Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: macabromantic    08/07/2021    3 recensioni
[ SPOILER ALERT: Stardust Crusaders / Stone Ocean / Diamond is Unbreakable || TW: ptsd / depression / flashbacks ]
[ Jotaro Kujo x Kakyoin Noriaki ]
...
Kakyoin aveva camminato fino alla stazione di Shibuya immerso nei propri pensieri. Arrivato al grande incrocio nel quale si snodavano numerose strade del quartiere alzò lo sguardo verso il semaforo.
Fu in quel momento che lo vide.
Alto, immensamente alto, sarebbe stato impossibile non riconoscerlo anche in mezzo a tutta quella gente. Sebbene fosse di un bianco smagliante, illuminato dai colori al neon che si mescolavano in piazza fra i toni del turchese e bluette, Kakyoin avrebbe riconosciuto quel cappello dovunque. Un cappotto lungo fino a terra, una pesante catena che scivolava dal lato sinistro del petto. Una sigaretta accesa tra i denti, la mano sinistra vicino alle labbra, quella destra infilata in tasca, una grossa busta di carta che pendeva dal polso.
Jotaro Kujo si trovava dall’altro lato della strada, con la fronte corrugata e gli occhi fermi sulle strisce pedonali. Quando il semaforo scattò dal rosso al verde, Jotaro sollevò lo sguardo e in quell’istante incontrò gli occhi di Kakyoin.
Il cuore gli si fermò nel petto, la sigaretta gli cadde dalle mani.
...
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Jolyne Kujo, Joseph Joestar, Jotaro Kujo, Noriaki Kakyoin
Note: Lemon, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 11

Kintsugi


 
 
Non era passato un giorno senza che Jotaro non ripensasse al bacio fugace di Kakyoin.
Dopo averlo accompagnato alla stazione, dopo aver visto ciò che restava dei suoi capelli bianchi svanire nell’alta velocità del treno, Jotaro era tornato a casa in silenzio. Aveva camminato per più di un’ora con la sensazione che i piedi non toccassero il pavimento e dentro il petto aveva, forse per la prima volta, la certezza che il cuore non avrebbe mai smesso di battere.
Era rientrato nel suo appartamento senza accorgersene, con movimenti meccanici aveva rimosso il cappotto e il berretto, poi si era diretto nel suo studio. Continuava a percepire un solletico leggero, simile al contatto con le ali di una farfalla, lì dove per un istante c’erano state le labbra di Kakyoin. La delicatezza di quel tocco era stata tale da sembrare una scottatura fatta con il caffè troppo caldo; un unico attimo di distrazione, forse l’unico istante in cui aveva abbassato la guardia gli era costato carissimo per quella mattina. Fosse stato attento come suo solito, avrebbe goduto di quel bacio – che poi, poteva davvero considerarlo un bacio? C’era stato uno sfiorarsi, ma cos’altro? Se ripercorreva quella memoria, Jotaro era certo di poter trovare il suono vaporoso della bocca di Kakyoin che lo toccava. Poi c’era il suo buon odore di lavanda e tè verde, mai troppo forte ma sempre presente, riservato persino nel profumo. Non poteva averlo immaginato, quel bacio c’era stato e continuava a bruciare nelle screpolature delle sue labbra lasciate a inaridire per chissà quanto tempo ancora. Fosse stato vigile, lo avrebbe trattenuto. Avrebbe preso il suo volto stanco tra le mani, avrebbe lasciato che il treno partisse anche questa volta con un passeggero in meno. Si sarebbe soffermato su quei petali di ciliegi e se ne sarebbe nutrito, avrebbe rinnovato la sua proposta. Sposami.
Ma non puoi legarti in matrimonio se sei già stretto a un’altra.
Così, continuando a muoversi con meccanica autonomia, Jotaro raggiunse la penombra della propria scrivania. Con la mano destra scostò dei fogli, degli appunti che si accalcavano per coprire degli altri documenti. Gli occhi, talmente concentrati da essere ombrosi nelle sopracciglia, non si illuminarono nemmeno quando le carte del divorzio comparvero sotto di loro. Le fissò persino mentre la mano sinistra si allungava verso la penna a sfera che teneva sempre nello stesso portapenne, insieme a pochi altri oggetti da ufficio. Non si sedette nemmeno, fece scorrere le pagine del documento che ormai conosceva a memoria finché non raggiunse la firma di sua moglie. E firmò.
