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Autore: marinrin    12/07/2021    1 recensioni
[ Genshin Impact | Giallo&Esoterismo | Kaeluc/Luckae (niente esplicito - scelta del lettore) & minor JeanLisa | menzione del bloodbrother oath| Ispirata da Kara No Kyoukai con forti riferimenti a religione ed occulto ]

C'è un ufficio in periferia che non può essere trovato a meno che non lo si cerchi con intensità.
Là, dove l'antica statua dell'arcangelo Michele punta il dito, sorge protetta da una arcaica porta in noce, la misteriosa agenzia investigativa di Lisa Minci.

Mistero, occulto, antiche religioni: una spirale asettica che guida verso lo spettro dell'inspiegabile.
Tre rintocchi echeggiano attraverso le mura scandendo mostruosamente il tempo ed il ritmo ciclico dell'avvenire.
Nel vuoto, lo sbattere delle ali cremisi di una farfalla rompe l'equilibrio, spinta dal desiderio di raggiungere il gufo reale che mira alle stelle; una vista dall'alto.
E tu, stai volando o solo fluttuando?

1998: In un mondo in cui l'Origine del vuoto è compromessa, una sequenza di omicidi scuote l'opinione pubblica.
Genere: Dark, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Diluc Ragnvindr, Hu Tao, Jean Gunnhildr, Kaeya Alberich, Lisa Minci
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Note lunghe: I personaggi non mi appartengono, il copyright è riservato alla Mihoyo.
L'autrice si scusa per eventuali errori.

❧ Non c'è un tag 'incest' perchè personalmente considero i due con il concetto originario della versione cinese (la Mihoyo è cinese).
Sworn brothers (o Sworn Sisters) infatti, per farla semplice, indica un forte giuramento di "fiducia e fedeltà" fino alla morte tra due persone - ma ad essere sinceri va anche oltre.
Nella cultura cinese è estremamente delicato e ricco di profondità.
Anticamente era spesso utilizzato - e tutt'ora all'interno di molte novel cinesi - per censurare una relazione (di solito omosessuale); penso tutti sappiano del
 grave problema di 'censura' a riguardo in Cina.
Inoltre il concetto è più che presente anche nella cultura europea: avevamo giuramenti simili tra cavalieri, clan ecc... L'esempio più importante è quello del giuramento dei Bloodbrothers (per l'amor del cielo, la storia ragà).
Tenevo a dare una spiegazione per 2 ragioni:
- 1) La cultura ed il sapere sono cose stupende e reputo sia bene conoscere certe chicche.
- 2) Voglio evitare fraintendimenti con chi magari segue la 'versione' (erronea) in inglese ed ha accettato la scelta censurata degli ex fratelli ''''adottivi''''  (giusto per dire, non è incest nemmeno per la nostra cultura... Ma beh, immagino sia qualcosa relativo a quella Americana. Ad ognuno il suo insomma) - ho i flashback di guerra con Sailor Uranus e Sailor Neptune censurate come cugine, CHE BRIVIDI.
Tutta la questione del giuramento poi intriga davvero tantissimo... Sigh.


Note Importanti
La storia segue il filo narrativo di Kara No Kyoukai facendo riferimenti al Nasuverse: nella fiction sono menzionati temi sensibili come le morti misteriose, il suicidio ed introspezione.
In futuro potrei avere intenzione di creare una mini serie a sè stante con questo setting: per ora mi auguro sia per voi una piacevole lettura.
I capitoli sono divisi con al massimo 2500/3000 parole ognuno; al momento ne conto 4: essendo già conclusa - scritturisticamente parlando - provvederò ad aggiornamenti ogni settima/ settimana e mezza.
Sono presenti forti riferimenti all'esoterismo (con tanto di storicità riguardo a miti e leggende prese da territori italiani, come i riferimenti a Torino, al Noce di Benevento...) ma anche alle religioni Wicca, all'Alchimia, con tanto di Cristianesimo, Scintoismo ed accenni a culture asiatiche e non.


Grazie per iniziare quest'avventura insieme a me! 

Come al solito, ogni commento/recensione è super prezioso e stra gradito!
Ti auguro buona lettura, mio indomabile lettore! 
( ✧≖ ͜ʖ≖)
 
Omen
presagio


 



Settembre 1994
                                               «Vai.»
                                                Un comando silenzioso; la dolcezza delle parole d’un padre nel carezzare il volto del proprio figlio.

