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Autore: Primavere    09/07/2021    11 recensioni
La storia di due bambini e di un mondo che cade, il loro.
Caucaso, in un futuro prossimo segnato dalla guerra l'esercito federale russo continua la sua avanzata per riprendersi i territori che un tempo facevano parte dell'immenso e tentacolare Impero zarista. In un villaggio sperduto alle pendici delle montagne, affacciato sul Danubio blu, Ilyas vive con la madre e la sorella senza sapere nulla della guerra finché quest'ultima non viene una notte per togliergli tutto.
«Ti prego, mamma.» Lui non riuscì a resistere come lei: la sua voce si spezzò, lacrime calde cominciarono a scorrergli lungo le guance. «Ti prego, no, vieni con noi.»
Il labbro di lei tremolò e per un attimo parve cedere. «Ilyas.» La sua voce aveva assunto una nota dolce, triste. «Promettimi che vivrai.»
Genere: Angst, Guerra, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Wolfen - serie'
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Premessa:

Questa storia è legata a questa serie, ma è leggibile tranquillamente senza conoscere la storia principale, Wolfen, perché riguarda un episodio circoscritto del passato di due personaggi.
Ci sono solo un paio di cose da sapere per non confondersi: siamo in un futuro prossimo, c'è stata una guerra nota come l'Ultima Guerra che è stata in realtà l'inizio di un perenne stato di guerra. L'ambientazione è un piccolo villaggio del Caucaso, regione che sta venendo conquistata dalla Federazione russa. La Russia infatti, in questo futuro immaginario, ha ripreso la sua espansione militare nel Caucaso, quasi una replica dell'invasione dell'Impero zarista nell'Ottocento. In ultimo, c'è un elemento soprannaturale perché il narratore è un vulkulaki, un lupo mutaforma, ma al contrario di Wolfen, che è una storia fantasy, qui questo elemento viene appena accennato. Il focus è la violenza che spazza via, in una sola notte, l'infanzia di due bambini.

Buona lettura a chi vuole avventurarsi ^^





Tekija, Federazione Russa
 

Quel giorno aveva piovuto poco. La mattina il cielo era apparso grigio, denso di nuvole che si erano andate man mano infittendosi nel corso della giornata per poi sfilacciarsi nel pomeriggio. Salendo verso la parte alta del villaggio, attraverso la strada principale che sembrava voler raggiungere il cielo, Ilyas aveva potuto assistere alla lenta digradazione: il grigio aveva ceduto al rosa, poi al viola, infine al rosso; colori intensi che si erano stemperati mentre la luce avanzava. Presto ogni sfumatura si era dissolta e si era ritrovato in pieno sole. Dalla collina che dava sul fiume si estendeva una coltre biancastra simile a spuma di latte. Qua e là spuntavano ritagli d’azzurro e di verde. Le cime delle montagne, dall’altra parte del fiume, svettavano pallide, indorate di luce rosata.
«La mamma si arrabbierà» disse Aisha e lo tirò per la manica.
«Siamo solo un po’ in ritardo» la rassicurò lui. La prese per le ascelle, la sollevò e la fece dondolare. «Non ti piacerebbe avere delle ali?»
Quando si trovava da quella parte del villaggio, sopra la collina, pensava sempre a come sarebbe stato poter volare via.
«Mi fa paura» confessò Aisha e con lo sguardo perlustrò il paesaggio avvolto in quella nebbiolina sottile per volgerlo infine verso di lui. «A te no?»
«No» rispose lui e la sollevò un po’ di più, portandosela all’altezza del petto. Era leggera, così minuta, il viso magro su cui la massa dei capelli castani sembrava pesare. Lui aveva dodici anni ed era metà lupo; poteva portare pesi anche maggiori. «E di cosa hai paura poi? Finché ci sono io, non devi aver paura di nulla. Ti reggerò sempre.»
Le baciò la punta del naso e lei ridacchiò. Strinse i pugni sulla sua camicia. «Ho fame.»
«Adesso torniamo.»
Ilyas approfittò di quegli ultimi minuti di luce per godersi lo spettacolo del sole che tracimava oltre l’orlo azzurro delle montagne. Erano visibili i villaggi dell’altra sponda, appesi come nidi di rondine sui fianchi scoscesi dei monti. Il cielo riverberò di rosso e oro, incendiandosi. Da lontano arrivava l’odore del mare.
Scesero facendo a gara a chi arrivava prima. Aisha rischiò di ruzzolare, fu costretto a prenderla in braccio a metà tragitto. Quando raggiunsero la piazza, la moschea si stava svuotando. Gli uomini che ne sciamavano fuori si riunivano in piccoli grappoli. C’erano gli anziani, gli aksakal, che sedevano sulle panchine, il loro posto d’onore dall’inverno all’estate. Erano facilmente riconoscibili per via delle lunghe barbe bianche, che risaltavano contro le pellicce di montone. Portavano un berretto di pelo, il papacha, e sembravano aver l’aria di aver visto l’aldilà e di esserne tornati per dire che non era un granché.