Rimase immobile per un pugno di secondi, i propri occhi vitrei fissi sulla firma nerissima che impregnava il foglio sotto quella di Ariana, una firma arzigogolata, con dei riccioli che si susseguivano tra le vocali e i punti sulle “i” dimenticati nel blu dell’inchiostro. La propria, invece, era dritta, ferma. Non c’erano abbellimenti particolari, ma un corsivo ordinato seguito dagli ideogrammi lasciati tra parentesi.
Lasciò cadere il mazzetto di fogli sulla scrivania e questo si aprì in un lieve ventaglio. Soltanto dopo aver tirato un sospiro impercettibile Jotaro si rese conto che fino ad allora non aveva respirato. Il fiato gli era rimasto chiuso in gola e questa si era riaperta ora che le spalle si erano finalmente ammorbidite. Non si sentiva diverso rispetto a come si era sentito negli ultimi dieci anni, eppure un cambiamento radicale c’era: da quel momento in poi, avrebbe ricostruito. Avrebbe ricostruito davvero, si sarebbe voltato indietro e avrebbe cominciato a raccogliere i cocci di ciò che restava. Di sé stesso, del suo amore, dell’Egitto che fino ad ora era sempre stato un tormento. Non si aspettava che gli incubi e le notti insonni svanissero da un momento all’altro, la stessa cosa valeva per le cattive abitudini che lo guardavano da un posacenere troppo pieno e da un bicchiere troppo vuoto, ma nel cuore pulsava un tipo di adrenalina che non pensava avrebbe più provato. A diciassette anni era partito per un’avventura di cui avrebbe volentieri fatto a meno, dieci anni dopo ne sentiva ancora addosso le ripercussioni, eppure era pronto a rimettere insieme tutti i pezzi che avrebbe raccolto rischiando di tagliarsi.
Ricordava una volta in cui, da bambino, quando già suo padre aveva iniziato a viaggiare grazie – o forse per colpa – della sua musica, cercando di rincorrere una ranocchia che si era intrufolato in casa aveva rotto una tazza. Non si trattava di una tazza qualsiasi, ma di un servizio di porcellana a cui la mamma teneva con tutto il cuore. Era stato un regalo di fidanzamento da parte di papà quando, molto prima che si dessero il primo bacio, le faceva una corte spietata. Quando la porcellana era caduta in terra riducendosi in una decina di frammenti, Jotaro credeva che il cuore gli fosse caduto giù nella pancia. Si era presto dimenticato della ranocchia e altrettanto velocemente si era abbassato sul pavimento. Con le mani che tremavano aveva cercato di far combaciare tra loro tutti i cocci che erano saltati via, ma sembrava sempre che ce ne fosse qualcuno che mancava.
«JoJo!», lo aveva chiamato Holly sporgendosi oltre la grande porta in legno grezzo. Jotaro si era girato con un sobbalzo, il cuore di nuovo era caduto per terra tra i pezzi della tazza della mamma. La mamma, che gli sorrideva nei suoi capelli biondi raccolti sulla nuca e una lunga veste a fiori. «Che stai facendo per terra?»
Gli occhi gli si erano subito riempiti di lacrime e non era riuscito a nascondere il suo segreto nemmeno per un momento. Prima ancora di riuscire a parlare le aveva fatto vedere due pezzi di ceramica e tutto il mare che tratteneva sulle ciglia era andato in avaria.
«Non l’ho fatto apposta! C’era–... C’era una rana e... e...», era riuscito a dire tra i singhiozzi. Holly, dopo un sussulto e tanta preoccupazione nelle sopracciglia, era subito andata dal figlio.
«Oh, JoJo...» aveva sospirato mettendosi seduta accanto a lui, un braccio ad avvolgere le sue spalle. Sorrise nella morbidezza che la distingueva e Jotaro alzò i suoi immensi occhi blu su di lei. «Lo so che non lo hai fatto apposta, non è successo niente. Ti sei fatto male da qualche parte?»
Rassicurato dalle parole della madre, Jotaro si asciugò il viso alla buona con le maniche della felpa, poi scosse il capo con fermezza. Holly sorrise ancora, gli lasciò una carezza tra i capelli.
«Questa è la cosa più importante. Sei riuscito a prendere tutti i pezzi della tazzina?»
Dopo un breve sguardo dato intorno a sé, con gli ultimi singulti che lo scuotevano nella pancia, Jotaro annuì tirando su col naso.
«Sì, penso di sì.»
«Benissimo! Vieni, così ora la mamma ti fa vedere come si può aggiustare,» e intanto raccoglieva i pezzi e si portava sul ventre per raccoglierli tra le pieghe della gonna.
