aveva nutrito qualche dubbio sul farsi carico di altri due bambini, dopotutto insegnare in una scuola era ben diverso che occuparsi di loro tutto il giorno tutti i giorni, ma a Gintoki sembravano piacere davvero molto e non l’aveva mai visto così felice come quando si allenava o giocava con quei due. Alla fine Shōyō non era stato in grado di dire di no.
Non che avesse davvero un motivo per dire di no.
O che avesse intenzione di rimandarli a casa loro.
Da subito gli era parso chiaro che Kotarō non avesse nessuno ad aspettarlo a casa. Il bambino aveva perso tutta la sua famiglia da tempo ormai ed era estremamente indipendente, era evidente però quanto fosse felice di non essere più solo. Lui, Gintoki e Shinsuke erano costantemente insieme, anche durante i pasti e al momento di andare a dormire. Shōyō aveva dovuto spostare i loro tre futon nella stessa stanza per evitare che sgattaiolassero in giro di notte nel dormiveglia, più di una volta infatti li aveva scoperti a dormire pressati nello stesso futon o sul pavimento della stessa stanza. Ovviamente da svegli non avrebbero mai ammesso di voler dormire insieme, così Shōyō aveva dovuto inventare qualche stupida scusa sul perché non potessero più usare tre stanze ma soltanto una.
Con il passare del tempo, capendo che quella era la sua nuova casa e che nessuno lo avrebbe mandato via, la disciplina che Kotarō si era autoimposto iniziò ad allentarsi: a volte si lamentava prima di alzarsi al mattino, dimenticava di rimettere in ordine le sue cose e storceva il naso quando a cena c’era qualcosa che non gli piaceva. Più di una volta il bambino si era appoggiato a Shōyō la sera, quando lui, Shinsuke e Gintoki cominciavano ad essere stanchi e a gravitare attorno al loro sensei pretendendo attenzioni prima di andare a dormire. Kotarō era anche l’unico dei tre a non mostrarsi turbato o infastidito dagli abbracci che a volte Shōyō distribuiva senza preavviso, si lasciava acchiappare senza protestare e con un sorriso soddisfatto sul viso. Non che Gintoki fosse davvero infastidito dalle dimostrazioni d’affetto di Shōyō, la sua testa indugiava sulla sua spalla un secondo di troppo perché i suoi sospiri d’esasperazione e i suoi tentativi di fuga fossero credibili. La reazione più inaspettata era arrivata da Shinsuke: la prima volta il bambino aveva cercato di sfuggire alla sua presa e, quando non ci era riuscito, gli aveva rivolto uno sguardo allarmato. Si era rilassato solo vedendo che i suoi due amici non stavano opponendo resistenza.
Shōyō ripensò a quell’episodio mentre i bambini giocavano in lontananza. Se doveva essere del tutto onesto, non era rimasto sorpreso affatto. Aveva notato come Shinsuke si irrigidiva ogni volta che Shōyō faceva un movimento più brusco del normale in un posto che non fosse il dōjō, inoltre già prima che si unisse alla Shoka Sonjuku si era accorto di come il bambino avesse spesso lividi e ferite sul corpo. Dal momento che Shinsuke era in grado di tenere testa a Gintoki in duello, Shōyō dubitava fortemente che quei segni fossero causati da altri bambini, ma intervenire gli era stato impossibile: non era nella posizione di poter portare via un bambino alla sua famiglia. In ogni caso, non si era rivelato necessario, alla fine era stata la sua stessa famiglia a diseredarlo, quindi non potevano di certo lamentarsi del fatto che Shōyō lo avesse preso con sé. Anche se una parte di lui, una piccola parte di chi era stato in passato, sperava che quegli umani si presentassero davanti a lui avanzando pretese.
Un urlo attirò la sua attenzione e si guardò intorno allarmato, i bambini si erano allontanati. Si alzò di scatto e si diresse in tutta fretta verso il punto da cui provenivano le urla. Li trovò vicino al fiume, Gintoki era in acqua fino alla vita e stringeva i polsi di Shinsuke, mentre Kotarō era ancora sulla riva, l’acqua che gli arrivava a metà dei polpacci e le mani sulla schiena del bambino dai capelli viola. Shinsuke era a metà strada tra loro e puntava i piedi, nonostante gli altri due si fossero fermati non appena si era messo a urlare.
«Cosa sta succedendo?» intervenne Shōyō con sguardo serio e studiando le espressioni dei tre bambini, Gintoki e Kotarō sembravano confusi e allarmati, non capendo il motivo della reazione dell’amico e del suo sguardo spaventato.
«Non lo so» ammise Gintoki titubante. «Abbiamo deciso di venire al fiume e lui non voleva entrare in acqua, così abbiamo provato a convincerlo» spiegò alzando una mano che stringeva ancora il polso dell’amico, mentre Kotarō faceva un passo indietro e toglieva le mani dalla sua schiena. «Solo che poi si è messo a urlare» concluse il bambino dai capelli d’argento, confuso. «Ma glielo abbiamo detto, fa lo stesso se non sa nuotare. Qui si tocca.»
Shōyō si avvicinò e fece uscire tutti e tre dall’acqua, spedì poi Gintoki e Kotarō a cambiarsi e prese Shinsuke da parte.
«Allora?» chiese con gentilezza. «È vero quello che ha detto Gintoki? Hanno solo provato a farti andare in acqua con loro o hanno fatto qualcos’altro?»
Il bambino scosse la testa. «Volevano che andassi con loro.»
«Non sai nuotare? Se vuoi ti posso insegnare…» provò a suggerire il sensei, ma lasciò perdere vedendo Shinsuke scuotere la testa e avvolgersi le braccia attorno al busto. «So nuotare» mormorò il bambino, tenendo lo sguardo a terra.
«Ok, bene» sorrise lui incoraggiante. «Allora qual è il problema? Hai paura dell’acqua?» il suo allievo scosse nuovamente la testa, aveva gli occhi lucidi e tremava leggermente. Shōyō lo afferrò per un braccio e lo avvicinò a sé, facendolo sedere sulle sue ginocchia. «Ehi...» disse piano, mentre il bambino si lasciava andare e scoppiava a piangere contro il suo petto. Il sensei lasciò che si sfogasse per un po’, accarezzandogli i capelli. «Non vuoi dirmi cos’è successo?» gli chiese una volta che il bambino si fu calmato.
Nei minuti che seguirono Shōyō dovette fare ricorso a tutto il suo impegno per non lasciar trasparire la sua rabbia. Suo padre gli aveva messo la testa sott’acqua per punizione. Il padre di Shinsuke aveva usato sul figlio di dieci anni una tecnica di tortura usata sui nemici in guerra, come… quell’uomo aveva una vaga idea di cosa significasse trattenere il respiro fino a quando i polmoni iniziavano a fare male? Aveva idea di cosa significasse sentirli riempire d’acqua mentre si annaspava in cerca di ossigeno? Aveva- inspirò a fondo cercando di riguadagnare la calma. Shinsuke era ancora lì che piangeva in silenzio. Non poteva farsi travolgere dalla rabbia e dai ricordi legati alle sue morti. 