Sebbene non fossero religiosi in famiglia, Ilyas conosceva alcuni ragazzi credenti, i loro vicini, per esempio, gli Aimir, e un paio di volte si era ritrovato a parlare con l’imam del villaggio: gli aveva chiesto se era vero che, dopo la morte, i fedeli finivano in un giardino pieno di fiori, frutti e bellissime donne. L’imam aveva trattenuto un sorriso. Gli aveva dato una pacca sulla spalla, elargendogli una frase che non aveva capito – non si sceglie una fede per morire – e lo aveva mandato via con un baklava di miele e pistacchio. Tutto sommato, aveva pensato, gli era andata bene.
Con Aisha al fianco, aggrappata alla sua mano, si mosse tra la folla. Raggiunsero casa nel giro di pochi minuti, proprio quando gli ultimi residui di luce si stavano spegnendo. Dalla cucina proveniva un forte odore di cannella e cetrioli marinati.
«Ilyas! Perché ci hai messo tanto?»
La voce di sua madre arrivò fino all’ingresso, non che la casa, un’abitazione di pietra e legno come se ne trovavano molte nel villaggio, fosse così grande da non sentirsi da una stanza all’altra.
«Aisha voleva vedere il Danubio.»
«Non è vero!» strepitò lei. «Sei tu che mi hai portato!»
«Guarda che ingrata…»
«Bambini.» Sua madre apparve, l’espressione stanca, ma il volto disteso. Indossava un grembiule su cui stava sfregando le mani sporche di farina. «Vi ho detto mille volte di non aggirarvi fuori quando fa buio.»
«Non fa ancora buio, siamo rientrati in tempo» protestò Ilyas.
«Con tutto quello che si sente in giro… Venite, avanti, la cena è pronta. Ilyas, la prossima volta che dici una bugia, ti mando a pulire il giardino del Caporale.»
«Oh, no» fece lui, di colpo spaventato.
Il Caporale, come veniva chiamato il vecchio Zora Dragonovic, era un bisbetico nostalgico dei tempi dell’Ultima Guerra, che non faceva che lanciarsi in invettive su quanto prima la vita fosse più dura, sì, ma più vera, e su come si fossero rammolliti i giovani. Dapprincipio Ilyas aveva provato curiosità nei suoi confronti – era un ex soldato! –, ma quando aveva visto che il canovaccio dei suoi discorsi era sempre lo stesso, piuttosto petulante, poi, aveva cambiato opinione. Inoltre, quando aveva bisogno di aiuto per lavori di manutenzione in casa e in giardino, l’uomo chiedeva a lui per pochi spiccioli, subissandolo di lamentele tra un bicchiere di slivovitz di prugne e l’altro. 
«Dobbiamo portare rispetto verso il Caporale: ha visto cose terribili in guerra» stava dicendo sua madre, ritornata in cucina, mentre loro due apparecchiavano.
Un fievole raggio di sole color arancio spioveva dalla finestra, inondando la stanza di piccoli lapilli di luce. Dietro il vetro la collina si stagliava contro il tramonto, nera, immersa nella bruma, dai contorni indefiniti come un sogno che sfuma all’improvviso.
«Sono passati anni…»
«Non così tanti in realtà. Se il Caporale ha certi atteggiamenti, è comprensibile.»
Sua madre gli agitò un dito davanti, dopo aver posato la zuppiera fumante. Per quella sera aveva preparato minestra di patate e proja. Aisha tentò di afferrare uno dei rettangoli che profumavano di farina di mais, formaggio e uova, ma la mamma la bacchettò affettuosamente sulle dita.
«Dopo, tesoro, prima la minestra. Ho comprato al mercato anche dei ćevapčići, sì, ma solo se finisci tutta la minestra.»
Aisha si animò tutta a quella prospettiva e si mise seduta, già pronta col cucchiaio in mano. Ilyas prese posto con più indolenza.
«Se avessi preso del pesce, lo avrei portato. In realtà l’ho preso, ma quel culo nero di Igor mi ha impedito di…»
«Ilyas.»
«Cosa?»
«Non mi piace che usi quelle parole.»
«Oh, mamma» sbuffò lui. «Che ci posso fare se me le tira fuori? È un bastardo, un furfante. Fa tanto il grande, si vanta di essere il capitano-direttore, ma non sa neanche trovarsi le mutande dentro i pantaloni!»
Odiava, non tanto cordialmente, Igor Malik, un russo, il proprietario della barca dove lavorava come pescatore, anche se più che una barca la si poteva definire una fabbrica galleggiante, ormeggiata nel piccolo porto del villaggio. Malik veniva dalla Calmucchia e maltrattava i suoi operai alla maniera sovietica: iraconda e burocratica. Li obbligava a chiamarlo signor direttore, naĉalnik, e fumava sigarette con vero tabacco e carta velina, non quelle carte di giornale arrotolate e riempite di tabacco umido e puzzolente. Gli altri dipendenti, ragazzi più grandi di Ilyas, usavano rollarsi le sigarette tenendo i gambi di foglie di tabacco sul cavo della mano e sbriciolandoli sulla cartina. Passavano la lingua sul bordo di carta gommata e infine chiudevano il rotolo, soppesando il gesto come se si trattasse di uno strano rituale, intimo e sospeso.