«Si può aggiustare?», mormorò Jotaro incredulo mentre si occupava dei pezzi caduti più distante da loro.
«Ma tu pensa, certo che si può aggiustare!», rispose Holly con una lieve risata. «Ogni cosa si può aggiustare, amore mio.»
Ogni cosa si può aggiustare.
Passarono il pomeriggio insieme, seduti al tavolino in legno massello che spiccava sul tatami1 che aveva la vista sul giardino. La tecnica del kintsugi era delicata, adatta alle mani di una donna come Holly, premurosa e sempre gentile con tutti.
Jotaro ripensava spesso a quel giorno, al modo in cui con meticolosa attenzione guardava ogni movimenti della madre. La minuzia con cui pesava la polvere d’oro, alle movenze circolari del polso fatte per mescolare la polvere al solvente che avrebbe poi creato un cemento indistruttibile e, infine, il momento più bello di tutti: quello in cui si rimettevano insieme i pezzi. Tenuti insieme, stretti da quella cicatrice che li avrebbe resi di nuovo una cosa sola, per sempre diversa da com’era stata un tempo ma impreziosita dalla capacità di adattarsi a una nuova vita.
Il rumore del chiavistello che girava lo destò da quel ricordo.
«Papà!»
La voce allegra di Jolyne gli dipinse l’arco tenue di un sorriso.
«Ehi, principessa.»
«Sei a casa!» La bambina corse in direzione del padre a braccia aperte, i capelli raccolti in due codine tutte disordinate e sulle spalle uno zainetto più grande di lei. Intenerito da quella visione, Jotaro non poté fare a meno di flettersi sulle ginocchia e far leva da sotto le ascelle per prenderla in braccio.
«E dove sennò?»
«Nell’oceano! Tu stai sempre nell’oceano.»
«Ma pensa te...», borbottò allargando il suo sorriso fino a raggiungere una risata calda. Jolyne intanto rideva anche lei, felice di potere abbracciare il padre.
«JoJo.» La voce seria di Ariana svegliò entrambi. Stava sulla soglia con le braccia incrociate, la fronte corrugata. Entrambi si sentirono presi a sberle da quello sguardo giudizioso. Jotaro, il quale si era limitato a tornare l’uomo serio di sempre, non si lasciò scomporre da quegli occhi pieni di nocciole. A giudicare da come si era stretta nell’abbraccio del padre, invece Jolyne doveva averne fatta qualcuna delle sue. «Perché non racconti a tuo padre che cosa hai fatto oggi all’asilo?»
Jotaro si sporse indietro con la schiena per potersi permettere di cercare lo sguardo della bambina.
«Che hai combinato?», le chiese senza alcun rimprovero. Ciò nonostante, Jolyne stava lontanissima dai suoi occhi e con le dita torturava il dolcevita nero del padre.
«Oggi all’asilo un bambino mi ha detto che Babbo Natale non esiste.»
Pur comprendendo la gravità di una cosa del genere per un bambina come Jolyne, Jotaro corrugò la fronte, inarcò un sopracciglio in attesa di ulteriori spiegazioni. Siccome queste non arrivavano, si trovò a doverle chiedere con lo sguardo ad Ariana.
«E poi che cosa hai fatto, Jolyne?», la incalzò la madre. Jolyne si crucciò nella fronte e gonfiò le guance.
«Mi sono arrabbiata.»
Ariana fece ruotare gli occhi al cielo, spazientita sciolse le braccia ai fianchi.
«E poi?»
«E poi gli ho detto che Babbo Natale esiste e che il mio papà l’ha incontrato nell’oceano e quindi esiste per forza!»
Jotaro si prese qualche momento per elaborare quelle informazioni, ma ancora gli sfuggiva il motivo di tanta arrabbiatura negli occhi di Ariana, la quale ora restava zitta.
«...Jolyne, non è che stai dimenticando di raccontarmi qualcosa?», le domandò nel suo tono monocorde.
Scocciata per essere stata scoperta, Jolyne rimbalzò un paio di volte tra le braccia del padre e continuò a raccontare aggrappandosi alle sue spalle, nascondendo la faccia dal lato opposto rispetto a dove i genitori potevano vederla.
«Siccome mi ha detto che sono stupida e che credo alle scemenze, io mi sono arrabbiata e gli ho dato un pugno.»
«Un pugno?»
«Ti rendi conto?!», sbottò Ariana.
«Ma se lo meritava!», strillò Jolyne girandosi verso la madre.
«Non ti permettere ad alzare la voce!»
