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Autore: KaienPhantomhive    10/07/2021    0 recensioni
[Aggiornamenti Settimanali | -1 Capitolo alla fine | Seguito de: "EXARION - Parte I"]
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La battaglia di Varsavia ha mostrato al mondo la forza del Quarto Reich Lunare. Ma la sete di potere non conosce limiti, da parte di nessuno. Nuove Divinità Metalliche attendono di essere risvegliate, e nuovi Contratti aspettano le loro anime come pegno. Fino a che punto può spingersi il desiderio di distruzione reciproca degli uomini? Ha senso ostinarsi a concludere una guerra, se è destinata a ripetersi per sempre?
Genere: Azione, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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16.

American Beauty

 

16 Luglio.

Deserto di Wādī ʻAraba; Giordania; Nazioni Arabiche Unite.

 

Un proiettile di calibro 120mm trapassò l’aria della notte, andando a schiantarsi contro una duna. Poi un altro. E un altro.

Due, quattro, sei carri armati mimetici spararono, ondeggiando per il rinculo. Ovunque fiamme, ordini strillati a perdere il fiato a un piccolo esercito di uomini che correva spasmodico, incespicando nel terreno molle e farinoso. E poi i fuochi incrociati dei mitragliatori che, tra una duna esplosa e l’altra, falciavano chiunque incorresse nel loro raggio d’azione. Una decina di uomini in uniformi tattiche color sabbia si erano trincerati dietro una muraglia di blocchi di cemento, sparando a volontà e scagliando bombe a mano sotto comandi urlati in Arabo. Le parole si accavallavano e si confondevano, sovrastate dal crepitio di rottami in fiamme e proiettili volanti, ma il loro significato era chiaro: uccidere l’invasore e proteggere il segreto. Un enorme, ciclopico, segreto. Una massa informe e inerte, all’interno di una voragine accerchiata da grandi macchine scavatrici. Era perlopiù nascosta da teli, ma quel poco che restava scoperto rivelava cavi e lamine di metallo verde. Era immensa, molto più grande di qualsiasi altra cosa prima vista; qualcosa che un tempo doveva essere stata meccanica, ma che ora era quasi irriconoscibile anche solo nella sua funzione.

Dall’altra parte del terreno di guerra, le forze militari d’Austramerica continuavano a far fuoco con gli esoscheletri di fanteria, tank camminatori e lanciarazzi. Dietro la formazione di uomini e veicoli si ergeva un enorme cingolato corazzato, tanto alto che sarebbe potuto passare per un edificio: un Dollhouse di classe Land Rider. All’interno del container verticale attendeva seduto un gigante dall’armatura a strisce nere e giallo ocra, sommerso da spessi tubi innestati nelle gambe, nelle braccia e nel torace.

Sulla corazza, tappezzata di segnali d’avvertenza semi-scrostati e dei loghi della NATO, una scritta si ripeteva più volte: ‘ASM - Mark. Proto’. Un prototipo militare.

 

*   *   *

 

“Il nemico sta ripiegando verso la linea difensiva.”

“Il numero di carri superstiti è sceso a quattro.”

“Integrità del modello sperimentale non compromessa.”

“Nessun movimento dall’obiettivo della missione.”

Tre voci maschili e una di donna risuonarono all’interno dell’abitacolo di guida, riempendo l’attesa. L’oscurità era appena rischiarata dal chiarore degli schermi ricurvi che rivestivano la cabina, sui quali stringhe di codici informatici scorrevano e frinivano di continuo, come cicale.

Una figura femminile era semi-seduta sul lungo sedile, in una tenuta di gomma aderente e imbottita, dalle tinte nere e gialle, cosparsa di sensori. Respirava ritmicamente. Del suo viso era rimasta solo una bocca dalla pelle scura, sotto un pesante casco dal visore arancione connesso allo schienale da spessi cavi fosforescenti.

Esplosioni rimbombarono lontane, ovattate, facendo vibrare le pareti.

“Amber, riesci a sentirmi?” – chiese una nuova voce femminile. Era decisa, corposa, bella.