 
La luce della luna illuminava il sentiero di ciottoli blandamente. Il riflesso mogio attraverso i vetri rotti, sparpagliati lungo il ciglio, fungeva da unica lucerna.
Diluc tossì, tentando di mantenere il ritmo di quella fuga folle attraverso l’oscurità della foresta.
Le gambe reggevano a stento, i polmoni inalavano quanta più aria possibile; finì con l’inciampare in uno dei rami più esposti, rantolando a terra goffamente.
Il volto toccò il terriccio umido sporcandosi di conseguenza, l’erba a stento era riuscita ad attenuare il duro colpo. Gli occhi gonfi di pianto non davano lui tregua nel vedere sfocatamente.
In suo soccorso, giunse la pioggia: lacrime del firmamento di fronte allo sfregio della vita.
Le mani di Diluc tremavano appena, impregnate del sangue del suo stesso genitore, stringendo al petto l’oggetto che con le sue catene aveva strappato Crepus Ragnavindr all'esistenza.
Tentò di rimettersi in piedi, trascinandosi con  le forze rimaste alla ricerca d’un punto d’appiglio.
Di fronte alla vista ormai smarrita nella miserabile ricerca di qualche segno di vita, viottoli di cadaveri sostavano linearmente.
Diluc alzò lo sguardo e fu lì che lo vide.
Un attimo. Tanto bastò perché il suo intero mondo crollasse e rinascesse allo stesso tempo.
Lunghe ciocche d’argento a librare sorrette dal flebile vento intriso d’umido. Ritto in piedi, bagnato nel rosso, il volto d’ambra lui così familiare sostava a guardare il cielo perso.
Neve sporcata dal carmino del sangue a grondare attraverso gli indumenti, colando piano lungo il braccio, sino a sfinare verso una lunga spada tenuta tra le mani.
La figura si rifletté negli occhi cremisi e Diluc perse il respiro.
Avrebbe voluto gridare, urlare al mondo la sua rabbia verso quel destino ignavo ed impietoso, maledire quel viso un tempo amato con le più struggevoli parole: eppure, tacque.
Le iridi del ragazzo si volsero verso lui ed il tempo parve fermarsi. Erano completamente dorate, cui stelle al posto delle pupille splendevano d’un bagliore irreale.
Attraverso quell’oro si specchiò: vide il vuoto e ne divenne parte.



 




 
 
7 Agosto 1998

                                   Quel mattino si sveglió più prontamente dell’usuale; flebili raggi a incontrare la palpebra stanca, segno avesse dormito meno del solito.
Rimase in ossequio del soffitto per qualche attimo, perso nel riordinare forse pensieri, completamente immobile sul materasso.
A riportarlo alla realtà non bastarono i cinguettii altisonanti delle rondini al di fuori dei finestroni: fu invece il fastidioso trillo proveniente dal telefono malamente poggiato sul pavimento a destarlo in proprio; già mezz’ora, notò, squadrando la sveglia riposta sul comodino.
Non riuscì comunque l’evitarsi un’espressione di tedio, accompagnata da mugugni stufi, quando la voce squillante di Amber, in segreteria, lo costrinse a prendere atto della propria esistenza in quel mondo, ammonendosi silenziosamente di distruggere quell'infernale oggetto mentre poggiava i piedi nudi sul parquet.
Un brivido freddo l’investì ma non vi badò molto, approfittando della lucidità scaturitane per dare una leggera occhiata intorno l’ambiente circostante, quasi a temere d’estraniarsi. Il mettersi a sedere creò un rumore di molle al di sotto del materasso che echeggiò per tempo attraverso le pareti.
L’abitacolo non era pieno di mobilia quanto invece di strani oggetti dalla sfarzosa fattura sulle mensole ed il necessario perché sembrasse perlomeno abitabile: libri a terra, coprivano, in ogni caso, parte integrante della superficie.
Lo sguardo ricadde infine sul lavandino (era il genere di casa con quasi tutto in solo due stanze) e fu lì si accorse continuasse a gocciolare.
Quel tic-tac non l’aveva abbandonato durante la notte – fastidioso, cantilenante, insopportabile.
Eppure non aveva fatto nulla per liberarsene – odiava anche la sola idea qualcun’altro potesse entrare liberamente nell’appartamento.
Grattò la schiena nuda, non indossava che boxer, alzandosi finalmente in direzione dell’armadio.
Le spalle vennero presto coperte da una camicia d’un azzurro chiaro, cui maniche a sbuffo ricordavano canoni tipici rinascimentali.
Una specie di cinghia che fungeva da chocker, munita di un’insigne metallica, venne sistemata con cura poco dopo.
I pantaloni scuri sino alla vita recavano una semplice cintura cui era minuziosamente attaccata una catenina culminante con una piuma di pavone e gli stivali in pelle, poco più bassi del ginocchio, in combo con i guanti dello stesso materiale - ma senza dita ad eccezione del pollice - completavano quel bizzarro look.
L’orecchino che portava al lobo sinistro, cui incastonata era una gemma cerulea in pendant con la collana lunga che portava al collo, gongolò di qualche centimetro mentre l’uomo dalla pelle olivastra si voltava verso lo specchio, sistemando i capelli cobalto come potesse.
Toccò la benda scura all’occhio destro quasi melanconico (non la toglieva mai, nemmeno nel dormire ultimamente), osservando meticoloso il suo riflesso prima d’allontanarsi verso il piccolo frigorifero.
Stappò piano una delle tante bottiglie lì conservate come una sorta di messa a deposito, bevendo un sorso d'acqua fresca poggiato contro il muro.
«Kaeya, sono Jean» continuò il successivo messaggio in ripetizione sul telefono «So che sei in licenza, non si tratta di lavoro, volevo solo chiederti se sapessi come stesse Diluc-»
La bibita finì presto sul lavello; un sospiro mogio a lasciare le labbra di Kaeya. Flesse il bacino, raggiungendo rapido quella ‘scatola’ a pochi metri dalla sua postazione, cliccando così, annoiato, il tastino per fermare il continuo del nastro; lasciò l’appartamento poco dopo.

