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Autore: Robin Nightingale    10/07/2021    0 recensioni
"Quando ero cavaliere ho sempre desiderato essere normale, ma ora che lo sono mi sembra di vivere in una sorta di limbo, in bilico tra passato e presente, incapace di lasciare andare e abituarmi alla mia nuova vita. Ma come posso riuscirci? Non posso. La verità è che non ci si può abituare, non dopo tutto quello che ho perso."
Dopo la guerra contro Ade, Atena ha concesso ai suoi cavalieri di poter vivere come dei normali ragazzi. I cinque bronze sembrano aver accettato gradualmente la loro nuova condizione, tranne uno. Hyoga non riesce ancora a superare il lutto del suo amato maestro e ad andare avanti, rifugiandosi sempre più in se stesso. Breve storia sulla vita e i pensieri di Hyoga dopo la battaglia contro Ade.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cygnus Hyoga
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Alba


Sono passati quasi due anni dalla guerra sacra contro Ade, da quando abbiamo appeso le armature al chiodo e abbiamo cominciato le nostre vite come ragazzi normali. Dapprima ci siamo ritrovati tutti sotto lo stesso tetto, a Villa Kido, fino a quando Seiya non si è svegliato dal coma. Io, Shun, Shiryu, la signorina Saori, persino Ikki e Tatsumi. Quando Seiya è tornato tra noi abbiamo vissuto insieme per circa tre mesi. Era bello trovarsi tutti insieme, mangiare insieme, uscire insieme, litigare per mezz’ora per decidere quale film vedere in televisione e andare a letto tardi. Eravamo una famiglia. Poi, un giorno, Ikki è scomparso senza lasciare traccia, come al solito, e da lì le cose cominciarono a sgretolarsi. Piano piano ognuno intraprese la sua strada, persino Atena aveva deciso di andar via, di tornare in Grecia per ricostruire il Santuario. Nessuno di noi ha mai capito il perché, dato che non vi era più alcun dio da combattere. Naturalmente Tatsumi la seguì; vederlo chiudersi alle spalle il cancello di Villa Kido, forse per sempre, lasciò dentro di noi uno strano vuoto. Incredibile ma vero, abbiamo sentito la sua mancanza. Dopo qualche giorno anche Seiya decise di andar via. In fondo lui una casa l’ha sempre avuta, e questa volta c’era la sua amata sorella ad aspettarlo. Poi venne il turno di Shiryu. Sia io che Shun ci siamo sempre chiesti perché ci aveva messo così tanto ad andare via, come se non sapesse che Shunrei lo stesse aspettando. Da quel che so, lei è incinta adesso.
Infine arrivò il mio di turno. Mi dispiaceva lasciare Shun da solo, ma le mura di quella villa cominciavano a starmi strette, avevo bisogno di allontanarmi da quel posto, da qualsiasi cosa avesse a che fare con il mio passato. Inizialmente pensai di ritornare in Siberia, ma mi sarei sentito peggio, proprio ciò di cui non avevo bisogno. Così ho affittato un appartamento appena fuori Tokyo, un bilocale fatiscente che solo un poveraccio come me poteva farsi andare bene. La porta di servizio è difettosa, l’acqua manca un giorno sì e l’altro pure; quando sono arrivato c’era un buco sulla parete della cucina, che il padrone di casa ha provveduto subito a riparare, e camera mia è talmente piccola che a stento ci entrano il letto e l’armadio. Tutto il condominio è in condizioni pietose ad essere onesti: l’ascensore è guasto da più di un anno, le mattonelle del pianerottolo sono quasi tutte rotte, e credo che, al secondo piano, il cane dell’inquilina che abita nell’appartamento sotto al mio, abbia fatto pipì sul muro. Sono passati dei giorni e la macchia è ancora lì, così come l’odore, ma sembra che a nessuno importi.
È l’alba e sono appena tornato da lavoro. Faccio il barista in una discoteca, adesso. Non proprio la fine che mi aspettavo, ma in mancanza d’altro… chissà perché ero convito che la mia vita di prima sarebbe durata per sempre. È quel genere di cose a cui non dai molto peso, soprattutto quando hai quattordici anni, soprattutto quando ti dicono che sei nato per servire la giustizia, che sei un predestinato, e non c’è niente che tu possa fare per cambiarlo. Pensi che le cose non possano andare in maniera diversa da come sono già state scritte, ma ti sbagli. Su molte cose mi sbagliavo. Credo che nessuno di noi si sarebbe mai aspettato che un giorno, di punto in bianco, la nostra vita sarebbe stata la stessa di molti altri nostri coetanei. Abbiamo impiegato un po’ prima di abituarci, gli altri sicuramente hanno fatto prima di me, specialmente Shun. Piano piano li ho visti far pace con la loro nuova condizione, godersi la vita, come è giusto che sia. A un certo punto ho avuto come l’impressione che si fossero buttati il passato alle spalle, e li ho invidiati per questo. Io non ci sono ancora riuscito.
Quando ero cavaliere ho sempre desiderato essere normale, ma ora che lo sono mi sembra di vivere in una sorta di limbo, in bilico tra passato e presente, incapace di lasciare andare e abituarmi alla mia nuova vita. Ma come posso riuscirci? Non posso. La verità è che non ci si può abituare, non dopo tutto quello che ho perso.
