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Autore: Xion92    08/07/2021    7 recensioni
Didgeridoo non riesce a rassegnarsi alla scomparsa del suo amato padrone Abel. Lo cerca in lungo e in largo, fedele e determinato a ritrovarlo, ma le sue ricerche sono vane. Intristito, deluso e senza più speranza, alla fine decide di tornare in Australia, dove era stato catturato tanti anni prima. Ma sarà proprio nel suo paese natìo che riuscirà a ritrovare il suo amico che credeva ormai perduto.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Arthur Butman, Georgie Gerald
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il padrone ritrovato

 

Era arrivato il momento di arrendersi. Era passato troppo tempo e i luoghi in cui aveva viaggiato erano troppi per poter ancora sperare di ritrovarlo. L’ultima volta in cui lo aveva scorto dall’alto, dopo due lune che non lo vedeva, era legato, bendato e messo al muro. Aveva sentito, poco dopo, degli spari, poi più niente. Non era più tornato dalla ragazza che il suo padrone chiamava Georgie, l’unico dei due nomi che gli aveva insegnato a pronunciare. O meglio, aveva intenzione di ritornare da lei, ma prima voleva ritrovare il suo padrone. L’unico uomo che, dal giorno in cui era stato catturato, si era preso cura di lui sottraendolo allo zoo cui era destinato, con cui aveva fatto delle lunghe chiacchierate ed era stato per lui un amico. E gli aveva perfino dato un nome, come se fosse stato una persona: aveva scelto per lui Didgeridoo, uno strumento musicale tradizionale dell’Australia. E Didgeridoo sapeva che anche il suo padrone aveva un nome, Abel. Sapere quel nome avrebbe potuto essere un aiuto utilissimo per lui nelle sue ricerche. Dopotutto, non erano riusciti a trovare la ragazza che il suo padrone chiamava Georgie proprio nello stesso modo? Il problema però era che Didgeridoo, nonostante nella sua mente sapesse il nome del suo padrone, non era in grado di dirlo a voce: aveva bisogno che una persona glielo pronunciasse davanti e lui si allenasse a ripeterlo, e questo il suo padrone non l’aveva mai fatto con lui, non col suo nome. Gli aveva insegnato solo due nomi, Georgie e Arthur, con la differenza che il secondo non era così automatico per lui da pronunciare perché l’aveva ripetuto molto meno del primo, ed inoltre sapeva bene chi fosse questa Georgie, mentre non aveva mai visto questo Arthur di cui aveva imparato il nome. Così, nelle sue prime ricerche a Londra, il pappagallo dopo aver sorvolato le case e i palazzi si posava sulle inferriate, sui tetti, e da lì cercava di chiamare il nome del suo amato padrone, certo che prima o poi qualcuno si sarebbe girato, e avrebbe potuto essere proprio lui. Ma, tutte le volte che ci provava, invece del nome di Abel gli usciva dal becco il nome di Georgie, quello che sapeva meglio e aveva per lui qualche familiarità. Ogni tanto si girava una ragazza, bambina o donna che si chiamava così, ma non era la Georgie che conosceva lui, e in ogni caso non gli importava niente: rivoleva il suo padrone. Così, nei suoi giri di perlustrazione, si era spinto al di fuori di Londra, esplorando zone di campagna ed altre cittadine, finché, dopo molte lune, aveva capito che il suo padrone non si trovava su quell’isola. Allora, sfruttando le sue ali potenti e resistenti ed appoggiandosi alle navi quando non ne poteva più di volare, aveva attraversato la Manica ed era arrivato nel continente europeo. Da lì, utilizzando i treni invece delle navi, aveva percorso ed esplorato ogni genere di nazione, di territorio e di città, affrontando climi e condizioni atmosferiche che non erano adatti ad un uccello tropicale come lui. Aveva sopportato privazioni, la mancanza di cibo adatto a lui, l’attacco di uomini che lo volevano catturare e predatori che lo volevano mangiare, rischiando più volte di lasciarci le penne. Ma pur di ritrovare il suo padrone, era disposto a sopportare questo e altro. Tanto, da qualche parte doveva pur essere. Non poteva essere scomparso di colpo nell’aria. E dovunque fosse stato, lui, da fedele amico, lo avrebbe ritrovato. Non sapeva nemmeno lui quante lune aveva visto, in quel continente così diverso da quello in cui era nato. E, per quanto la sua percezione di uccello glielo poteva confermare, era sicuro di esserselo girato tutto. Ogni tanto si sforzava, tenendo il nome di Abel nella mente, di pronunciarlo, sicuro che se ci fosse riuscito, la ricerca sarebbe stata molto più facile. Ma non c’era niente da fare: o gli scappava fuori un craa craa oppure il nome di Georgie. Così, le lune cambiavano, le stagioni si alternavano e gli anni si susseguivano, ma Didgeridoo non trovava la persona che tanto amava e tanto gli mancava.