Scendendo le scale e mettendosi in marcia per la via principale, notò ci fosse più gente del solito.
Frotte di colori accesi e disparati vagavano tra i cigli verso il passaggio pedonale; la moda era sempre così sfarzosa di recente: non poté resistere al domandarsi se fosse stato il caso di comprare una nuova camicia – magari anche con motivi stile pavone, già che c’era.
Stringeva nella mano destra un mp3; da poco si erano diffusi – si trattava di un macchinario strano con tanto di forma buffa scatolare cui capacità era quello di riprodurre suoni registrati  con un’unica cassetta.
Kaeya lo rigirava tra le mani come fosse un giocattolo, lasciando la testa vagheggiare tra le insegne colorate dei negozi.
Si fermò davanti alla vetrina di un rivenditore d’elettronica. Televisori erano esposti in una sorta di piramide dal più piccolo al più grande, impilati come scatolette di tonno del supermercato.
Fece per indossare finalmente gli auricolari, sinché lo sguardo non cadde sull’interruzione della soap opera d’amore, in favore di un servizio urgente.
Lo zoom passò su un uomo sulla quarantina, un giornalista del Tg.
«Oggi, verso le 2 e trenta di pomeriggio, una studentessa del terzo anno di uno dei licei cittadini è caduta dal tetto dell’edificio 5 del complesso Wangshen. Dopo essere precipitata, è stato accertato dal personale medico sia morta sul colpo: è la quarta ragazza a scegliere come luogo il vecchio collegio a distanza di mesi.»
Scoccò la lingua contro il palato; un sopracciglio ad alzarsi.
«Come nei precedenti casi non è stato trovato un messaggio d’addio. La polizia sta indagando attraverso la testimonianza di parenti ed amici alla ricerca di qualche segno di disagio familiare o scolastico...»
Scrollando le spalle, non attese di sentire risvolto, allontanandosi piano e riprendendo la sua passeggiata come nulla fosse, imperturbato.
Man mano procedeva, superata la piazza principale segnata dalla Chiesa di Maria Santissima del Rosario – avanguardia artistica della sua stessa città e principale attrazione – la coltre di grigiore fatta da mezzi ed immobili venne a diramarsi, aprendosi invece a quartieri meno affollati.
Via vai di gente affrettata al lavoro con tanto di disattenzione; evitò qualche spallata involontaria, limitandosi a proseguire senza ulteriori intoppi. Erano zone molto religiose quelle in cui si stava addentrando e roteò gli occhi all’idea di dover chiudere presto la sua camicia per quieto vivere.
Poco vicino, sorgeva infatti un importante monastero femminile con tanto di sezione dedicata alla clausura.
Si trattava di un edificio antico dall’aspetto rudimentale: un cancello di ferro da motivi di foglie d’acanto delimitava il suo perimetro – e se si alzava lo sguardo era possibile scorgere le cellette con tanto di finestre blindate.
Lì di fianco si ergeva anche un modesto parco che separava il complesso da uno degli ospedali privati più importanti della metropoli. Abitualmente era facile scorgere suore appartenenti all’Ordine fermarsi qui in attività contemplativa e di preghiera in osservanza dell’armonia con la natura.
Nell’attraversare un breve tratto della straduncola in ciottoli, s’imbatté a tal proposito in una comitiva di novizie; vestiti candidi, bianchi, simbolo di purezza e dedizione nel servire.
Lo sguardo incrociò quello di una delle più giovani, lì ferma ad assistere un malato; le gote s’imporporarono immediatamente, rendendole la faccia paonazza.
Kaeya Alberich era un uomo estremamente bello.
Alto, slanciato, dal volto gentile e modi galanti, il suo viso d’angelo e la sua lingua di fata erano una mistura fatta apposta per manipolare e spogliare le persone dinnanzi a lui; in altre parole, pericoloso.
Le sorrise nel suo passarle di fianco e questa, in un momento di trance, rimase a guardarlo sino a che – rendendosi forse conto di quanto successo – abbassò lesta gli occhi al pavimento, tornando imbarazzata al suo da farsi nel sentire inoltre un tossicchio distinto proveniente dalla sua superiore a qualche metro.