«Ma pensa te.» Alterato in mezzo a quello strillare, Jotaro fece una mezza torsione su sé stesso mentre faceva scendere la bambina. Questa sbatté i piedi per terra con stizza, le mani strette strette prima lungo ai fianchi, poi incrociate al petto. Jotaro si portò entrambe le mani ai fianchi, poi iniziò a parlare con sguardo serio e voce ferma: «È già la seconda volta in un mese, quante volte ti dobbiamo dire che non è con la violenza che si risolvono le cose?»
Jolyne contrasse le spalle e allargò le mani all’altezza del viso, pronta a dare altre spiegazioni, con gli occhi enormi pieni di lucciconi.
«Ma io–»
«Non controbattere,» le disse con secchezza. «Vattene nella tua stanza, stasera niente cartoni animati.»
«Ma papà!»
«Non voglio sapere altro,» e intanto la scortava verso l’uscita dello studio con una mano fra le sue scapole esili, passando sotto lo sguardo inquisitore di Ariana. Jolyne provò a protestare con passo pesante e ciondolando, mugugnando suoni che non avevano un vero significato.
Appena svoltarono oltre la soglia, quando fu sicuro di essere distante dalla portata visiva di Ariana, Jotaro si abbassò fino a raggiungere l’orecchio della figlia. «Sono sicuro che quel bambino se lo meritasse, perché tu non sei una scema.»
Sentendo la voce del padre, bassa e confortante, gli occhi verdissimi di Jolyne si illuminarono insieme a un sorriso. Si voltò entusiasta verso di lui per parlare a voce bassissima, ma contenta.
«Dici davvero?»
«Certo,» mormorò con un sorriso visibile solo negli angoli, addolcito dalle palpebre socchiuse. Poi si sporse verso di lei portando una mano a conchiglia fra le proprie labbra e il suo orecchio. «Stasera guarda i cartoni a volume basso basso basso. Attenta a non farti scoprire dalla mamma, altrimenti ci mette in punizione a tutt’e due.»
A quelle parole, Jolyne dovette trattenersi per non saltare sul posto, così decise che il modo più sicuro per ringraziare suo padre era un abbraccio affettuoso, strettissimo attorno al collo. Jotaro la spinse verso di sé con delicatezza, giusto per il tempo di bearsi del buon odore di more che facevano i suoi capelli, poi la lasciò andare. Tornato dritto, assicuratosi di vederla entrare nella sua cameretta, si portò un indice davanti alle labbra e Jolyne fece lo stesso per sigillare il loro preziosissimo segreto. Poi la porta si chiuse e gli occhi di Jotaro si spensero, le spalle si abbassarono, il petto si sgonfiò. Quando rientrò nello studio, Ariana era ancora lì persa in chissà quale pensiero. Senza dire nulla scelse di passare oltre lei e tornare a guardare i documenti che stavano sulla scrivania. Li fissò in silenzio per qualche istante, i polpastrelli della mano sinistra fermi nella ruvidità dell’inchiostro stampato. Un sospiro, un movimento bloccato del pomo d’Adamo e un pugno di parole:
«Ho firmato,» disse mentre le porgeva il mazzo di documenti torcendosi verso di lei quanto bastava.
Tornata con le braccia a stringersi la cassa toracica, Ariana non si scompose nel vedere le carte. Eppure si prese un momento per fissare quella pila di fogli ordinata, consumata negli angoli per tutte le volte che le dita di Jotaro l’avevano toccata. E in un istante le tornarono in mente tutte le volte che lei stessa era stata toccata da quelle dita. Le notti passate insieme, le promesse fatte, i baci a fine giornata, tutte le volte in cui avevano consumato i loro corpi quando fuori faceva freddo. Si trovò a pensare al modo in cui tutti i momenti romantici erano pian piano diventati sempre più meccanici, sempre meno reali, alle scuse che aveva dovuto iniziare a costruire per Jolyne e per sé stessa, incapace di crederci anche solo per un istante.