Dopo essersi girato tutto il continente europeo ed aver sentito il passaggio di un gran numero di stagioni, il pappagallo, con la tristezza nel cuore e il nome di Abel in mente, aveva deciso che lui, da solo, non sarebbe riuscito a trovarlo. Era sicuro, sentiva che il suo padrone si trovava da qualche parte, ma si era reso conto che aveva bisogno di aiuto. E l’unica altra persona di cui conosceva il nome, Georgie, forse lo avrebbe potuto aiutare a cercarlo. Dopotutto, lei lo sapeva pronunciare il nome di Abel: sarebbe tornato a Londra, l’avrebbe trovata un’altra volta e le avrebbe fatto capire che doveva aiutarlo a cercarlo. Insieme, era sicuro che sarebbero riusciti a trovarlo. Didgeridoo non aveva idea di come sarebbe riuscito a far capire a Georgie le sue intenzioni, ma un modo lo avrebbe di sicuro trovato. Con il cuore più sereno, aveva raggiunto la parte nord della Francia fino a trovare, nel vasto mare che si apriva davanti a lui, una nave diretta verso nord. Dopo un giorno di viaggio a bordo, era sbarcato di nuovo nel porto di Londra, in cui già era arrivato una volta, tanto tempo prima, insieme al suo padrone. Da lì, ricordandosi bene la geografia della città, aveva volato dritto verso i luoghi in cui sapeva che Georgie si recava di solito, e aveva fatto un giro anche intorno alle case dei suoi amici, stavolta senza risparmiarsi di chiamarla a gran voce, felice di poter utilizzare con vantaggio la sua abilità oratoria. Ma stavolta, al contrario della prima, non era riuscito a trovarla. Aveva trovato invece due dei suoi amici, un uomo e una donna che abitavano con dei bambini in un edificio malandato. Nonostante fosse passato tanto tempo, lo avevano riconosciuto e gli avevano detto qualcosa in quella loro lingua strana da uomini, che Didgeridoo non riusciva a capire, e aveva cercato di spiegarsi gracchiando il nome di Georgie: forse loro avrebbero compreso e lo avrebbero portato da lei. Ma, dai gesti che loro gli avevano fatto e interpretando il loro tono, il pappagallo era riuscito a capire che Georgie non si trovava lì, almeno non più. Era sparita anche lei… anche lei come il suo amato padrone Abel. Ignorando gli inviti dell’uomo e della donna di volare verso di loro, si era allontanato e rifugiato sotto una grondaia. Lì, intristito e con tutte le speranze perdute, aveva pianto come può piangere un pappagallo, emettendo dei lievi versi frustrati e cercando di pronunciare il nome di Abel, che puntualmente non gli veniva ed al suo posto uscivano solo degli stridii stonati.

E proprio lì, sotto quella grondaia, decise che era il momento di arrendersi: aveva provato e tentato in tutti i modi in cui un semplice pappagallo come lui poteva tentare. Aveva cercato il suo amico dovunque, per un continente intero, nell’arco di molti anni e non era servito. Aveva provato a tornare da Georgie per farsi aiutare, ed era sparita anche lei. Ormai si sentiva sulle ali il peso degli anni e dell’età, e non se la sentiva più di viaggiare di nuovo per l’Europa alla ricerca anche di Georgie. Non aveva rimpianti, aveva fatto di tutto. Ma cosa avrebbe potuto fare ora, lui che per una buona parte della sua vita aveva avuto uno scopo ben preciso e ora l’aveva accantonato? Nella sua mente tornarono i bei ricordi delle foreste lussureggianti dell’Australia, il suo clima caldo e i suoi frutti succulenti, dove viveva insieme ai suoi simili prima che gli uomini lo catturassero. Decise che, se c’era un posto in cui poteva ancora tornare, pur senza Abel, era quello.