Kaeya, riconosciutala, onde evitarsi ulteriori rogne, la salutò subito con garbo: la priora Rosaria era forse una delle poche a non calcolare nemmeno di striscio quel fascino, al punto da riuscire persino a beffeggiarlo. La donna picchettó le dita contro il proprio braccio, fulminandolo in risposta…
Ma il giovane non ne parve così turbato ed in un cenno divertito, riprese marcia.
In realtà, per raggiungere l’ufficio della sua datrice, avrebbe potuto prendere una strada decisamente più veloce.
C’erano molte scorciatoie, eppure Kaeya parve non curarsene, prendendo di proposito un’allungatoia per la Piazza dell’Angelo.
Sbadigliò; dita affusolate a sporgersi verso le morbide labbra.
Man mano procedeva, il numero di persone sembrava diminuire sino al punto da potersi contare sulle dita.
Inusuale, certo, ma comprensibile, specialmente in quel posto.
Il rumore dei mezzi rompeva fragile  gli attimi di quiete. In lontananza si scorgeva una spoglia fermata di autobus. C’era come un’aria di irreale, una sensazione strana di sbagliato in quell’angolo preciso della città, quasi ne fosse addirittura separata; riusciva a percepirla perfettamente: tanto bastò a realizzare fosse rimasto totalmente solo.
Una farfalla rossa passò lui di fianco: un cremisi intenso che infastidiva lo sguardo, con diramate macchie di nero. Era incredibilmente grande rispetto alle specie del territorio, su quello non c’erano dubbi.
Tuttavia non fece in tempo a guardarla con più attenzione che uno strano bruciore ne colpì gli occhi: si ritrovò a toccare la benda quasi d’istinto, cercando di rilassare il proprio corpo in opposizione a quella misteriosa forza.
«Bel trucchetto.» mormorò stizzito tra i denti prima che il dolore cessasse in favore d’una solerte sensazione sgradevole a pervadergli la testa: la sentiva quasi leggera, melliflua; stava inibendogli i cinque sensi mentre le voci ovattate di sottofondo diventavano sempre più distinte.
Sollevò lo sguardo, opponendosi a quella bizzarra forza di gravità che l’opprimeva al mantenere l’iride bassa: un cielo tinto di rosso si manifestò dinanzi.
Sette figure in cima ad un palazzo volavano composte, quasi in un cerchio; vesti candide, capelli disciolti al flebile vento. Manifestazioni, alme vivae o semplici fantasmi: riuscì comunque a liberarsi da quelle costrizioni in qualche manciata di secondi, rompendo il legamento al brillare della pupilla e tranciandone i fili – invisibili ai normali umani - con un semplice coltellino.
D’abitudine, prese dalla tasca il suo pacchetto pacco di sigarette: l’aprì rapido, portando il filtro al labbro inferiore, quasi a stoccare flebilmente la carta chiara.
Senza rendersene conto finì ad attendere: fu solo quando si voltò che comprese qualcosa non andasse; socchiuse gli occhi per una manciata di secondi.
«Già, oggi non c’è.» aggiunse, togliendo via la cartuccia e riportandola al suo posto.
L’immagine di fiamme rosse, vive, prese forma di una figura familiare nei suoi pensieri.
Il fuoco era sempre stato un elemento intrigante sin dall’antichità, un continuo associarsi di purificazione e distruzione: eppure, pensando alle sue fiamme, Kaeya non ne aveva paura, non c’era né tentennamento né scalpore. Avrebbe voluto bruciare al loro tocco.
Scosse il capo, cercando tra le tasche. «E non ho l’accendino, sembra.»
Un ‘tch’ scocciato a perturbare il silenzio, prima di allontanarsi e riuscire a muovere qualche passo in avanti, scostando un paio di ciocche cadute davanti al viso: tanto bastò perché l’illusione si sgretolasse.
La fermata dell’autobus non era distante se non pochi metri e con senno del poi distaccarsi fu estremamente piacevole.
Si domandò, mentre saliva le scalette del mezzo, quanto sarebbe riuscito a resistere prima che l’Altro iniziasse i suoi sproloqui su tutta quella situazione…
Dopo aver preso posto, concordò con sé stesso il non indugiare oltre certe questioni, sfilando l’mp3 e mettendo le cuffie nelle orecchie.
Stavolta riuscì finalmente a premere quel tasto d’avvio; non c’era musica in quella specifica cassetta, quanto piuttosto la registrazione del mellifluo ticchettio della pioggia.
Prese un respiro, poggiando il capo contro il sedile in pelle, prima di immergersi completamente in quel mondo fatto di visioni.