Alzò lo sguardo sugli occhi del marito e trovò le sue iridi impenetrabili di sempre. Aveva sempre trovato un fascino indescrivibile nel modo in cui quegli occhi osservavano il mondo, minuziosi e silenti. C’era una profonda tristezza tra le iridi e le pupille accentuata dal modo in cui le sopracciglia non erano mai realmente distese, e sapeva che era stato quello il dettaglio che l’aveva fatta innamorare. Era consapevole del fatto che innamorarsi delle persone infelici avrebbe portato a delle complicazioni, solo non credeva si sarebbe arrivati fino a questo punto. Non voleva sentirsi colpevole di come quel matrimonio fosse finito, tuttavia si domandava se in qualche modo avesse sbagliato lei. In un attimo si chiese se fosse stato anche per colpa sua se il marito preferiva passare più tempo a lavoro che in casa, sempre lontano e sempre più a lungo, dimenticandosi di telefonare a volte anche per giorni. Avesse avuto la possibilità di andare indietro nel tempo, forse avrebbe potuto cambiare qualcosa del proprio comportamento, magari allora Jotaro l’avrebbe voluta di più, forse l’avrebbe persino amata di più. Tutte le volte che questo pensiero compariva come un flash nella sua mente, però, subito veniva seguito da quello che la faceva sentire esente da qualsiasi colpa: c’era un uomo nella vita di Jotaro. Un uomo. E allora lei non poteva fare nulla, non poteva cambiare niente del loro passato insieme, né di sé stessa. Avesse avuto la possibilità di andare indietro nel tempo, si sarebbe limitata a fare ciò che aveva già fatto e sperare in un unico cambiamento: che Jotaro non incontrasse mai quell’uomo.
Stringendo i denti, dopo una manciata di secondi Ariana prese i fogli e con lo sguardo andò a leggere la firma dell’ormai ex marito.
«Ti voglio fuori da questa casa entro stasera.»
Le parole di Ariana erano prive di qualsiasi emozione, la voce sembrava essersi arrochita per il silenzio che aveva fatto loro da barriera. Voltato verso il legno bruno della scrivania, stringendo le mascelle, in un respiro profondo Jotaro annuì, anche se non era una vera risposta.
«Cos’hai intenzione di fare con Jolyne?»
Ariana abbassò lo sguardo, le braccia di nuovo conserte al petto sebbene stringessero i documenti.
«Dato che a settembre comincerà la scuola, la porterò con me in America.»
Poiché la conversazione continuava ad appesantirsi e la gola di Jotaro restava arsa, questi decise di svitare il tappo della bottiglia di cristallo che teneva sempre accanto al portapenne e nel bicchiere abbinato si versò tre dita di whiskey. Un sorriso amaro gli piegò l’angolo sinistro delle labbra accompagnato dall’aspro accenno di una risata.
«Quindi devo andarmene da casa mia anche se hai intenzione di andartene tu.»
«Questa non è casa tua.»
«Eppure l’abbiamo pagata con il mio stipendio.»
Alzando lo sguardo sulle tapparelle semichiuse della finestra, Jotaro mandò giù un lungo sorso del suo liquore. Strinse tra loro le labbra, le pulì con la punta della lingua ora che guardava la trasparenza del suo veleno preferito.
«Non ci sei mai stato per più di un paio di settimane di seguito.»
«Resta comunque casa mia.»
«E allora cosa dovrei fare? Prendere Jolyne e andarmene così, da un giorno all’altro?»
«Nessuno ti sta chiedendo di andartene, tantomeno di portare via Jolyne.»
Una risata amara si alzò dalla bocca di Ariana, la quale scosse anche il capo, incredula.
«Scusami, e secondo te io sarei così sconsiderata da lasciarla con te? Sei uscito completamente pazzo? Jolyne verrà con me, punto. È per la sua sicurezza.»
Un altro sospiro, un altro sorso. Su questo, purtroppo, doveva darle ragione. Non poteva garantire per Jolyne una presenza stabile, non avrebbe potuto tenerla lontana dalle maledizioni che continuavano ad abbattersi sulla famiglia Joestar. Dentro di sé, Jotaro sapeva bene che quella era la scelta più saggia, una scelta di cui Ariana non era consapevole ma che avrebbe tenuto Jolyne al sicuro da qualsiasi rischio.
«Non voglio più vederti, Jotaro.» Il bicchiere di whiskey si svuotò più rapidamente del previsto, costringendo così Jotaro a riempirlo di nuovo. Ariana sollevò un sopracciglio e scosse il capo con forza, distolse lo sguardo concentrandosi su qualsiasi cosa che non fosse l’uomo che aveva davanti. «Non dovresti bere così tanto.»
«Da oggi non è più un tuo problema, anche se non mi risulta che prima lo fosse.» Punta da quella risposta, Ariana sospirò con forza in una smorfia amara, il peso del corpo che scivolava tra un tallone e l’altro. «Dormirò fra lo studio e il divano finché tu e Jolyne non andrete in America, se proprio non ti va di vedermi allora girati dall’altro lato.»