Avvicinandosi al porto, rimase ad osservare con attenzione, per giorni e giorni, ogni singola nave che arrivava e il carico che trasportava. Finché, dopo un paio di settimane, ne vide una da cui stavano scaricando gabbie piene di animali, esattamente come quella in cui era stato rinchiuso lui prima che Abel lo tirasse fuori. L’uccello riuscì a formulare il ragionamento che quello che arrivava doveva anche tornare indietro, e che se c’era un mezzo di trasporto che gli potesse permettere di tornare alla sua terra, era quello. Senza farsi notare dai marinai, riuscì a volare fino ai magazzini dove tenevano conservati i cibi, l’acqua e le granaglie. Rimase lì per altre settimane, sentendo lo sballottare della nave sull’acqua, nutrendosi dei semi che riusciva ad estrarre dai contenitori chiusi male e tenendosi nascosto ogni volta che un mozzo entrava per prendere una cassa, finché non percepì che l’imbarcazione si era fermata ed erano arrivati. Veloce come un lampo, volò fuori alla luce del sole e salì di quota per poter avere una buona visuale. Sentì il calore del sole oceanico sul piumaggio, diverso da quel pallido spettro nascosto dalla cappa di nubi che si trovava a Londra, e nonostante quello fosse un porto cittadino, aguzzando la vista poteva scorgere in lontananza l’immensità del bush australiano. Quella era casa sua! Dopo tanti anni era ritornato! Gracchiando felice, si diresse in volo verso le vaste pianure che si estendevano davanti a lui.

Nei campi che circondavano una fattoria dispersa nell’entroterra, un ragazzo, con la camicia e i capelli umidi di sudore, stava tagliando il fieno con la falce. Si era messo al lavoro la mattina presto, quando ancora era fresco, sperando di far svelto e concludere finché il caldo fosse stato sopportabile, ma era quasi ora di pranzo e lui era solo a metà dell’opera. Sua madre ogni tanto gli ripeteva che era tipico della sua mente di ragazzo prefiggersi degli obiettivi impossibili da raggiungere, e il taglio del fieno in poco tempo era uno di quelli.
“Ci vogliono molti giorni di lavoro continuo per mietere tutti i campi che abbiamo, è impossibile riuscirci lavorando solo nelle ore più fresche. Ci vorrebbero settimane.”
Ed era vero: ricordava che, quando era piccolo, le terre appartenenti alla sua famiglia non erano molte, ma un aiuto economico da parte di suo nonno aveva permesso loro, con gli anni, di ampliare i possedimenti.
E così lui, nonostante facesse lavorare al massimo i suoi muscoli ormai forti e allenati dal lavoro manuale, si ritrovava nelle ore più calde che ancora non aveva finito. Meno male che non era da solo: suo zio sapeva bene che fatica fosse, e quindi facevano a turno, mezza giornata per uno.
“Come diceva lui, quando ero piccolo e ancora non avevo un’idea di quanto fosse pesante questo lavoro? Così cresci più in fretta, così ti fai i muscoli. Avrà anche avuto ragione, ma insomma…”, borbottò asciugandosi la fronte col dorso della mano.
Certo che suo zio, che era un uomo adulto, grosso e muscoloso, faceva presto a parlare. Lui invece non era ancora completamente cresciuto ed era meno forte in confronto. A lui occorreva un’ora e mezzo abbondante per mietere la stessa quantità di fieno che suo zio mieteva in un’ora scarsa.