Due ragazzi di quattordici anni a correre tra le strade della vecchia vineria, giocando tra foglie verdi delle vigne.
Grappoli d’uva violacei e succosi a macchiare le camicie chiare in quella battaglia nel prendersi, sino a rantolare nell’erba nonostante il rombo del temporale imminente.
In un balzo, quel se più piccolo afferrò uno dei tanti vasi, il vecchio ramoscello puntato contro l’altro ragazzino.
«Andiamo sir Diluc, tutto qui quello che sa fare?» blaterò provocatorio al vedersi raggiunto e pronto ormai al temibile duello.
Il compare tuttavia si ritrovò piuttosto a riderne. «Sembri uno di quei cavalieri farlocchi nei libri di Adelinde!»
Kaeya rispose in scherno. «Ah si?» gufò, guardandosi intorno ed afferrando prontamente una delle coroncine di fiori fatte qualche ora prima –appoggiate su una vecchia botte sotto il portico posteriore della tenuta. La pose sul capo di Diluc senza pensarci ulteriormente. «Ecco: ora tu sei addirittura il re dei cavalieri farlocchi, sua Maestà, sebbene il tuo cavallo in realtà sia un asino!»
Oh! Ora si che il giovane dai capelli rossi l’aveva presa sul personale!
«Solo perché papà mi ha messo in punizione!» bofonchiò l’erede di quell’immensa fortuna, agitando rapidamente il bastoncino con le guance accese dalla vergogna. «E poi è stata anche colpa tua!»
Kaeya ne rise, alimentando quella fiamma viva con tanto di “Si, si, come no!” al punto che si ritrovarono nuovamente a terra, tra l’erba bagnata, ed in lotta per la supremazia l’uno su l’altro.
Poi quiete, il respiro appena affannato in un alquanto strano imbarazzo fatto di molteplici sensazioni: le ciocche vermiglie caddero contro il viso più scuro: si guardarono per un po’, prima che lo stesso Diluc si rivolgesse pancia a terra, sdraiandosi di fianco.
«Proprio una forza da gorilla.» argomentò. L’altro mugugnò un “Non è vero” infastidito prima dell’ennesimo riso.
Innocenza, mani che si sfiorano appena; titubanti.
«Facciamo una promessa, Kaeya.»
Le parole scandite, vivide mentre qualcos’altro si sovrapponeva confusamente in un costante discontinuo: ora adolescenti, l’uno di fronte all’altro; c’era un calice d’oro stavolta a rubare la scena, riempito del sangue delle loro stesse ferite: uniti fino alla morte – giuramento.