In passato Malik aveva fatto un sacco di soldi grazie al caviale nero del Volga, ma poi la sua ditta era fallita e, a causa dei debiti, era venuto in quel villaggio disperso nel Caucaso per fondare un’altra impresa che, come la prima, faceva letteralmente acqua da tutte le parti. Il lavoro di Ilyas consisteva nel ripulire il pesce e questo voleva dire che oltre a una misera paga e ai lazzi degli altri dipendenti, doveva sopportare la perenne puzza delle viscere sventrate. L’unica cosa buona che ne ricavava era la possibilità di prendere alcuni dei pesci che rimanevano intrappolati nelle reti lasciate durante la notte. La mamma ne faceva un brodo, di solito, speziato con paprica piccante, oppure cucinava le carpe alla griglia. Uno storione, per esempio, se lo potevano solo sognare. Malik lo avrebbe ucciso, se glielo avesse visto prendere.
Ilyas aveva promesso a se stesso che un giorno avrebbe avuto lui una ditta galeggiante sul Danubio e che avrebbe mangiato caviale tutti i giorni.     
«Ringraziamo che hai un lavoro» borbottò sua madre, soffiando sul cucchiaio. Spezzò un pezzo di pane. «Domani sempre alle cinque?»
«Sì» fece lui per nulla entusiasta all’idea di svegliarsi all’alba.
Quel giorno, che era il suo giorno libero, ne aveva approfittato per giocare coi vicini; Jamal, il figlio maggiore degli Aimir, gli aveva fatto provare la sua motocicletta. Ilyas per poco non aveva sfondato la recinzione del giardino. Nel pomeriggio si era aggirato nei boschi che attorniavano il villaggio, sotto forma di lupo, bene attento a non farsi beccare da nessuno. Da quando Tekija era stata dichiarata “zona d’allerta” per i programmi di pulizia etnica della Federazione russa, non si poteva più gironzolare con tranquillità lontano dai centri abitati.
Quella mattina aveva visto proprio il Caporale lucidare il suo vecchio moschetto all’ombra della veranda, l’unico occhio buono puntato sulla caligine vegetale che circondava il villaggio da sud.
«Quando arriveranno quei russi di merda troveranno piombo per i loro culi» lo aveva sentito grugnire prima di sputare uno spesso grumo color tabacco a terra.
A volte gli piaceva il Caporale, doveva ammetterlo.
«Ho finito.» Aisha batté la sua scodella sul tavolo e allungò lesta la mano verso la proja. «Mamma» fece, mentre lei tirava fuori i ćevapčići farciti di cipolla dalla loro busta. «Mamma, quando diventerò anch’io un lupo?»
Lei si lasciò sfuggire un sorriso. «Sei impaziente? Cara, ti ho già detto che potrebbe non capitare.»
«Io voglio essere un lupo come Ilyas. Perché lui sì e io no?»
Aisha era figlia di un umano, il secondo marito di sua madre, l’uomo per cui lei aveva abbandonato il suo clan. Aveva detto più volte che, a causa del sangue umano più forte, Aisha avrebbe potuto non trasformarsi mai.
«Vedrai che accadrà, piccola, porta pazienza.»
Ilyas si sentì sorridere. «Io sarò sempre più forte però.»
«Ilyas.»
«No, lo sarò io» disse Aisha, calma e serena, e iniziò a mangiare con gusto il rettangolo di proja.
La sera scese bruscamente dopo il crepuscolo indugiante. A fine cena la casa era già invasa di ombre, sua madre si alzò per accendere la luce. Come ogni sera, prima di metterli a letto, gli raccontò una storia. Ilyas sdegnava quel rituale, ritenendosi ormai cresciuto per certe cose da mocciosi, ma visto che condivideva la camera da letto con sua sorella non poteva che sottostare – solo per quello, solo per cause di forza maggiore, si diceva.
«Raccontaci una storia di vulkulaki, mamma.»
«No, a me fanno paura!»
«A te fa paura tutto, fifona.»
«Non è vero! Mamma!»
«Vi racconterò la storia del principe trasformato in lupo» decise lei, accarezzando i capelli di Aisha. «C’era una volta un principe bellissimo ma superbo, che cacciava quando non aveva fame e maltrattava i suoi sottoposti. Un giorno incontrò una vecchina sulla strada che faceva sempre quando tornava dalla caccia, una vecchina che gli chiese un tozzo di pane perché aveva camminato a lungo e non mangiava da due giorni. Il principe la ignorò, quasi la fece cadere, facendo impennare il suo focoso destriero, ed ecco che la vecchina si trasformò in una vila, una delle fate che abitano presso le sorgenti e guidano gli uomini nei loro campi. La vila imprigionò l’anima oscura del principe nel corpo di un lupo e gli disse: “finché non conoscerai l’amore e la misericordia, rimarrai rinchiuso in questo lupo, più nobile della forma umana che ti avvolgeva”.»
La storia finiva bene, ovviamente, come tutte le storie, con una principessa e un cavallo bianco. Ilyas ascoltò tutto, bevendosi ogni particolare e facendo domande; Aisha si addormentò prima della fine.