E pensare che suo nonno aveva loro proposto tante volte di abbandonare il bush e andarsene a vivere insieme a Sydney, dove col suo denaro avrebbero potuto comprarsi una bella e signorile villa in cui poter vivere tutti insieme tranquilli. Ma nonostante la prospettiva di poter vivere una vita più comoda e agiata, non avevano mai lasciato la fattoria: suo zio ci teneva troppo. Era stato un suo sogno, fin da ragazzo, far prosperare la loro terra ed eventualmente ampliarla. Ed anche lui, che aveva vaghi ricordi di Londra in cui aveva vissuto da piccolo, era stato d’accordo: preferiva la vita scomoda e faticosa nel bush, ma salubre e libera, piuttosto che una grande città soffocante. Per suo nonno non era pensabile vivere in modo continuativo in campagna, data la sua età e il fatto che non ci fosse abituato, ma da quando si era trasferito in Australia da Londra si era comprato una bella casetta a Sydney e li andava a trovare spesso.
Il ragazzo si fermò, boccheggiando nell’afa del mezzogiorno, e si appoggiò all’asta della falce per riposarsi un poco. Adesso suo zio era a pulire l’ovile, dove almeno era al riparo dal sole, e sua madre ugualmente stava preparando il pranzo nel fresco della casa. Sperava che da un momento all’altro uscisse per chiamarlo a tavola, così da poter interrompere il lavoro.
“E se mollassi qui tutto e andassi a casa dicendo che sono stanco?”, si chiese tra sé e sé. “Ma che dirà la mamma?”
Infatti, sua madre una volta gli aveva raccontato che se lei, da piccola, avesse fatto una cosa simile, la madre di suo zio, ovvero la nonna del ragazzo, l’avrebbe riempita di schiaffoni e l’avrebbe rimandata di corsa al lavoro facendole saltare il pranzo. Ma il ragazzo sapeva che sua madre non sarebbe mai arrivata a tanto e avrebbe lasciato perdere, forse l’avrebbe solo rimproverato un po’. Mollo di sudore e con tutti i muscoli che gli dolevano per la fatica, stava per prendere la decisione di lasciare lì la falce e tornare a casa per riprendere dopo pranzo prima del turno di suo zio, quando sentì un verso strano, inusuale da quelle parti. Era il gracchiare tipico dei pappagalli, ma quando si era trasferito in Australia insieme a sua madre, una delle prime cose che aveva imparato era che i pappagalli vivono nelle foreste, non nelle praterie. Cercando con lo sguardo, vide a poche centinaia di metri da lui, sull’unico albero solitario in mezzo al campo, un grosso pappagallo cacatua, bianco e con la cresta gialla. Beh, prima di tornare a casa poteva anche andare a dargli un’occhiata. Lasciò cadere a terra la falce e con curiosità iniziò ad avvicinarsi, lentamente per non spaventarlo. Ma aveva fatto pochi passi quando sentì il pappagallo, che non lo aveva ancora notato, chiamare, tristemente e con voce umana: “Georgie, Georgie, craaaa…”
Il ragazzo si arrestò di colpo, sorpreso e incredulo. “Questo uccello sa parlare, e sa anche il nome della mamma…” riuscì a dire a voce bassa.
Dopo essersi ripreso dallo stupore, decise di andare a chiamare sua madre per mostrarle questa curiosa creatura che conosceva il suo nome. Ma aveva paura che, una volta di ritorno, non avrebbe trovato più il pappagallo lì.
“Aspetta, aspetta…” mormorò rivolgendosi all’uccello, e iniziò a camminare lentamente a ritroso verso casa, senza staccargli gli occhi di dosso, rischiando ad ogni passo di inciampare e cadere all’indietro, ma si sentiva troppo emozionato e desideroso di far vedere quel pappagallo a sua madre per rischiare di fare una mossa che avrebbe potuto spaventarlo.
Quando fu talmente lontano da non riuscire più a vederlo, si volse e fece di corsa il tratto che lo separava da casa sua.
“Mamma! Mamma! Sai che c’è di nuovo?”, gridò appena fu entrato, cercandola con lo sguardo.
“Tesoro! Santo cielo! Che è successo?” chiese Georgie, sua madre, che stava togliendo le patate dal fuoco.