Il rumore provocato dall’ultima fermata, lo destò.
I colori del sogno avevano preso piano a sbiadire, avrebbe dovuto aspettarselo, era una mera questione di tempo prima che il passato tornasse a tormentarlo.
Sbadigliò, togliendo gli auricolari, sorridendo furbo nel notare qualche ragazza far cadere lo sguardo su di lui – eppure non attese oltre, scendendo rapido e muovendosi verso la piazza della fontana.
Detta anche ‘Piazza dell’Angelo’ era una delle strade più tranquille e più significative della cittadella; apparteneva al patrimonio storico con suoi palazzi e monumenti antichi che andavano dal tardo medioevo sino a stili rinascimentali.
La grande statua dell’Arcangelo Michele al centro - non ci voleva un genio per intuire fosse ciò che dava nomea a quella frazione - era uno dei simboli locali nonostante la sua storia fosse completamente sconosciuta
Secondo qualcuno c’era stata addirittura mano del famigerato artista italiano Michelangelo, secondo altri invece si trattava solo di leggende metropolitane, sostenendo che la scultura fosse stata voluta dal sindaco di 300 anni prima e realizzata da un copista locale.
Era posto, comunque, in posa conquistatrice, schiacciando il capo d’un diavolo sotto ai piedi: mano stretta e l’altra sguainante una spada.
Persino su quella posizione c’erano state teorie interessanti e fantasiose, come quella che indicasse con l’arma la porta dell’inferno, oppure dove le streghe vivessero o addirittura che mostrasse e avviasse ad uno spettro di magia cui faceva da catalizzatore. Insomma, ce n’era per tutti i gusti…
E chissà, forse nemmeno sbagliavano così tanto.
Kaeya sorrise mefistofelico nell’osservarla qualche attimo in più nonostante i rumori della gente circostante, mettendo rapido le mani in tasca allo scoccare di qualche altro minuto e seguendo infine la traiettoria con tanto di sbadiglio annesso.
Dopo essersi  inoltrato in una viottola che sembrava eternamente la stessa, quasi stesse proseguendo in tondo, e svoltato ben tre volte allo stesso svincolo, innanzi a lui nell’angolo di destra spuntò un portone dall’aspetto tutt’altro che mondano.
Legno di salice e noce a comporlo, con tanto di fattura nei particolari d'oro al dir poco magistrale.
Era molto ampio ed a prima occhiata decisamente pesante: l’elemento che spiccava di più tuttavia era la strana finestra circolare che ricordava chiaramente un rosone in miniatura d’una chiesa gotica.
Non c’erano disegni significativi, quanto piuttosto aguzzando la vista si poteva scorgere l’incisione di un simbolo: un triangolo con una specie di croce equilatera.
La maniglia aveva forma di serpente rappresentato col mangiare la propria coda; Ouroboros, eterno ritorno: Kaeya ne sorrise, perché in effetti nel suo caso era tremendamente vero.
Bussò tre volte e venne risposto con l’echeggio sempre più lento d’ogni botta ricevuta quasi fosse una specie di eco; le finestre della palazzina erano come opacizzate, notò, allontanandosi leggermente.
Al battere dell’ultimo rintocco, con un cigolio penetrante, il portone permise spiraglio, aprendosi il necessario per far proseguire all’interno la figura dell’uomo dai capelli blu.




 
note sui significati:
❧ In numero 3: Nella religione cristiana il numero tre è designato come numero perfetto, simbolo della trinità, in quella ebraica come santità.
In questo caso sebbene si implichi anche queste valenze, l'accenno più importante è alla religione Wicca e al cerchio magico, che bisogna 'aprire e chiudere' (vedesi Kaeya che svincola un tot di volte) rifacendosi in modo particolare alla legge "ogni cosa che facciamo torna indietro tre volte nel bene e tre volte nel male" - ecco il perchè dei tre rintocchi del portone.
 
❧ Il simbolo che Kaeya ha visto rappresenta il fosforo alchemico.
 
❧  Il termine Salice ha origini celtiche e il suo significato è “vicino l'acqua".
Da sempre il salice è considerato una divinità femminile, legato alla fecondità e ai cicli lunari e muliebri, secondo le leggende evocatore di pioggia e nebbie.
Il noce invece... Beh, lo scopriremo nel prossimo capitolo! ;)
   
 
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