“Forte e chiaro, sorella.” – rispose la ragazza nell’ombra; sembrava essersi ripresa dal torpore.

“Quando siamo in campo io sono solo il Capitano McCoy.” – la redarguì la voce fuori campo – “Dovresti attenerti al codice.”

“Che formalità inutili. Mi hai distratta solo per questo?”

“Il nemico ha superato la linea d’intervento. Da adesso entri in campo tu.”

“Finalmente, era ora!” – inarcò il dorso e si stirò le scapole come un felino; la tuta produsse un suono gommoso – “Non riesco più a stare in questa posizione, dovete assolutamente micronizzare alcuni circuiti della synchro skin!”

“Anche la tuta è solo un prototipo e non è disponibile un backup del kernel di bordo. Mi rendo conto che per essere la tua prima uscita in campo le condizioni non siano le migliori, ma non ci resta altro tempo.”

“Non importa, cominciamo!”

 

*   *   *

 

Due sirene rosse ai lati del Dollhouse entrarono in funzione, allertando le truppe a terra.

“Ordine di attivazione, allontanarsi!”

“Preparazione del carico! Iniziare il riscaldamento dell’acceleratore post-nucleotonico!”

Un cilindro in vetro e metallo lungo sei metri e mezzo – posto su un blindato di supporto – venne collegato ai due tubi principali della gabbia toracica. Archi elettrici azzurri balenarono al suo interno, segnandone l’accensione.

“Reazione nucleare stabile. La temperatura di scissione sarà raggiunta in otto-punto-trentasei secondi.”

“Procedere al bail-in della Synchro Chamber!”

La mandorla di titanio che formava l’abitacolo di guida venne calata all’interno del corpo del robot, innestandosi tra due motori simili a polmoni.

Bail-in completato! Connessione abilitata!”

Due archi di plasma si scontrarono nella camera d’accelerazione, producendo un bagliore accecante.

“Realizzato contatto a post-nucleotoni! Avviare Elettroconduzione Doppio-alternata!”

Dal reattore nucleare dipartirono fremiti di elettricità e plasma che risalirono i cavi conduttori, facendoli vibrare, finché non raggiunsero la coppia di alternatori toracici. Tutto il corpo del gigante giallo subì un intenso fremito. I cavi si scollegarono con una piccola detonazione e le piastre di armatura si richiusero sul petto.

 

*   *   *

 

Interno.

 

“Sistema operativo: inizializzazione. Avvio delle funzioni disponibili.”

“Connessione delle aree corticali M1 e M2; percentuale di asincronia non significativa.”

“Pilota, inserire i codici complementari di sblocco.”

Amber digitò rapidamente due sequenze alfanumeriche sulle tastiere laterali, quindi infilò le mani nelle cavità all’altezza dei fianchi e afferrò le leve nascoste. Le ruotò in verticale e poi le trasse verso di sé. Le pareti-schermo si liberarono dalle stringhe di dati di programmazione e rivelarono la visione esterna: il deserto immerso in una notte stellata e incendiata di guerra. La ragazza agitò un paio di volte i comandi manuali, avvertendo tutta la struttura scricchiolare sotto i primi cenni di vita del robot: “Eccolo, si muove! Che figata pazzesca!”

Stava succedendo davvero: quell’immane arma dall’aspetto umanoide su cui era salita stava rispondendo ai suoi ordini mentali. Avrebbe combattuto sul serio, non aspettava altro! Sentiva il cuore batterle per l’emozione e il suo orgoglio le gridava di essere fiera. Ma non aveva ancora compiuto la missione, non era ancora il momento di lasciarsi distrarre.

Concentrò i suoi pensieri verso il panorama che il casco riproduceva sul visore: “Qui soldato speciale Amber McCoy, pronta al collaudo decisivo sul campo! Unità Prototipo Sperimentale, Prima sWARd Machine Artificiale: attivazione!”

Sul suo visore si illuminarono le lettere: ONLINE.