Il secondo bicchiere di whiskey gli scivolò nella gola d’un fiato, obbligandolo a serrare gli occhi e trattenere il fiato in attesa che il bruciore si depositasse sul fondo dello stomaco. Infine, con un colpo sonoro posò il cristallo sulla scrivania, segnale di quanto fosse difficile trattenere la rabbia che galoppava nel petto. Solo allora Ariana si rese conto di essere estremamente tesa, quando il ventre le si sfondò al suono improvviso del vetro con il legno del mobile. Costretta dall’istinto a guardare verso Jotaro, lo vide intento a sfilarsi l’anello dal dito.
«Jotaro... dove abbiamo sbagliato?»
Con l’ennesimo sospiro ad appesantire l’aria, Jotaro posò con forza la fede sulla scrivania, poco distante dal bicchiere sporco di liquore, colpita in un bagliore leggero che filtrava dalla finestra.
«Direi che ormai è tardi per chiederselo.»
 
«Papà?»
La voce di Jolyne lo riportò alla realtà. Gli era capitato spesso di tornare a pensare al modo in cui nello stesso giorno era stato capace di raccogliere il primo frammento di un rapporto e frantumarne definitivamente un altro. Chissà cosa penseresti di me, mamma.
«Mh?»
«La mamma oggi mi ha detto che tu non vieni in America con noi.» Jotaro sospirò con forza, gli occhi chiusi e la mano salda attorno a quella di Jolyne mentre aspettavano che il semaforo diventasse verde. «È perché non ci vuoi più bene?»
Quelle parole trafissero Jotaro in pieno petto con una forza che gli gelò le spalle.
«Ma che dici, Jolyne, no.» Il semaforo divenne verde e poterono passare dall’altro lato della strada. «È stata sempre tua madre a dirtelo?»
Jolyne esitò per un momento, gli occhi crucciati.
«La mamma mi ha detto che ti sei ammalato e che le donne non ti piacciono più.»
Jotaro alzò lo sguardo al cielo, forse nella speranza che qualche santo scendesse per stringere la mano di Ariana o per darle una pacca sulla spalla forte abbastanza.
«Ma pensa te...»
«Siccome io e la mamma siamo donne vuol dire che non ti piacciamo più?»
«Jolyne, la mamma ha... Mh, diciamo che ha esagerato. Per prima cosa, io non sono malato. Sto benissimo.»
«Sei sicuro?»
«...certo.»
«Perché, papà, intanto le bugie non si dicono, e poi se stai male aspetta che divento dottoressa così ti guarisco!» Nella genuina ingenuità delle parole di Jolyne, Jotaro non poté trattenere un sorriso, persino l’eco leggera di una risata. Questo, però, scaturì una reazione di stizza nella bambina, la quale mise il broncio e piantò i piedi per terra. «Che ti ridi? Guarda che io sono serissima!»
«Lo so, principessa,» si apprestò a rispondere Jotaro guardandola in viso con tenerezza. «Ma ti ripeto che sto bene.»
«Mphf,» sbuffò Jolyne con le guance piene d’aria. «Sarà meglio per te.»
Come tutti i bambini, poi, Jolyne dimenticò in fretta quei problemi e i suoi occhi si riempirono di stupore quando davanti a loro comparve il grande spiazzo che dava sul MOMAT. Con l’altra mano, nella quale stringeva la sua bambola preferita, presto indicò il grande museo.
«Siamo arrivati?»
«Sì,» rispose Jotaro riempiendo i polmoni, incapace di ignorare il fremito che lo aveva scosso nelle vertebre. Un altro tassello, oggi, sarebbe stato raccolto da terra. Forse non era il più grande, ma ogni pezzo recuperato acquisiva un valore inestimabile.
«E oggi c’è anche il pittore?»
«Sì,» le rispose nuovamente mentre attraversavano la piazza. «Mi raccomando, Jolyne, quando entriamo parla a bassa voce.»
«Perché?»
«Perché nei musei si parla a bassa voce.»
«Ma tanto i quadri non sentono.»
«...sei sicura?»
A quella domanda, Jolyne sollevò le sopracciglia fino ad annullare lo spazio tra la fronte e l’attaccatura dei capelli, rallentò persino il passo per quanto grande fu la sorpresa.
«Andiamo, andiamo, andiamo! Voglio vedere se i quadri possono sentirmi!», disse poi, e in uno slancio d’entusiasmo lasciò andare la mano del padre per correre verso l’ingresso del museo. Dietro di lei, Jotaro sorrideva composto, scaldato nel cuore dall’entusiasmo della figlia, entrambe le mani nelle tasche. Distante da lei solo di pochi passi, la osservò fermarsi sulla soglia e restare di sasso davanti alla bellezza di un posto che già nella sua architettura si mostrava imponente e saturo di storie da ascoltare.