«… e così il principe capì la lezione impartitagli dalla vila e non brandì più la spada per gioco, divenne d’animo buono e sensibile, rispettò tutti e si fece rispettare e il suo regno durò a lungo, prospero e in pace.»
«Ogni tanto potremmo cambiare tipo di storia» sbadigliò Ilyas, quando lei venne dal suo lato per dargli il canonico bacio della buonanotte.
«Poi la senti tu Aisha» sorrise lei e gli posò un bacio delicato sulla fronte.
Lui vide di fare una smorfia come la sua età di bambino ormai cresciuto imponeva.
«Mamma?»
Lei si fermò sulla soglia della porta. La sua figura snella era stagliata contro il bagliore che proveniva dal corridoio, i capelli scuri, lunghi e sciolti, che le ricadevano come una cortina di tenebra. Era bella, ancora bella, anche con quelle sbiadite rughe attorno agli occhi, i segni impercettibili lasciati dagli anni; in quella luce soffusa sembrava persino più bella del solito.
«Cosa c’è, Ilyas?»
«Domani prendo un beluga.»
Lei ridacchiò, sommessa. «Cerca di non farti licenziare piuttosto. Buonanotte, tesoro.»
Il rumore della porta che si chiudeva accompagnò il sospiro di Ilyas. Domani sarebbe ricominciata la solita solfa, già presagiva il puzzo di pesce. Aggrottò la fronte, nel buio, e si girò sul fianco. Sua sorella stava già dormendo beatamente, rannicchiata contro di lui, qualche ciocca scarmigliata a velarle il viso. Ilyas gliela scostò e sorrise per il modo in cui lei accartocciò il viso – come un gattino. Il lume della luna penetrava a sprazzi, filtrando tra le fronde dell’acero del giardino. Tutto era silenzio tranne il mormorio degli insetti e il frusciare delle foglie al vento. Chiuse gli occhi e cedette alla stanchezza accumulata durante la giornata.
Poteva essersi addormentato, scivolando quieto nel sonno, già da ore quando riprese a sentire il vento che gli sibilava nelle orecchie. C’era anche un altro rumore, nell’oscurità: un raspare insistente, come di fiamme, l’ululato di una bestia. Sbarrò gli occhi all’improvviso e percepì tutti i nervi vibrare. Nel cielo dietro la finestra non rimaneva che un’impronta di luna avvolta dal fumo.
«Mamma?» domandò, muovendo le labbra screpolate.
Lo schianto della porta: sua madre entrò nella stanza; aveva i capelli in disordine, la vestaglia malamente allacciata, la paura, visibilissima nonostante l’ombra, che le urlava negli occhi.
«Ilyas, alzati.» La sua voce tradiva la stessa paura, un palpito che però non incrinava la fermezza del tono.
Ilyas si raddrizzò, tutti i sensi in allerta. Ora sentiva altri suoni oltre la finestra: urla, si sarebbe detto.
«Che succede?»
Sua madre non rispose; stava scuotendo Aisha. «Alzati, scendi dal letto, dobbiamo andare via.»
Obbedì, ancora frastornato e un po’ stordito. Balzò giù dal letto e fece per prendere i vestiti appoggiati sulla sedia, ma la mano di lei gli afferrò il braccio. Non lo aveva mai stretto così.
«No, subito.»
Ilyas non capiva, ma non poté esternare la sua confusione; la mamma lo trascinò fuori dalla stanza insieme a un’assonnata Aisha. Stringeva le mani di entrambi come se volesse stritolarle. Solo quando furono in salotto e lui gettò un’occhiata attraverso la finestra che dava sul vialetto, capì di cosa lei aveva tanta paura.
Fuori era buio, ma il bagliore delle fiamme offriva una sufficiente illuminazione: stavano bruciando il villaggio. Lingue di fuoco, altissime, si levavano fino al cielo nero, sguarnito di stelle, e il fumo invadeva ogni prospettiva. La casa degli Aimir era un bozzolo ardente. Figure si muovevano in quell’incendio, attorno alle belve rosse dei fuochi: erano alte, fatte della stessa sostanza delle ombre, inguainate in divise bianche. Riconobbe i colori dell’esercito federale russo.
Si sentì strattonare.
«Nella cantina, avanti.»
Non potevano uscire di casa perché l’edificio era circondato; sua madre aprì la botola al centro del salotto, dove un tempo il marito conservava le bottiglie di vino e vodka. Attraverso le pareti, da fuori, gli arrivavano suoni di grida umane simili a versi di animali scannati. Ilyas sentì tutto il corpo ricoprirsi di pelle d’oca, Aisha si guardava attorno smarrita; aveva iniziato a tremare.
«Che succede, mamma? Perché scendiamo giù? Perché brucia tutto?»
C’era un passaggio sotterraneo nella cantina, Ilyas se lo ricordò d’un tratto. Era un piccolo tunnel che portava fuori, scavato secoli prima da altri bambini che abitavano in quella casa decrepita. Una volta scesi giù, nel fioco lume che si riversava cinereo nell’ambiente buio e polveroso, sua madre iniziò a togliere le varie cassette che ostruivano la porta del passaggio.
«Ilyas, aiutami.»