Il figlio indicò fuori dalla finestra. “Là fuori c’è un pappagallo che conosce il tuo nome! Che non abbiamo mai visto!” annunciò emozionato.
A Georgie si bloccò il respiro quando udì quella spiegazione. “…un pappagallo che sa il mio nome?”
“Te lo giuro, non è uno scherzo per farti perdere tempo! Dai, vieni a vederlo prima che voli via! Quello mica ci aspetta!” la incitò il ragazzo, impaziente, e la afferrò per la mano. “Andiamo a chiamare lo zio. Deve vederlo anche lui! È una roba fuori dal mondo!”

Didgeridoo si era fermato su quell’albero in mezzo alla prateria per riposare un po’ le ali prima di ripartire verso la foresta che si trovava più avanti. In Australia si sentiva già molto più felice che a Londra, ma ora che si era fermato era stato preso da un attacco di nostalgia verso il suo amato padrone perduto. Aveva cercato ancora di pronunciare il suo nome, ma, come al solito, invece del nome di Abel gli era uscito quello di Georgie, l’unico che gli veniva da dire in modo naturale.
Dopo un po’ di tempo passato lì, si sentì di nuovo abbastanza forte e pronto a riprendere il volo, quando sentì un frusciare nell’erba poco distante dall’albero, e vide avvicinarsi tre persone, che non riuscì a distinguere bene per via del sole accecante di mezzogiorno.
“Ma insomma”, stava protestando un uomo adulto, di corporatura grossa e muscolosa, mentre veniva trascinato per il braccio da un ragazzo più giovane. “Anche quando eri piccolo interrompevi sempre i miei lavori per mostrarmi qualcosa di improbabile che avevi visto, ma non sarà ora di smettere, dato che sei grande?”
“E’ perché non mi credi, zio. La mamma invece sì. Vero, mamma?” rispose il ragazzo, cercando l’approvazione di sua madre col tono della voce.
Ma la donna di fianco a lui, pur procedendo, sembrava troppo attonita per rispondergli.
Didgeridoo era assorto nei suoi pensieri e non prestò loro attenzione, e non sentì la necessità di scappare. Non temeva l’uomo, dopo tanto tempo passato insieme alle persone era diventato un pappagallo domestico, e rimase sul suo ramo, tra le fronde, ad aspettarli senza curiosità. Era ancora perso nel ricordo del suo vecchio padrone, delle sue spalle larghe e forti su cui si posava sempre, dei suoi lunghi capelli scuri fra cui ogni tanto si era impigliato con le zampe, della sua voce profonda e rassicurante, dei suoi occhi blu che lo guardavano come si guarda un amico. Sentendosi il cuore pieno di nostalgia, cercò ancora una volta di pronunciare il suo nome, ed ancora una volta gli venne fuori quel Georgie, Georgie che sapeva dire così bene.
“Visto?! Avete visto che non vi prendevo in giro? Mamma, sa il tuo nome!”, sentì esclamare trionfante il ragazzo sotto l’albero, e ora che si era deciso a rivolgere a quegli uomini la sua attenzione, gli parve di sentire qualcosa di familiare in quella voce. Allora abbassò la testa per degnare di uno sguardo quei tre importuni che erano venuti fin lì per guardarlo, sentendo dentro di sé un vago fastidio.
Ma non appena i suoi occhietti neri scorsero il viso del ragazzo che stava in mezzo ai due più grandi, il suo cuoricino ebbe un sussulto. Era il suo padrone! Era passato tanto tempo, ma non era cambiato. Era esattamente come se lo ricordava: gli stessi tratti del viso, gli stessi occhi blu e gli stessi capelli bruni lunghi, mossi e scompigliati. Beh, forse era appena un po’ più basso, ma per il resto era lui. Lo aveva cercato dappertutto invano, e proprio all’ultimo, quando si era rassegnato a non vederlo mai più, se lo ritrovava lì come per caso. La felicità immensa che provò in quel momento gli fece pronunciare quel nome che aveva avuto sulla punta del becco per tutti quegli anni e non era mai riuscito a dire.
“Abel! Abel!”, gridò a gola spiegata.