«Papà!», disse mentre allungava la mano libera verso quella di lui. Jotaro la strinse con la propria, scuotendo il capo le rivolse un tenue sorriso e la bambina rispose con una risatina elettrizzata.
Poi lo vide.
Bellissimo, in un completo che rispecchiava tutta l’eleganza della sua anima, Noriaki Kakyoin si era già accorto di lui. Non avrebbe saputo dire se perché i portatori di stand si attraggono a vicenda, se per il rumore lieve della porta o per l’entusiasmo di Jolyne, fatto sta che si erano già trovati. E lui era davvero bellissimo, quasi fosse scivolato giù dalla cornice dorata di un dipinto seicentesco per beare i visitatori della sua presenza.
Il dettaglio che più di tutti saltò allo sguardo di Jotaro, naturalmente, furono i suoi capelli. Di nuovo rossi, di lava rovente, pieni di vita come non li aveva mai visti. Ci furono, subito dopo, altri due dettagli che balzarono ai suoi occhi: il primo, un bastone che conferiva ulteriore eleganza alla scelta dell’abbigliamento per la serata; il secondo, l’andamento zoppicante della sua camminata. Era una variazione lievissima, percepibile solo se si prestava un’attenzione ossessiva o se si conosceva nel profondo il modo naturale che avevano le gambe di Kakyoin di muoversi, ora incerte sulla fascia destra del corpo e più dritte in quella mancina.
«Papà...», lo chiamò a bassa voce Jolyne tirandolo per la manica. Jotaro si girò verso di lei, costretto ad allontanare lo sguardo da Kakyoin. Quando vide che la bambina aveva messo la mano a coppa per parlargli nell’orecchio, questi glielo porse. «C’è Ariel!»
«...Ariel?», ripetette corrugando un fascio di muscoli tra le sopracciglia.
«Sì, sta venendo qui!»
«Jolyne, ma cosa stai...»
«Guarda! Ha i capelli come la mia! Ed è vestita di verde!»
«Ben arrivati.» La voce di Kakyoin, accogliente nel suo morbido suonare, distrasse entrambi da quel piccolo battibecco che stava avvenendo e gli occhi dei Kujo si spostarono tutti su di lui. «Sei in anticipo,» disse poi allungando il suo sorriso verso Jotaro, il viso inclinato su un lato.
«Non ero sicuro, così ho preferito non rischiare di arrivare tardi.» In verità non ce la faceva più ad aspettare. Se i mesi gli erano sembrati interminabili, le ore di quella giornata scorrevano lente quanto lento passa l’anno.
«Il bastone ti serve perché la strega del mare ti ha preso la coda?», interruppe Jolyne a gamba tesa, anzi a braccio teso, indicando il bastone. Il cuore di Kakyoin sobbalzò e lo stesso fece quello di Jotaro. Presi così alla sprovvista da quella domanda, nessuno dei due fu capace di dare una risposta alla bambina. Jolyne, che non amava essere ignorata ma al tempo stesso si sentiva colta da un’emozione che non sapeva descrivere, prese il coraggio a due mani e disse: «Ti serve perché hai imparato a camminare da poco, vero?»
Attraverso le lenti scure degli occhiali era difficile vedere tutti i colori della bambina che aveva davanti, così Kakyoin decise di sfilare la montatura e appenderla al taschino del gilet, rivelando le proprie iridi di quel celeste che si mescolava alle sfumature dell’ametista. Sorrise alla bambina ora che si rendeva conto della bambola di Ariel, vera protagonista di quel momento, e con la quale notò una certa somiglianza.
«Tu devi essere Jolyne,» disse poi portandosi la mano libera al fianco. Sentendosi chiamare per nome, con gli occhi che brillavano di mille luccichii per l’emozione, Jolyne annuì veloce e senza fiato.
«E tu sei Ariel?»
Sentendosi chiamare in quel modo, Kakyoin non poté fare a meno di ridere, teneramente divertito. A quel suono di cristallo, Jotaro sentì il cuore scaldarsi. Chi aveva davanti sembrava una persona completamente diversa rispetto a quella che aveva visto salire sul treno, sparita verso chissà quale meta.
«Shhh,» disse poi Kakyoin avvicinandosi l’indice sinistro alle labbra. «Altrimenti scopriranno tutti la mia vera identità.»