La sua voce era ancora ferma, calma, ma le sue mani stavano tremando, se ne accorse. Fece finta di non notarlo e l’aiutò. Tolsero gli oggetti posti davanti al piccolo tunnel, con un attizzatoio inutilizzato lei forzò l’apertura, rivelando il passaggio. Netto, a lui arrivò alle narici un odore di cose putrescenti, nascoste. Guardò sua madre, lei stava affannando.
«Bene» disse. Andò a prendere una torcia riposta in uno scaffale, verificò che funzionasse, gliela porse. «Dovete andare.»
«Cosa?» fece lui, non capendo.
La risposta venne inghiottita da un rumore forte, proveniente dal piano di sopra. Sentirono dei passi. Aisha si strinse alle gambe della madre, Ilyas si irrigidì. Sopra le loro teste qualcuno si stava muovendo.
Passi, voci, rumori, fruscii nel buio. Era diventato questo il loro mondo: solo suono. Sua madre aveva spento il lume, c’era solo la torcia come fonte di luce. Gliela rimise in mano, con fermezza.
«Andate.»
«Ma tu non passi» disse Ilyas e in quel momento capì. La consapevolezza fu una frustata gelida in pieno viso, uno strattone al petto; gli irrigidì tutti gli arti, gli mozzò il fiato in gola. Non potevano andare via senza la mamma, lasciandola lì, nella casa in cui erano entrati quegli uomini, in quella casa che sarebbe stata bruciata come le altre. Doveva esserci un’altra via d’uscita.
Provò a protestare, ma prima che potesse articolare qualsiasi parola si sentì prendere per le spalle. Sua madre si era chinata, erano alla stessa altezza. Il suo viso olivastro, dagli occhi verdi allungati, era immerso nelle ombre. Eppure lo guardava dritto, senza tentennamenti.
«Vivi.»
Ilyas la guardò.
«Ilyas, promettimelo.» La voce di lei ebbe un’impalpabile incrinatura, come un taglio sul vetro, ma non franò; solo le labbra le tremarono. «Porta tua sorella via da qui, uscite, fuggite. Siete l’uno la metà dell’altro, ricordi quando lo dicevamo? È così, è la verità. Promettimi che lo farai, che farai di tutto per salvarla, per salvarvi. Dovete stare insieme e non voltarvi indietro.»
«Mamm…»
«Promettimelo.»
«Ti prego, mamma.» Lui non riuscì a resistere come lei: la sua voce si spezzò, lacrime calde cominciarono a scorrergli lungo le guance. «Ti prego, no, vieni con noi.»
Il labbro di lei tremolò e per un attimo parve cedere. «Ilyas.» La sua voce aveva assunto una nota dolce, triste. «Promettimi che vivrai.»
E, tra le lacrime, lui assentì col capo. Lei lo strinse a sé, lo abbracciò, tendendo il braccio anche verso Aisha, che non capiva e li guardava con occhi smarriti. Le scostò i capelli e le baciò la fronte dopo aver baciato la guancia viscida di lacrime di Ilyas.
«Vai, Aisha, vai con tuo fratello. Non allontanarti da lui. Io vi raggiungo più tardi.»
«Va bene, mamma» fece lei, un po’ incerta. Ricambiò il bacio e prese la mano di Ilyas. «Perché piangi?»
«Andiamo» disse solo lui, asciugandosi le guance, e si voltò.
I rumori si erano fatti più forti: schianti di cose buttate per terra, di vetri rotti, di oggetti che rotolavano sul pavimento. E quelle voci. Ancora.
Il tunnel era buio, una gola aperta nell’oscurità. Ilyas ricordò le volte che vi si era avventurato, prima che il padre di Aisha lo chiudesse anni prima. Si aggirava nei cunicoli sotto le fondamenta della casa, tra odori di vegetali marci, cose vecchie e tracce di minerali. Scopriva passaggi segreti, porte su nuovi mondi, a quattro zampe, con il naso tappato dai fetori della terra umida, strisciando furtivo come si vede fare ai soldati durante le battaglie. Disperso nel buio, scambiando radici bianche e pallide per mani di cadaveri disseppelliti, passava i pomeriggi a svelare tesori e miserie.
Strinse forte la mano di sua sorella.
«Seguimi.»
Si chinò e iniziò a camminare a gattoni, lei lo seguì dopo un paio di istanti, salutando un’altra volta la madre. Ilyas non si voltò, il sapore salato delle lacrime che gli si era appiccicato alla pelle. Dentro il tunnel il buio era così fitto che non riusciva a vedere neanche le proprie mani, se non usava la torcia. Ebbe un tentennamento quando sfiorò una protuberanza che si rivelò essere una radice sporgente. Dietro di sé Aisha respirava affannosamente.
«Ci sono i topi? Ho sentito qualcosa. Perché la mamma non viene con noi?»
«Stai zitta» sibilò lui. La bocca gli si era riempita di metallo e il fetore della terra gli offuscava i sensi. «Adesso usciamo.»