“Mamma! Zio! Avete sentito?! Sa il mio nome! Sa anche il mio nome!” esclamò da sotto il ragazzo, con la voce piena di emozione ed eccitazione.
Didgeridoo si staccò dal suo ramo e si slanciò verso di lui, atterrando sulla sua testa, piena di quei capelli scuri in cui affondò di nuovo le zampe, come ai vecchi tempi.
“Abel! Abel! Craaa!” gracchiò, tutto felice, iniziando a fare dei saltelli sulla testa del ragazzo per esprimere la sua contentezza.
“Hai visto, Georgie? È incredibile!”, mormorò l’uomo adulto, che era quasi rimasto senza parole.
“Arthur… questo è Didgeridoo”, disse nel frattempo la donna, che aveva ritrovato la parola. “È tornato… dopo almeno quindici anni… credevo che non l’avrei più rivisto…”
Abel, che aveva sollevato la mano per toccare le ali del pappagallo sulla sua testa, chiese: “allora lo conosci, mamma?”
“Sì, ti avevo parlato di lui quando eri piccolo. Ma effettivamente, avevi tre o quattro anni, e forse non ti ricordi”, cercò di spiegarsi lei, aveva gli occhi lucidi, e si capiva che stava facendo fatica a parlare.
Didgeridoo, ora che si era riunito al suo padrone, notò la madre del ragazzo, e la riconobbe subito. “Georgie, ti amo! Georgie, ti amo!”, e la donna, appena ebbe sentito quelle parole, si coprì la bocca con le mani e le lacrime iniziarono a scorrerle sulle guance.
Il pappagallo si volse poi verso l’uomo più grande, e sebbene non l’avesse mai visto prima, sentì, per ragioni che non riuscì a spiegarsi, che uno dei due nomi che il suo padrone gli aveva insegnato era quello giusto per lui.
“Arthur, Arthur!” riuscì a pronunciare, e l’uomo sgranò gli occhi, sbigottito.
“Sa anche il mio… è vero… gli aveva insegnato anche il mio…” riuscì a dire, impressionato.
Conclusa in fretta quella parentesi di attenzione diretta agli altri due, l’uccello si rivolse di nuovo al ragazzo. Si staccò dalla sua testa e si sistemò sulla sua spalla, il posto dove più amava stare. Il suo vecchio padrone gli stava rivolgendo un gran sorriso emozionato, i suoi occhi ridevano mentre lo guardava, Didgeridoo si ricordò in un attimo dello sguardo che gli rivolgeva sempre anni addietro, e quando iniziò ad accarezzarlo sul dorso si ricordò anche della gentilezza del suo tocco.
“Abel, ti amo, craaa!” esclamò, cercando di fargli capire con questo quello che stava provando, e ricominciò a saltellare sulla sua spalla.
“Didgeridoo, giusto? Grazie, ma subito così, al primo incontro?” si mise a ridere il ragazzo, e quando lo accarezzò sulla testa il pappagallo socchiuse gli occhi ed emise un verso soddisfatto. Si avvicinò di più e premette piano il becco contro la sua guancia.
“Com’è affettuoso… Mamma, lo posso tenere? È vero che lo posso tenere?” chiese con voce ora ansiosa Abel, guardando la donna.
Georgie era troppo emozionata per rispondere a parole, ma asciugandosi una lacrima che le era scesa fino al mento fece un segno di assenso con la testa.
Quindi l’uomo che Georgie aveva chiamato Arthur si avvicinò ad Abel e lo strinse dal fianco mettendogli le braccia attorno alle spalle. Il pappagallo si staccò dalla spalla del ragazzo ritornando sulla sua testa.
“Sei contento, allora? Ricorda che dovrai trattarlo bene e avere sempre cura di lui. Non mi sembra un pappagallo giovane, ha tutte le penne rovinate…”
“Sì, zio, ci penserò io a lui, tranquillo”, lo rassicurò Abel, appoggiandogli una mano sul braccio.
“E ad una condizione, mio caro nipote: che finisci di falciare il campo prima di pranzo”, aggiunse Arthur, con un finto tono autoritario.
“Ma è già ora di pranzo, non faccio in tempo”, protestò Abel.