Barcollo, sono di nuovo ubriaco, ormai sta diventando un’abitudine tornare a casa in questo stato. Prendo le chiavi dell’appartamento, le giro nella toppa, devo fare un po’ di forza per via della serratura difettosa, e per di più, nello stato in cui sono, a malapena capisco dove mi trovo e cosa sto facendo. Con una spallata riesco ad aprire ed entro in casa senza accendere la luce. Mi gira le testa e a tentoni mi dirigo verso il bagno, so che tutto questo passerà non appena avrò vomitato anche l’anima nel gabinetto. Una bella dormita e tutto tornerà normale, mi dico ogni volta. La smetterò di vedere i miei fantasmi, ma non è così. Vomito quell’intruglio di gin e vodka che mi sono preparato e mi accascio sul pavimento con le spalle al muro. Guardo il soffitto, la luce va ad intermittenza da almeno una settimana, ma non mi sono ancora deciso a cambiarla. Chiudo gli occhi e faccio dei respiri profondi, in attesa che il battito ritorni regolare, ma non appena lo faccio, ecco che gli occhi blu di Camus ricompaiono nella mia testa. Lo so che mi stai guardando, lo so che vorresti vedermi andare avanti, ma non posso. Spiegami come fare, io non riesco. Non ho più la forza. E smettila di tormentarmi! Lo caccio via dai miei pensieri scuotendo la testa, poi mi alzo e mi giro verso lo specchio. È lì di fronte a me, mi sta fissando. Sorride.
Ho cominciato ad avere visioni di questo genere a Villa Kido, ma non ne ho mai fatto parola con nessuno. Cosa avrei dovuto dire? Mi sciacquo il viso velocemente per non sprecare troppa acqua, guardo di nuovo lo specchio e lui è ancora là.
Perché sorridi? Dovresti guardarmi con disprezzo, dovresti disapprovare tutto ciò, no? Non risponde. Non lo fa mai, perché mi ostino a fargli sempre le stesse domande?
Barcollando esco dal bagno e mi dirigo in cucina, verso il divano, per questa sera dormirò lì, anche perché non ho la forza di trascinarmi fino in camera da letto. Mi ci lascio cadere pesantemente e spero di addormentarmi al più presto. Quando dormo è l’unico momento della giornata in cui mi sento tranquillo.
C’è silenzio e l’unica cosa che lo spezza è il ticchettio delle lancette dell’orologio. Provo a chiudere gli occhi ma la sbornia non è ancora passata, devo vomitare ancora. Mi alzo ed è lì che la vedo, mia madre, accanto ai fornelli. È di spalle e canticchia un motivetto, lo stesso che mi cantava da piccolo per farmi addormentare. È una famosa ballata russa di cui non ricordo il nome. Nell’aria c’è odore di biscotti. Cioccolato e cannella, i miei preferiti. Te lo ricordi ancora? Dal sorriso che mi fa deduco di sì. Anche lei non parla come Camus, ma non importa, vederla mi dà sollievo, anche se è solo frutto della mia immaginazione. Inizialmente pensavo fosse colpa dell’alcol, poi mi sono reso conto di vederli anche da sobrio.
Anche quando ero piccolo mi preparavi i biscotti a colazione, te lo ricordi, mamma? Sorride ancora, non so perché quel gesto mi rende  così felice. Nelle ultime settimane mi sono chiesto sempre più spesso come sarebbe stata la mia vita se mamma non fosse morta, sarei diventato comunque un cavaliere? Forse no. Come sarebbe la mia vita se Camus fosse ancora qui con me? Forse saremmo entrambi in Siberia. O forse saremmo tutti e tre insieme come una vera famiglia.
Mamma, ti piacerebbe se venisse a vivere con noi? Io, te e Camus? A quella domanda ride contenta, il suo sorriso è proprio come me lo ricordavo, caldo, accogliente e genuino. Camus mi si siede accanto, anche a lui non sembra dispiacergli l’idea. Se non mi sentissi così male potrei anche gioire di questo magnifico quadretto famigliare, ovvero ciò che desidero di più al mondo, riavere la mia famiglia indietro. Due lacrime rigano il mio volto, se solo ci fosse un modo… un modo per riportarvi indietro da me.

- Non avere paura – dice d’improvviso mia madre, indicando con gli occhi il centrotavola. È la prima volta che la sento parlare. Alzo gli occhi stupito, prima su di lei e poi sul centrotavola. All’interno vi sono delle pesche, le ho comprate ieri al supermercato. Perché l’ho fatto? Io sono allergico alle pesche, un solo morso mi causerebbe uno shock anafilattico. E smettetela di ridere, voi due! Non siete divertenti! No, sono io che devo smetterla. Devo smetterla di parlare da solo, con voi, devo smetterla di vedervi in giro per casa.
La testa mi gira forte, sento il vomito risalire, non farò mai in tempo ad arrivare in bagno. Mi alzo ma le vertigini mi costringono a rimettermi seduto. Porto entrambe le mani sulla testa, come se questo potesse servire a farla smettere di girare. Un attimo dopo mi ritrovo sul pavimento a vomitare. Stavolta butto fuori tutto e stravolto mi accascio nuovamente sul divano, finalmente da solo.
  
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