Non seppe quanto durò quel loro strisciare, ma, quando sentì un refolo di aria fresca accarezzargli le narici, credette a un’allucinazione. Accelerò, scorticandosi quasi i gomiti; raggiunse la porticina che chiudeva il passaggio all’esterno e dalle cui fessure spirava l’aria di fuori. La spinse e, trovando resistenza, per un attimo di puro, agghiacciante terrore, pensò che fosse chiusa, ma cedette facilmente a una spinta più vigorosa. La spalancò e si ritrovò nell’aria fredda della notte con la volta sopra di loro dove le stelle si erano consumate.
Dopo essersi sollevato, tirò fuori Aisha, tutta arruffata e coi vestiti sporchi di terra. Tremava lievemente e si mordicchiava il labbro, l’espressione venata di preoccupazione. Forse stava cominciando a capire perché spalancò gli occhi e rabbrividì violentemente alla vista delle fiamme che lambivano la casa dei loro vicini.
«Ilyas?»
«È solo una finta, stanno tutti giocando, quello è fuoco finto. Ora stammi vicino, dobbiamo…»
Si riabbassò, gattonando sotto la finestra della cucina. Aggirarono la casa e lui pensava, pensava, pensava. Dove potevano andare? Dal Caporale? Nella chiesa, nella moschea? Ma se tutto bruciava, cosa gli diceva che non fosse già successo nella parte bassa del villaggio? E se tutto stava bruciando come…
La porta che dava sul giardino degli Aimir era spalancata. Non c’era nessuno laggiù. Decise di dirigersi da quella parte dove non avrebbero incontrato i militari, che ci erano già passati. Avrebbe potuto trasformarsi senza correre il rischio di essere visto. Spinse Aisha a seguirlo. Così concentrato nell’obiettivo di andare via da lì, allontanandosi dal pericolo che sentiva come un fiato sul collo, non pensava a null’altro che raggiungere la porta. Fu quindi con totale spaesamento e un brivido d’orrore che sobbalzò a sentire sua sorella gridare.
«Mamma!»   
Aisha si era voltata ed era in piedi, la sagoma accarezzata dal bagliore sanguinante della luna. Fissava con occhi sbarrati la scena dietro la finestra del salotto. Ilyas, con tutti i sensi allagati di terrore, seguì il suo sguardo anche se sapeva – lo sapeva – che non avrebbe dovuto guardare, che doveva andare avanti, non voltarsi indietro, lo sapeva, lo sapeva… si voltò e vide due uomini nel salotto che sparavano a una sagoma saettante. Sua madre, trasformata in lupo. Era riuscita a staccare il braccio di un soldato e ad atterrarne un altro. Schizzi rossi percorrevano le pareti insieme a pezzi di materia cerebrale. Uno degli uomini riuscì a colpirla: stramazzò al suolo con un lungo ululato, poi riverberò un altro sparo.
«Mamma!» Il grido di Aisha superò il ruggito delle fiamme. «No, no, lasciatela stare…»
Una delle ombre si voltò e fu allora che li videro.
«Scappa!» Ilyas, non seppe come, con quale forza, scattò verso sua sorella, l’afferrò per il braccio e la trascinò via. Raggiunse la porta del giardino nell’esatto momento in cui gli uomini uscivano dalla casa.
«Corri, corri!»
Non si sentiva quasi più le gambe per quanto stava correndo. Gli sembrava che l’anima gli fosse stata strappata via dallo scheletro e che il corpo la stesse inseguendo. Un gemito sordo di paura gli palpitava dietro l’orecchio, in fondo alla gola; era l’unica cosa che avvertiva insieme al battito assordante del cuore contro la cassa toracica. Con la mano di Aisha stretta nella sua si fiondò nel giardino degli Aimir, scavalcò i loro corpi distesi a terra – cadaveri, cadaveri ovunque coi corpi crivellati, le bocche spalancate sull’assenza di un grido. Non vi badò e continuò a correre, la disperazione e il terrore che donavano una forza impensabile alle sue gambe.
Il panico galleggiava in lui come acqua in un pozzo senza fondo, lo sentì tracimare i bordi della coscienza quando udì l’urlo degli uomini che li inseguivano. Cosa stavano dicendo? Parlavano in russo, una lingua dura, sconosciuta. Aisha ansimava, lui correva, trascinandola.
Correva. Correva dimentico di sua madre, della casa, dei vicini, forse anche di sua sorella se non l’avesse tenuta stretta. Correva senza pensare a niente e a nessuno, con l’unica compagnia della paura e un feroce monito di sopravvivenza affondato nel petto. Non sapeva dove, per quanto tempo avrebbe continuato a correre, sapeva solo che doveva correre, altrimenti, se si fosse fermato, qualcosa di terribile sarebbe accaduto.
La motocicletta.
Proprio quando stava superando la recinzione si ricordò della motocicletta di Jamal. La vide riversa a terra in una pozza scura di sangue dove il più grande degli Aimir, di cui ora si vedeva il corpo con la testa sfondata, era caduto, forse nel tentativo di afferrarla. Senza pensare, scartò nella direzione dove il veicolo stava. L’eco di uno sparo riverberò alto nell’aria, singhiozzante. Aisha urlò. Lui aveva già sollevato la motocicletta. La chiave stava tra le dita di Jamal; la prese, strappandogli quasi un dito.
«Sali» ordinò a sua sorella.