 

*   *   *

 

La testa del gigante si addrizzò. Sulla piccola maschera facciale si accese un’unica lente ottica rossa, spandendo la sua luce come un taglio orizzontale. Una ventola di scarico termico iniziò a girare nell’ampio disco posto in cima all’elmo. Le dita robotiche delle mani si dischiusero di colpo, afferrando il bordo del Dollhouse e il torso dell’automa si curvò in avanti. Lentamente, si erse in tutti i suoi quarantacinque metri di altezza, gemendo di innumerevoli cigolii di piastre sovrapposte e giunture meccaniche. Affondò nella sabbia i piedi dalle coperture squadrate.

Aveva funzionato.

Quel colosso dall’aspetto coriaceo ed insieme precario si reggeva sulle sue gambe. La prima sWARd Machine totalmente artificiale era operativa.

 

Lontani, come formiche sparpagliati, i soldati nemici gridavano terrorizzati alla vista della nuova comparsa. Correvano senza una meta precisa, chi tentando di nascondersi dietro una duna, chi sparando a vista verso i propri nemici e chi perfino dandosi alla fuga.

Sono talmente minuscoli, da qui. Insignificanti. – pensò Amber. A lei non importava di quelle persone; non le importava se sarebbero morte per mano sua. Perché avrebbe dovuto? In fin dei conti, avevano imbracciato le armi di loro sponte, no?

“Soldato.” – disse di nuovo la voce di sua sorella – “L’obiettivo è ancora fuori dalla nostra portata. Estingui il nemico e recupera l’O-part.”

O-part: oggetto sconosciuto databile come molto antico; realizzato con tecnologie vastamente aldilà di quelle disponibili all’epoca di riferimento. Amber non aveva idea di quale fosse la forma dell’oggetto che si celava sotto la montagna di teli militari ma la sola idea che il Governo Austramericano l’avesse classificato in quel modo la eccitava oltremisura.

“Ricorda che il carico di post-nucleotoni è al minimo. Non potrai agire oltre il tempo di autonomia operativa del Prototipo.”

“Sta’ tranquilla.” – le dita strinsero le cloche – “Finirà tutto in trentotto secondi!”

E premette il tasto d’avvio.

Il Prototipo si piegò sulle gambe e i repulsori all’altezza dei talloni iniziarono a crepitare; gli ultimi cavi elettrici ancora collegati vennero espulsi e la Machine spiccò uno slancio in avanti, sollevando un’onda di sabbia. Un ufficiale delle Nazioni Arabiche Unite ordinò alle sue truppe di rispondere all’offensiva: dalle sabbie emersero rapidi come trappole tre grandi mitragliatrici automatiche anti-carro. La Machine corse a grandi falcate sulle dune in cui affondava a ogni passo, lasciando che le scie dei missili la mancassero per un soffio, esplodendo al suolo. Uno riuscì perfino a colpirla sulla spalla sinistra, ma non fu sufficiente a strapparla. Il visore di Amber localizzò due gatling MW40S su misura posizionati sul campo dal suo squadrone. Uno era ancora chiuso nel fodero.

Il Prototipo si lanciò sulla sabbia con una rovinosa capriola sulla spalla sinistra, afferrò l’arma e con un piede premette l’enorme leva sul bordo del fodero. La copertura saltò via in sei piastre snodate, espellendo l’altro mitragliatore. Lo afferrò e li sollevò entrambi.

Amber controllò per un istante i monitor: venticinque secondi di autonomia. Danni al braccio.

“Al diavolo!” – premette il grilletto.

Le quattro canne dei mitragliatori iniziarono a roteare veloci; i fuochi giallastri della polvere da sparo lampeggiavano nella notte.

I proiettili tempestavano il deserto, sollevando nuvole di polvere.

Grida umane riecheggiavano nell’aria invasa da corpi martoriati scagliati lontano e lamiere accartocciate di carri armati. Le cinture di proiettili scorrevano attraverso il tamburo dei gatling, entrando piene di bossoli ed uscendo svuotate. Quando l’ultima munizione fu sparata le canne smisero di girare.