Jolyne riuscì a restare ancora più senza fiato, tanto che le spalle le si sollevarono di un pugno di centimetri mentre tirava la manica del cappotto di Jotaro.
«Papà, papà! Hai sentito?» Jotaro si limitò ad annuire con lo sguardo socchiuso. Subito Jolyne tornò a guardare l’altro. «Ma se non posso chiamarti Ariel, allora qual è il tuo nome da umana?»
Kakyoin sorrise ancora, con il peso del corpo spostato tutto sulla gamba sinistra cosicché non gravasse sulle vertebre.
«Mi chiamo Kakyoin.»
«Kakyoin?»
«Un nome da pittore, non è vero?», commentò Jotaro sporgendosi verso la bambina. Questa fece una smorfia confusa, le sopracciglia contratte.
«Da pittore?»
«Non te l’aspettavi?», chiese Kakyoin allargando uno dei suoi sorrisi.
«Ma quindi sei un maschio?»
Mentre Jotaro sentiva tra le viscere una crescente e inspiegabile sensazione di disagio, Kakyoin rideva e sistemava una ciocca di capelli dietro l’orecchio – in mostra: un orecchino dalla lunga catenella d’oro che terminava in una sfera traslucida color amarena.
«Sì, sono un maschio.»
Jolyne s’illuminò, lasciò andare la presa dal cappotto del padre e allungò la mano verso quella di Ariel Kakyoin.
«Vuoi essere il mio fidanzato?», domandò con un gran sorriso.
«Jolyne–!!», provò a rimproverarla il padre. Kakyoin rise di cuore, con la testa reclinata all’indietro e la mano sinistra aperta sul petto. La bambina, invece, restava perplessa sebbene sorridente, in attesa di una risposta vera.
«Non mi avevi detto che tua figlia aveva dei metodi di seduzione così efficaci, magari la prossima volta ci provo anch’io per vedere se funziona», disse canzonando Jotaro non senza uno sguardo felino e uno dei suoi sorrisi affilati e furbi che si piantò dritto tra i ricordi di quest’ultimo, scavandosi la via tra i mille sorrisi di quella stessa natura che aveva visto in Egitto.
Kakyoin non gli diede il tempo di rispondere che le sue iridi erano già di nuovo sulla bambina.
«Con molto piacere, Jolyne,» le rispose prendendola per mano. Felicissima, Jolyne alzò lo sguardo sul papà e gli rivolse il sorriso più grande che Jotaro avesse mai visto sul suo volto, in attesa del permesso di poter andare con lui. Di ricambio, Jotaro sorrise a sua volta e annuì.
«Allora ciao, Jotaro, io e la mia nuova fidanzata andiamo a farci un giro tra i dipinti.»
«E non posso venire con voi?», chiese Jotaro stando al gioco mentre li osservava girarsi di spalle e andare verso il percorso che li avrebbe portati tra le opere della mostra. Si girarono entrambi per rispondere, ma a parlare fu Jolyne.
«No, Kakyoin è il mio fidanzato! Dovevi pensarci prima, se volevi un appuntamento con lui.» E tutta soddisfatta si girò di nuovo.
Kakyoin, con gli occhi sgranati e le sopracciglia inarcate, sorpreso e al contempo divertito da quanta audacia ci fosse in una bambina così piccola, non poté fare altro che rivolgere uno sguardo a Jotaro e fare spallucce con un sorriso.
Di tutta risposta, con le mani nelle tasche, Jotaro scosse il capo, incapace di nascondere il sorriso che gli piegava gli angoli della bocca.
«...ma pensa te.»
Ogni cosa si può aggiustare, amore mio.
 
 
 
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N.d.A.:
 
1: tipico pezzo d’arredamento giapponese; generalmente consiste in un tappeto quadrato o rettangolare dalla superficie morbida e che si piega su sé stesso.

Bentornat* nelle note d'Autore!
Questa settimana ho avuto la grandissima fortuna di avere del tempo a disposizione, così mi sono detta: B E H, meglio approfittare, perché nel futuro prossimo non so quando sarò capace di pubblicare di nuovo con cadenza regolare. Ciò nonostante, ci tengo a rassicurarvi sul fatto che non ho intenzione di mollare nessuna storia - nemmeno la BruAbba, che purtroppo è ancora in stand by perché richiede molta più energia (?) rispetto a questa storia qui.
E insomma, oggi la vera protagonista della storia è Jolyne.
Come sempre, se avete pareri o consigli non vedo l'ora di leggervi!

Un bacio, e - spero - a presto 

iysse ♥

 
   
 
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