Fu solo dopo un paio d’ore che riaccompagnò il bambino nella stanza che condivideva con Gintoki e Kotarō. I due amici erano già dentro ai futon, ma ancora svegli, uno sguardo preoccupato e colpevole sui visini corrucciati.
«È tutto a posto adesso» li rassicurò il sensei sorridendo. «Potrete ancora andare a giocare al fiume, ma dovrete avvisarmi prima e non potrete tirarlo in acqua. Entrerà quando ne avrà voglia, capito?» i due bambini annuirono, anche se dalle loro espressioni era chiaro che ancora si stessero chiedendo che cosa fosse successo. «Shinsuke mi ha detto che sa nuotare, ma alcune persone lo hanno tenuto con la testa sott’acqua un po’ di tempo fa e non lo lasciavano andare, quindi per un po’ non farà il bagno con voi.»
Vide Kotarō sgranare gli occhi e Gintoki irrigidirsi leggermente. «Quali persone?» chiese il bambino dai capelli d’argento con espressione seria e sguardo di sfida. Shōyō sorrise spingendo Shinsuke verso gli altri due. «Nessuno di cui vi dovete preoccupare. Non può raggiungervi. Nessuno può farvi del male qui» si limitò a rispondere, mentre Kotarō e Gintoki trascinavano Shinsuke verso il futon. Chiuse il fusuma e si allontanò sollevato nel sentire le loro risate attraverso la porta.
No. Nessuno avrebbe più fatto del male ai suoi allievi. 

 
  
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