La mise sul sedile, si sedette e l’azionò. Il motore rombò, mandando solo un guaito strozzato, Ilyas riprovò, le mani tremanti, l’intero corpo tremante. A pochi metri di distanza uno dei militari si stava avvicinando.
«State calmi» disse l’uomo in un linguaggio comprensibile – forse era un caucasico che era riuscito a entrare nell’esercito federale. «Non vogliamo farvi niente, venite con noi.»
Aisha affondò il viso nella sua schiena; forse stava piangendo e lei non lo faceva quasi mai.
No, no, pensava lui, cercando convulsamente di mettere in moto la motocicletta. No, no, no.
Girò la chiave una seconda volta, premette il bottone dell’accensione, lo premette e lo premette, ma la moto non si avviava e già il panico era straripato in ogni angolo, quando, miracolosamente, il veicolo si accese. Il rombo che ne scaturì lo fece quasi balzare all’indietro. Sentì Aisha aggrapparsi a lui.
«Tieniti stretta» disse e diede di gas, indietreggiando ed evitando per un millimetro la mano del soldato.
Accese i fari, due brillanti occhi gialli illuminarono la sagoma incombente. Devo andargli addosso, capì. Era l’unico modo per guadagnare tempo nella fuga. Strinse forte il manubrio.
«Tieniti!» gridò a sua sorella e, accelerando al massimo, si lanciò in avanti.
Lo prese di petto, l’uomo non fece in tempo a scostarsi; gettò un grido mozzato. Le sue mani si tesero per afferrarlo e farlo smontare, ma Ilyas si piegò e lo buttò a terra con tutta la forza che derivò dall’urto con la motocicletta. Non si fermò a constatare il suo stato, si buttò verso la porta spalancata del viale di ingresso. L’unica cosa che gli importava, in quel momento, era sentire Aisha ancora stretta a sé.
Si immise nella strada, la percorse a velocità impazzita, il vento che gli schiaffeggiava il viso. Dovunque andasse vedeva fuoco. Le finestre rosseggiavano, le pareti delle case crollavano come gusci d’uovo. Si udiva il suono lontano di grida simili a strilli d’aquila, mentre in cielo sbocciavano abbaglianti fuochi luminosi. Le schegge sibilavano tra gli alberi. Un caos di voci riverberava nella strada affollata. Che è successo, che è stato, ci ammazzano, ci ammazzano.
Fu sorpreso di vedere gente ancora viva.
Alcune mani si tesero, provarono ad aggrapparsi a lui. Volevano la motocicletta, volevano essere aiutati. Ilyas gli passò attraverso come fossero fatti d’aria. All’ombra delle case fiammeggianti la gente urlava, scappava, invocava aiuto, tremando con volti stravolti i cui lineamenti deformati dalla paura non sembravano più umani. I soldati, più scuri della notte, stavano mettendo in fila quelli che non avevano ucciso, donne e bambini, principalmente. Chi si era andato a rifugiare nelle macchine veniva tirato fuori e, se si ribellava, lanciato contro le case in fiamme. Chi cercava di scappare veniva ripreso.
Ilyas non seppe come riuscì a fuggire. La motocicletta zigzagava tra cadaveri e uomini ancora in piedi, superava finestre cieche, incendi e budella sparse al suolo. Solo alcuni provarono a fermarlo, ma riuscì a scartarli. Si accorse che gli colava sangue dal braccio destro per come il soldato gli si era avventato contro, ma non sentiva dolore. Continuava a non sentir nulla se non le parole di sua madre.
Appena riuscì a superare il confine del villaggio, buttò a terra la motocicletta e si trasformò. Aisha salì sopra di lui, stringendo nei pugni il suo pelo. Ilyas allora iniziò davvero a correre grazie alla forza data dalle zampe. Giunsero al fiume dopo aver superato quella bolgia infernale. C’era silenzio, anche Aisha stava in silenzio. Quando la fece scendere e ritornò umano, si aggrappò alle sue gambe.
«Dobbiamo tornare indietro» lo implorò. «La mamma… dobbiamo andare a prendere la mamma, non possiamo lasciarla lì.»
Ilyas la scosse per le spalle. «Aisha, ascoltami: dobbiamo guatare il fiume.»
Lei gli lanciò uno sguardo impaurito, l’oro che colava nel castano delle iridi. «Eh?»
«Reggiti a me, devi solo tenerti aggrappata a me.»
«Ma…»
«Fallo e basta.»
Dirigersi verso la foresta sarebbe stato un suicidio, era arrivato a quella conclusione vedendo la massa vegetale che frusciava all’odore di morte del vento. I soldati dovevano essere venuti da lì. Il fiume era l’unica via: avrebbe nascosto le loro tracce e, una volta sull’altra sponda, sarebbero stati salvi.
Spinse sua sorella in avanti.
«Vieni, so io dove andare.»
Trovò le reti di Malik dove di solito venivano lasciate, poco lontano dal porto, in un’ansa stretta del fiume dove i pesci si buttavano incauti. Ce n’erano già intrappolati tra le maglie di metallo. Le reti si estendevano fino all’altra sponda, il bordo affiorante sulla superficie increspata dell’acqua nera. Bagliori metallici baluginavano al riflesso della luna. Ilyas mise i piedi nell’acqua, si chinò.