“Questo succede quando ci si gingilla invece di tenere il capo chino finché non si ha finito”, lo riprese l’uomo, ma con un tono tutt’altro che di rimprovero. “Allora mi sa che il pappagallo non lo puoi tenere”, aggiunse con una risata.
“Zio! Mi prendi sempre in giro!” protestò Abel, ridendo anche lui, divincolandosi dalla sua presa. “Meno male che c’è anche la mamma che mi difende, e lei il permesso me l’ha dato.”
Anche Georgie, dopo essersi asciugata le lacrime, aveva ritrovato la sua felicità, e si mise a ridere di cuore anche lei a vedere Arthur e suo figlio bisticciare in quel modo giocoso. Prese la mano di Abel e gliela strinse forte, e il ragazzo strinse la presa di rimando.
Didgeridoo aveva gli artigli ben piantati tra i capelli scuri sulla testa del suo padrone, da dove non aveva più intenzione di staccarsi. Si sentiva felice come non gli capitava da tanti anni. Alla fine l’aveva ritrovato, quel vecchio amico che aveva tanto cercato. Lo aveva ritrovato esattamente come l’aveva lasciato, non era per nulla cambiato. Ora che erano di nuovo insieme, sarebbe stato sempre con lui e non se ne sarebbe più separato. Riempiendosi il cuoricino con le voci del suo vecchio padrone e della sua nuova famiglia, e gli occhi della bellezza del bush australiano, gracchiò ancora una volta:
“Ti amo tanto, Abel, ti amo!”

 

 

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Non so voi, ma a me l’ultima scena del manga in cui compare Didgeridoo mette una tristezza enorme (sì sì, io vado a notare il pappagallo mentre il povero Abel sta morendo…). Sia perché si vedeva bene che era triste quando non poteva più stare con lui, sia perché è volato via senza apparente motivo proprio quando Abel è morto. Ma secondo me c’è un motivo: Didgeridoo rappresenta un po’ lo spirito di Abel. Quando se ne vola via per non tornare mai più è una metafora della morte del padrone. Ed è in un certo senso ancora il suo spirito anche in questa storia. Certo, Didgeridoo non è veramente la reincarnazione di Abel, nei momenti in cui agisce e pensa è un normale pappagallo che pensa cose da pappagallo, ma secondo me in qualche modo Abel riesce ad agire ed essere presente attraverso di lui, anche se l’uccello non ne è cosciente, ed anche se il padrone è morto. Quindi, secondo la mia visione, quando Didgeridoo dice ad Abel e a Georgie “ti amo”, e quando bacia il ragazzo sulla guancia, è Abel grande che sta dicendo ti amo al figlio (e alla compagna) e lo sta baciando (la stessa cosa quando riconosce che Arthur è Arthur pur non avendolo mai visto). Del resto, poverino, è l’unico mezzo che ha per farlo… e mi piace pensare che, rimanendo il pappagallo vicino al ragazzo, anche Abel potrà in qualche modo stare vicino a suo figlio, anche se Abeluccio non lo sa e per lui è un pappagallo e basta.

Parlando invece di Abel (quello presente fisicamente qui) ho cercato, pur nel poco spazio, di far capire un po’ della sua personalità e del suo carattere. Purtroppo, nel manga e nelle storie che ho letto finora è sempre ai margini, un “personaggio non personaggio”, nel senso che la sua più grande sfiga è apparire solo alla fine ed essere una specie di reincarnazione di suo padre, quindi non ha un’identità propria. Non è nemmeno nella lista dei personaggi qui su efp. Ed è un peccato, perché Abeluccio mi ha sempre incuriosito molto, e penso che sarebbe bello sviluppare un seguito del manga in cui il protagonista è lui. Ho cercato in questa one-shot di tenerlo completamente separato da suo padre in modo da dargli una indipendenza e un senso suoi. Io me lo immagino, pur essendo identico ad Abel e bello come lui, diverso nel carattere, aperto, spensierato, allegro e dalla risata facile. Forse più avanti scriverò altre storie su di lui, è un potenziale ottimo personaggio.

   
 
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