Oltre le decine di cadaveri piantati nella sabbia come sterpaglia, due grandi stealth mimetici si alzarono in volo dall’area degli scavi, iniziando a sollevare la massa informe che tanto avevano provato a difendere, agganciata con tiranti di ferro che sembravano sul ciglio di spezzarsi.

Diciassette secondi.

“Tornate qui!” – gridò la ragazza, protendendosi in avanti con tutto il torso.

Il Prototipo si rimise in piedi e si rimise a correre per poco più di un centinaio di metri, prima che un suono di giunture incrinate e uno spruzzo di olio nero lo costringessero a incespicare e cadere su una mano. La scossa fece sobbalzare Amber nell’abitacolo e le spezzò il fiato. Gli allarmi d’emergenza la assordavano.

“La pressione del liquido stabilizzante ha raggiunto il limite…” – ansimava – “…e le articolazioni non reggeranno ancora a lungo! Questo catorcio non si muove!”

“Amber, stanno fuggendo!” – questa volta la voce di sua sorella vibrò di panico.

La ragazza guardò gli aerei già alti nel cielo: erano due e non avrebbe mai potuto raggiungerli con le gambe ridotte in quel modo. Non le rimanevano altre munizioni e la spalla sinistra era quasi del tutto andata, ma aveva ancora una mina incendiaria. L’occhio le cadde sul timer nell’angolo del visore.

“Sei secondi!”

Fece rialzare il Prototipo e mosse due lunghi passi sulle gambe incerte, quindi si afferrò la scapola danneggiata e vi piantò gli artigli. Tirò con forza fin quando il ferro, i cavi e le giunture meccaniche non si strapparono del tutto dal busto con un pandemonio di scintille. Il feedback inflisse un dolore insopportabile alla pilota ma il suo lamento di sofferenza si trasformò in un ringhio: “Andate a fare in culo!”

La Machine lanciò con tutta la forza rimasta il braccio strappato.

Un arco di liquido meccanico nero attraversò il cielo notturno, macchiando la visione della luna come una pennellata sbagliata. Il volò fino a schiantarsi di peso su uno dei due aerei. Il palmo destro del Prototipo si aprì nel centro, scoprendo una grossa bomba sferica. Amber gridò ancora e la scagliò come una palla da baseball contro il secondo areo, annientandolo.

L’immenso fagotto denominato ‘O-part’ ricadde fragorosamente tra le dune del deserto, ora quiete.

Zero secondi.

Le gambe, le spalle e la base del collo del gigante scricchiolarono sotto gli ultimi gemiti e nuvole di fumo sbuffarono dalle articolazioni. Cadde sulle ginocchia, scoordinato, con la testa rovesciata all’indietro come un pupazzo rotto. Carburante scuro iniziò a colare stancamente tra le piastre di armatura. La copertura pettorale si sollevò, espellendo la Synchro Chamber. Quando anche il portellone a tenuta stagna dell’abitacolo si fu aperto, la sua pilota si aggrappò ai bordi e salì in piedi sulla capsula. Si sfilò a fatica il pesante elmetto, gettandolo da parte. Riprese fiato. I capelli rossi raccolti nella coda danzavano nel vento caldo della notte desertica, riscaldata dagli ultimi fuochi della battaglia e illuminata da un manto di stelle verso il quale si levavano faville crepitanti.

Aveva l’aria stremata ma non smetteva di sorridere, con quei suoi occhi felini a fissare l’enorme pira bruciante che tingeva d’arancio l’orizzonte. Quel fuoco era il parto di una battaglia consumata con le sue mani, ma anche lei era figlia della guerra e in questo si sentiva a suo agio. Quella puzza di zolfo, olio bruciato e fiamme…lo trovava quasi materno. Lei aveva vinto, il suo nemico no. Lei era forte. Lei era viva, era felice.

Una voce piatta parlò alla trasmittente: “Missione terminata. Recuperare il bersaglio e prepararsi al rientro.”

 

 

   
 
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