«Sali su.»
Aisha si mise in groppa a lui, circondandogli il collo con le braccia sottili, percorse da lievi tremiti. L’aria era fredda e l’acqua gelida. Ilyas dovette trattenere un grugnito quando si immerse fino alla cintola; il contatto gli mozzò il respiro. Sotto forma di lupo avrebbe sentito meno gelo, ma non sapeva come sarebbe riuscito a trascinare sua sorella. La corrente era troppo forte, le secche profonde: nuotare era rischioso, meglio aggrapparsi alla rete e per farlo gli servivano le mani, non le zampe.
Rilasciò andare piano il fiato e cercò di non badare al freddo che gli scivolava lentamente in ogni giuntura, raggiungendo i polmoni e il cuore. La fabbrica galleggiante di Malik era attraccata là vicino, incrostazioni di ghiaccio ne istoriavano la parte bassa dello scafo. Si resse alle reti, si issò in modo da stare meno a contatto con l’acqua e non far bagnare Aisha, anche se così lei era più pesante.
«Stai sanguinando» la sentì pigolare.
Si guardò il braccio destro: un taglio, abbastanza superficiale, si apriva all’altezza dell’avambraccio. La stoffa pendeva sbrindellata dove la carne si era tumefatta. Il sangue si era tutto incrostato, ma ancora fluiva a singhiozzi. Immerse il braccio nell’acqua, digrignando i denti. Sua sorella lo fermò.
«Aspetta, aspetta.» Gli strappò il lembo di stoffa che pendeva dalla manica del pigiama, lo avvolse attorno alla ferita e strinse forte. «L’ho visto fare alla mamma» disse. «Per fermare il sangue.» Dopo averlo sistemato allungò le mani verso il bordo oscillante della rete, si resse con le dita, poggiandosi con tutto il corpo sulla schiena di lui, le gambe che gli circondavano la vita. «Così peso di meno.»
Era vero: se si reggeva, il peso si alleviava e Ilyas poteva procedere con meno fatica. Iniziò a muoversi, un passo dopo l’altro, infilando i piedi nelle maglie larghe della rete. Aveva la fronte imperlata di sudore, lo stesso sudore che gli si era ghiacciato in tutto il corpo. Il palpito di paura non se ne era andato, cercava di controllarlo per non andare troppo veloce col rischio di mettere un piede in fallo. Già a pochi passi dalla riva avevano superato il punto dove si toccava e, se fosse caduto, non sapeva se avrebbe avuto la forza di prendere Aisha, che non sapeva nuotare, e di salvare se stesso.
Nel fiume tutto era silenzio, tranne il fischio violento del vento che increspava la superficie e faceva ondeggiare le chiome degli alberi sulle sponde. Parevano sentinelle dai capi scarmigliati, alte e inquietanti, stagliate contro il bagliore spettrale della luna, un bagliore che ora, col fumo che si arricciava intorno all’astro e le fiamme che divampavano nel villaggio, aveva assunto la sfumatura fluorescente della decomposizione.
Non badò a quei rumori o alle crisalidi infuocate che stavano inghiottendo il paese visibili anche da lì; l’aria era tagliente e velata di rosso per il riverbero delle case in fiamme, ma se volgeva il capo verso sinistra, verso l’altra sponda, il cielo era di un blu profondo, nudo e puro, privo di colonne di fumo, di cirri sanguinanti e di urla.
Vivi.
Un passo avanti, un altro ancora. Il peso lieve di Aisha contro la schiena, il suo respiro sommesso contro la nuca.
Siete l’uno la metà dell’altro.
Le dita iniziarono a sanguinare, piagate per le spunte metalliche della rete. Il sangue era scurissimo, così scuro da confondersi con l’acqua.
Promettimi che lo farai, che farai di tutto per salvarla, per salvarvi.
Non si fermò, la riva sempre più vicina a ogni passo.
Dovete stare insieme e non voltarvi indietro. Promettimelo.
Ilyas non si voltò indietro, neanche una volta.
 
 


 
Una piccola chicca, per chi segue Wolfen. Questo è un pezzo del terzo capitolo, POV Lukas:
 
Suo nonno, defunto capo della comunità criminale urkagan, gli aveva insegnato molte cose, non in ultimo che la legge da rispettare è sempre quella della propria natura, ferina o umana che sia. C’era stata la guerra, poi, che aveva cambiato certe sue prospettive, ma non quel mantra: un’unica lealtà, la propria, quella verso se stessi, che veniva prima dei comandi militari, prima della Federazione o di qualunque altra cosa. Quando sei di fronte alla morte, nel bel mezzo del nulla del Nord, gli unici ordini a cui puoi obbedire sono quelli dell’autoconservazione. Così si sopravvive in un mondo in cui morire è fin troppo facile. Così lui era sopravvissuto.
Senza voltarsi indietro.





ps: Condivido la copertina che la gentilissima e bravissima Unnamed ha realizzato per questa storia. La trovate su Wattpad <3 

Vivi-cover-miriana

   
 
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